Seminario per sacerdoti sulla procreazione responsabile
Settembre 1983/febbraio 1984
Mi propongo di elaborare una riflessione sul tema della procreazione responsabile. Mia intenzione è di tentare una definizione, la più rigorosa possibile, del suo concetto.
Dobbiamo, come premessa, fare un piccolo sforzo di precisazione di termini, anche perché questa espressione “procreazione responsabile” ormai è sempre più usata in contesti culturali ed in proposte di vita matrimoniale e familiare che con la proposta cristiana non hanno nulla da spartire. Il termine è divenuto, perfino, equivoco in certi casi.
PRECISAZIONE DI TERMINI:
“Procreazione” significa quell’atto personale compiuto dai due coniugi, l’atto sessuale, in quanto esso pone in essere le condizioni nelle quali può essere concepita una persona umana.
Dal 1978 in poi l’umanità ha conosciuto la possibilità non più solo teorica, ma pratica, di porre in essere queste stesse condizioni in modo diverso dall’atto sessuale coniugale, mediante la fertilizzazione in provetta. Ma non è tanto di questo che noi vogliamo parlare, né tanto meno vogliamo svolgere una riflessione etica su questi esperimenti.
Molto più complesso, invece, è il contenuto dell’altro termine, il termine responsabile.
La categoria della responsabilità, infatti, è una categoria centrale e nella riflessione sull’uomo in genere e nella riflessione etica in specie. Per procedere con una certa chiarezza nella definizione del concetto di responsabilità etica, perché è di questo che noi parleremo, dobbiamo partire da quella che è l’esperienza, vissuta quotidianamente da ciascuno di noi, di questa realtà che è la nostra responsabilità.
Quando noi diciamo, anche nel linguaggio comune, “una persona è responsabile di” o diciamo di noi “io sono responsabile di”, intendiamo dire che ciò di cui noi si afferma essere responsabili, comunemente un’azione, deve essere attribuito alla nostra libertà. In termini più brevi, siamo responsabili di un’azione soltanto se e quando di questa azione noi siamo gli autori. Si comprende che il concetto di responsabilità in questa sua prima dimensione è essenzialmente connesso con quello di libertà. Non si dà responsabilità, dunque, dove non si ha libertà. E la misura della responsabilità è coestensiva con la misura della libertà. Infatti, libertà significa il fatto che la persona umana possiede se stessa e pertanto è causa, nel senso pieno, di ciò che essa fa, come diremo più ampiamente.
Responsabilità dunque indica innanzitutto un certo modo con cui viene rapportata la nostra azione a noi stessi. Noi chiameremo questo primo aspetto della responsabilità la dimensione soggettiva della responsabilità morale.
Ma la responsabilità morale non può limitarsi a questa dimensione soggettiva. Infatti, sempre partendo dal nostro linguaggio quotidiano, quando noi diciamo “egli è responsabile di...” intendiamo indicare un “oggetto” di questa responsabilità. Se noi diciamo “i genitori sono responsabili dei propri figli” indichiamo non solo la dimensione soggettiva della responsabilità dei genitori ma anche ciò di cui essi sono responsabili. La responsabilità, dunque, è responsabilità di qualche cosa. Questo secondo aspetto, questa seconda dimensione della responsabilità, pertanto, noi la chiameremo dimensione oggettiva della responsabilità. La responsabilità, però, non può ridursi e non si conclude nella sua dimensione soggettiva e nella sua dimensione oggettiva. Infatti, quando noi parliamo comunemente di responsabilità intuiamo sempre o quasi sempre un rapporto tra colui di cui si afferma la responsabilità e le persone verso le quali si afferma questa responsabilità. L’uomo è responsabile di qualche cosa verso qualcuno. In ultima analisi, lo vedremo più avanti, questo qualcuno verso cui l’uomo è responsabile è solo e unicamente Dio stesso.
Noi chiameremo per brevità questa terza dimensione della responsabilità: la dimensione trascendente della responsabilità.
Il termine trascendente qui non ha solo il significato della trascendenza in senso religioso ma semplicemente intende dire che in forza della responsabilità, la persona umana si pone in un rapporto ben specifico, ben particolare, di cui dobbiamo parlare, con altre persone.
Con “responsabilità”, quindi, intendiamo indicare questa complessa e ricchissima esperienza che ogni persona umana fa, e nella sua dimensione soggettiva e nella sua dimensione oggettiva e nella sua dimensione trascendente.
Quando noi diciamo “procreazione responsabile”, noi intendiamo allora affermare che l’atto procreativo, nel senso in cui l’ho definito all’inizio, è un atto di cui sono autori gli sposi (dimensione soggettiva della responsabilità), è un atto mediante il quale e nel quale gli sposi diventano e sono responsabili di “qualche cosa” (dimensione oggettiva della responsabilità), ed infine intendiamo dire che quando gli sposi compiono l’atto procreativo, essi stessi istituiscono un rapporto con al tre persone (dimensione trascendente della responsabilità).
A questo punto la mia riflessione sulla procreazione responsabile, si soffermerà su queste tre dimensioni. Prima parlerò della dimensione oggettiva della responsabilità procreativa, poi della dimensione trascendente, ed infine, come terzo punto, parlerò della dimensione soggettiva, Capirete più avanti perché nella distribuzione della mia riflessione ho invertito l’ordine con cui ho definito il termine.
La dimensione oggettiva della responsabilità procreativa
Di che cosa esattamente si tratta? Fondamentalmente di questo: sia alla luce della retta ragione, sia alla luce della fede, in una corretta visione dell’uomo, quando la persona realizza se stessa mediante il suo agire, essa ha a che fare sempre con dei valori, in ragione dei quali l’atto della persona ha un suo prezzo morale.
Che cosa vuol dire “prezzo morale”? Questa espressione significa che nell’atto della persona è presente o sono presenti dei valori che valgono incondizionatamente, che valgono assolutamente: dei valori morali. Perciò quando noi parliamo della dimensione oggettiva della responsabilità procreativa, noi precisamente intendiamo affermare che l’atto procreativo — in quanto tale, cioè in quanto atto che pone le condizioni per il sorgere di una persona umana — possiede in se stesso e per se stesso un prezzo morale, una sua preziosità etica. Affermare l’esistenza di una dimensione oggettiva della responsabilità procreativa equivale ad affermare che l’atto procreativo — in se stesso e per se stesso considera to — possiede una sua propria verità (che esige di essere riconosciuta dalla libertà della persona). Quale è questa verità dell’atto procreativo?
Per rispondere a questa domanda partiamo da una constatazione molto semplice ma molto ricca di significato: come nelle speci viventi infraumane, anche nell’uomo noi troviamo una connessione tra la procreazione e l’attività sessuale. Nell’uomo tuttavia l’attività sessuale non ha solo il significato di essere precisamente funzione procreativa; essa in fatti porta inscritta la capacità e quindi l’esigenza di essere luogo, segno reale, del dono che gli sposi fanno l’uno all’altro di se stessi, della loro persona. Così nella sessualità umana noi troviamo questa connessione, questa compresenza di due capacità: la capacità procreativa e la capacità unitiva.
La domanda che ora sorge è la seguente: questa compresenza di due capacità nella sessualità umana è una compresenza semplicemente di fatto? oppure questo fatto porta inscritto in se stesso un valore in forza del quale le cose non solo stanno così, ma devono essere così, non possono non essere che così? Prima di iniziare a rispondere, una precisazione ovvia, ma necessaria. Non si dà sempre il fatto di questa compresenza, per la ragione che la sessualità umana non è sempre capace di procreare (periodi infecondi del ciclo femminile, età dei coniugi ...). La domanda, dunque, è se, quando la compresenza — di cui stiamo parlando — si verifica, essa è semplicemente un dato di fatto oppure no.
Per capire meglio la domanda ed in un certo senso per riformularvela, quindi per rendervi più facilmente consapevoli di quel la che è la posta in gioco di ciò di cui stiamo parlando, facciamo ancora qualche osservazione.
Nell’universo delle cose, cioè nella realtà di cui noi abbiamo esperienza ogni giorno e durante la nostra vita, noi osserviamo spesso che esistono delle connessioni fra fatti diversi, delle vicinanze, delle contiguità. Faccio qualche esempio. Partiamo dall’esempio più banale di questo mondo: il condotto che consente al mio corpo di nutrirsi, che porta il cibo allo stomaco, è molto vicino, per un certo verso è identico, al condotto che porta aria ai polmoni; quel la parte dell’organismo svolge due funzioni. Primo esempio.
Secondo esempio: la ragione umana ed anche la ragione credente ha sempre provato una sorta di scandalo del fatto che si osserva spesso che l’onestà morale non è sempre connessa con la felicità e viceversa. Perché è scandaloso questo fatto? Perché noi intuiamo che la connessione tra onestà morale e felicità non è una connessione dello stesso genere di quella vigente tra l’attività respiratoria del nostro corpo e l’attività nutritiva. Nel primo caso, infatti, si tratta di una connessione che deve esserci, che non può non esserci; quella connessione esprime cioè un’esigenza propria della realtà stessa, e quindi porta inscritta in se stessa un valore, un prezzo morale assoluto, incondizionato. Mentre invece nell’altro esempio è così ma al limite potrebbe anche non essere così.
Ora, la nostra domanda sulla dimensione oggettiva della responsabilità dell’atto procreativo è questa: se la compresenza — quando essa si dà — nella stessa sessualità umana della capacità procreativa e della capacità unitiva è una compresenza di quella del primo tipo oppure invece dell’altro tipo. Noi affermiamo che questa connessione non è solo un dato di fatto ma è una connessione che porta inscritta in se stessa una preziosità, un prezzo tale per cui essa — quando si dà — non può essere spezzata e dove io la spezzassi, la rompessi, io sono responsabile di dilapidare un patrimonio, una ricchezza incomparabile, impagabile. In ultima analisi rovino la preziosità stessa della mia persona. Non agisco responsabilmente.
Perché noi diciamo che si tratta di una connessione di questo genere? Si potrebbero portare tante ragioni per affermare questo, mi limito solo a portarne una, perché poi è quella che ci servirà in altri momenti della nostra riflessione.
Ogni singola persona umana è creata immediatamente e direttamente da Dio, nessuno di noi nasce dal caso o è concepito dalla necessità. Ciascuno di noi è concepito innanzitutto nel cuore di Dio ed è voluto direttamente da Dio e se esiste è perché Dio lo ha voluto.
Per ogni singola persona umana è cosi: ogni singola persona è creata da Dio.
Ma dobbiamo porci la domanda: quale è esattamente il momento in cui Dio ci ha creati, il momento in cui Dio ha attuato questa Sua decisione di porci in essere? È semplice, nel momento in cui ognuno di noi è stato concepito. In quel momento Dio l’ha creato.
Da questo allora noi comprendiamo che l’atto procreativo degli sposi, nella sua verità più profonda, è con-creazione con l’attività di creazione di Dio. È la persona che è generata mediante la generazione del corpo; è la persona che è creata mediante la creazione dell’anima.
Nessuna madre o nessun padre qui presente si sente di dire di essere madre o padre del corpo del loro figlio, ma sono madri e padri del loro figlio. Maria è madre di Dio nel senso vero e proprio, anche se dal punto di vista biologico da Maria il Verbo ha preso solo il corpo. La Chiesa nella sua fede dice che essa non è la Madre del corpo di Cristo ma è la madre del Verbo, è la madre di Dio.
L’attività procreativa diventa un’opera di cooperazione: in fondo questa è la cosa mirabile dell’atto procreativo. In concreto si ha il congiungimento, l’incontro fra l’atto creativo di Dio e l’atto procreativo dell’uomo e della donna. Nella sua verità più profonda quindi non si dovrebbe parlare di atto procreativo o procreazione ma di concreazione, di atto concreativo. Dio che non ha voluto avere cooperatori quando ha dato origine all’universo vuole avere cooperatori quando dà origine a quello che è il capolavoro di tutto l’universo, il vertice della realtà creata cioè l’uomo.
Continuando questa riflessione, se Dio vuole la cooperazione dell’uomo e della donna è evidente che questa cooperazione deve essere una cooperazione tra persone e di persone, non di cose, cioè una cooperazione in fondo che è partecipazione dell’attività creatrice di Dio. L’attività creativa di Dio è, nella sua essenza più intima, un’attività di amore. Perché? Perché è un’attività gratuita. Dio non ha bisogno di nessuno di noi, nessuno di noi è necessario. Se ci siamo è perché Dio ci ha voluti gratuitamente e liberamente.
La partecipazione dell’uomo e della donna all’attività dell’atto creativo di Dio non può non essere un atto radicato in un’attività di amore, non può non essere che così. Ecco la ragione per cui non per caso avviene che sia lo stesso atto quello con cui gli sposi si donano nell’amore a vicenda e a porre in essere le condizioni da cui può essere concepita una persona umana.
Un’obiezione, a questo punto, è che la vita umana può essere concepita anche in conseguenza di una violenza carnale. L’obiezione è inconsistente. L’obiezione semplicemente dice che l’uomo può rompere, dilapidare la preziosità inscritta in questa connessione fra amore e procreazione. In realtà è talmente libero da poter agire irresponsabilmente.
Un’altra obiezione. L’argomentazione dimostra troppo: qui nimis probat, nihil probat! Infatti, essa porta a concludere che anche la decisione libera e consapevole del ricorso ai periodi infecondi sarebbe in se stessa eticamente illecita. Essa, infatti, mette in atto un esercizio della sessualità coniugale che, deliberatamente, esclude la possibilità stessa di una procreazione, rompendo cosi quella connessione di cui si è parlato. Rispondo per punti.
Primo. La domanda a cui abbiamo risposto è la seguente: “quando la sessualità umana è in grado di procreare e, quindi, quando essa porta inscritta in se stessa la duplice capacità di cui sopra, il coniuge può compiere l’atto coniugale privandolo nello stesso tempo della sua capacità procreativa?” La domanda non era: “l’atto coniugale è lecito solo quando può dare origine ad una vita umana?”. Le due domande non sono identiche e non vanno confuse. La seconda, infatti, pone il problema della portata etica di un imperativo etico affermativo — quello di procreare — e gli imperativi etici affermativi obbligano sempre, ma non pro semper: possono cioè esserci motivi proporzionatamente gravi per non procreare. La prima, invece, riguarda l’esistenza o non di un imperativo etico negativo — quella di non privare la sessualità umana della sua capacità procreativa, quando ne è in possesso — e gli imperativi etici negativi obbligano sempre e pro semper: non potranno mai esserci motivi che giustificano il male morale, assolutamente mai. La seconda domanda, quindi, si riconduce a questa: quali sono le ragioni sufficienti per una coppia di sposi per non procreare? La prima domanda, invece, si riconduce a questa: la presenza nella sessualità della capacità procreativa è un dato puramente biologico oppure invece è un valore etico?
Secondo. A questa domanda noi rispondiamo affermativamente, rispondiamo cioè che il coniuge non può compiere l’atto coniugale privandolo della sua capacità procreativa di cui è in possesso (= contraccezione), dal momento che l’insidenza (quando si ha) di questa nell’esercizio della sessualità coniugale non è un semplice dato di fatto, ma un’esigenza etica, per la ragione che abbiamo detto che più avanti approfondiremo. L’inscindibilità di cui parliamo, quindi, non è un termine descrittivo di una situazione di fatto: esistono periodi, infatti, nei quali la sessualità non è capace di procreare. È un termine etico: quando la sessualità coniugale è capace di procreare non deve esserne privata. Per cui, quando esistessero ragioni sufficientemente gravi per non procreare, l’unica via eticamente possibile è l’astinenza dai rapporti coniugali durante i periodi fertili.
Terzo. L’obiezione rivela, alla fine, una concezione soggettivistica nel senso che l’intenzione-decisione di chi agisce è considerata come l’unica fonte di moralità dell’atto della persona. Poiché, si dice, identica è l’intenzione-decisione sia di chi ricorre alla contraccezione sia di chi ricorre al metodo naturale, non procreare cioè, identico deve essere il giudizio etico nei due casi ed identico il criterio per formulare questo giudizio, l’analisi cioè della sufficienza o non delle ragioni per prendere questa decisione. In realtà, però, supposta la legittimità morale della decisione di non procreare, se la capacità procreativa eventualmente inscritta nella sessualità fosse eticamente irrilevante, l’obiettante avrebbe ragione. Ma è precisamente questa irrilevanza che neghiamo.
Concludendo questo punto, in che cosa consiste la dimensione “oggettiva” della responsabilità procreativa? Consiste nel fatto che la libertà dei coniugi, nell’esercizio della loro sessualità — quando questa è in grado di procreare — non deve privarla della sua capacità procreativa.
La dimensione trascendente della responsabilità procreativa
Verso chi gli sposi sono responsabili quando compiono l’atto procreativo? Si tratta soprattutto di una responsabilità verso Dio.
Cosa significa essere responsabili verso Dio? Vuol dire molto semplicemente riconoscere la verità di sé davanti a Dio. Questa è la nostra responsabilità: riconoscere che Dio è Dio e noi non siamo Dio ma siamo sue creature.
Quando noi abbiamo un atto irresponsabile, nel senso che l’atto coniugale non rispetta questa dimensione della responsabilità verso Dio? Fondamentalmente in due modi.
1) Una prima forma la si ha nell’immotivato rifiuto della paternità e maternità. Questo è un punto su cui dobbiamo riflettere. Siamo arrivati al punto in cui chi deve giustificarsi davanti alla pseudo-cultura di oggi è lo sposo e la sposa che hanno figli e non chi invece rifiuta per un qualsiasi motivo la maternità-paternità. Perché questa è irresponsabilità? Perché, davanti a Dio, è il rifiuto di riconoscere la propria verità di sposi, la cui vocazione è quella di essere cooperatori dell’amore creativo di Dio. La verità di Dio non viene riconosciuta perché si attribuisce a se stessi l’ultima decisione di dare o non dare origine alla persona umana, ci si attribuisce la qualifica di arbitri ultimi della vita. Questo spiega fatti a prima vista estremamente contrastanti fra loro: da una parte la nobilitazione della contraccezione, dall’altra fatti come la fertilizzazione in vitro pur di avere un figlio. A prima vista potrebbero sembrare contrastanti ma credo che alla base ci sia una stessa concezione: la vita di una persona umana in ultima analisi è decisa dall’uomo, perché è l’uomo l’arbitro ultimo della vita umana.
Irresponsabilità di fronte a Dio significa questo e la sua prima espressione è il rifiuto della procreazione.
2) L’altra forma di irresponsabilità davanti a Dio è, per la stessa ragione, la contraccezione perché in questo modo quando si priva la sessualità umana della sua capacità procreativa, quando essa ne è in possesso, l’atteggiamento è sempre lo stesso; l’arbitro ultimo della vita umana è l’uomo e non Dio. È questo un punto che merita di essere approfondito. Che cosa, dal punto di vista teologico, significa ultimamente l’atto coniugale quando è in grado di dare origine ad una persona umana? Esso costituisce lo “spazio” nel quale Dio stesso può compiere il suo atto creativo, poiché ogni persona umana è creata da Dio. Nel momento in cui e per il fatto che gli sposi decidono di compiere un atto coniugale in grado di procreare (= nei periodi fecondi), per ciò stesso Dio come creatore può entrare in azione nel e per il loro stesso atto coniugale. D’altra parte, con la contraccezione nello stesso momento gli sposi impediscono a Dio di essere creatore. E con ciò essi, in fondo, non riconoscono più né la verità di Dio né la verità di se stessi. Agiscono irresponsabilmente.
Continuiamo nella nostra riflessione sulla dimensione trascendente della responsabilità. Proprio perché l’atto concreativo ha come termine una persona umana esiste una responsabilità verso questa nuova persona umana che può essere concepita.
Cosa significa responsabilità verso una nuova persona umana? Significa riconoscere la verità di questa persona umana, riconoscere che essa è persona umana. A questo punto rientra quella riflessione secondo la quale è irresponsabilità verso questa persona, il darle origine o comunque porre le condizioni per cui essa può essere generata, quando prudentemente si prevede che essa non potrà avere tutto ciò a cui come persona umana ha diritto, per esempio l’educazione sufficiente e così via.
Ma dato ancora che l’atto procreativo pone in relazione i due sposi c’è una responsabilità precisa in quel momento verso l’altro coniuge, e anche qui c’è una responsabilità che è riconosci mento della verità dell’altro coniuge, della verità della sua persona e della verità rispettivamente del suo essere sposa, del suo essere sposo.
La dimensione soggettiva della responsabilità procreativa
La dimensione soggettiva indica il fatto che la persona umana è la causa dei suoi atti ed in questo senso, dicevamo fin dall’inizio quando abbiamo precisato i termini, il concetto di responsabilità è semplicemente impensabile se non lo si connette, se non lo si pensa insieme al concetto di libertà. Libertà che si radica nel dominio di sé, quindi nel possesso di se stessi. Queste sono infatti le condizioni fondamentali perché si dia un esercizio della libertà della persona umana. Non c’è libertà in quella persona che non si possiede, ci sarà emotività, istintualità, passionalità, ma gli atti che hanno origine dall’emotività, dall’istintualità, dalla passionalità, non sono atti della persona, sono atti semplicemente che accadono nella persona, ma non della persona. Essi non nascono da questo profondo possesso, da questo conseguente dominio che la persona ha di se stessa.
Allora la dimensione soggettiva della responsabilità significa quella dimensione della responsabilità per la quale gli sposi hanno raggiunto un possesso, un dominio di se stessi tale che l’atto procreativo è veramente un atto della persona, non solo un atto che accade nella persona. In quanto tale è un atto responsabile, nel senso che riconosce e rispetta la preziosità propria dell’atto procreativo (dimensione oggettiva) ed istituisce un corretto rapporto, un rapporto di verità verso Dio, verso la persona che verrà concepita, verso l’altro coniuge (dimensione trascendente).
Ho trattato in ultimo la dimensione soggettiva della responsabilità perché in un certo senso questa è un po’ la sintesi, la condizione fondamentale per cui le altre due dimensioni della responsabilità procreativa possono realizzarsi.
Conclusioni
Alla luce di quanto abbiamo detto, appare la differenza essenziale — e dal punto di vista teologico e dal punto di vista etico — fra metodo naturale e contraccezione. Ridotta al suo nocciolo essenziale, questa differenza può essere espressa in questo modo: il ricorso al metodo naturale è l’unica via per realizzare la procreazione responsabile nella sua triplice dimensione; la contraccezione viola il valore etico della procreazione responsabile. Dal punto di vista pastorale, si deve fare attenzione che la presentazione dei metodi naturali deve sempre essere compiuta nella luce e nel contesto della verità intera della procreazione responsabile, per evitare il rischio che essi siano in un qualche modo visti come ... ” il metodo contraccettivo cattolico”.
Esigenze di chiarezza espositiva hanno consigliato di trattare separatamente delle tre dimensioni della procreazione responsabile. In realtà, esse sono profondamente unite. Solo chi si subordina alla verità, chi si lascia governare da essa è veramente libero (= dimensione soggettiva della responsabilità): la verità di se stessi, della sessualità (= dimensione oggettiva della responsabilità) ed, in ultima analisi, la verità di Dio come Creatore (= dimensione trascendente della responsabilità).
La sintesi di tutto ciò che abbiamo detto si trova al n° 10 dell’Enciclica Humanae Vitae.
«Con ciò l’amore coniugale richiede negli sposi una coscienza della loro missione di “paternità responsabile”, sulla quale oggi a buon diritto tanto si insiste e che va anch’essa strettamente compresa. Essa deve considerarsi sotto diversi aspetti legittimi e tra loro collegati.
In rapporto ai processi biologici, paternità responsabile significa conoscenza e rispetto delle loro funzioni: l’intelligenza scopre, nel potere di dare la vita, leggi biologiche che fanno parte della persona umana» (= dimensione oggettiva della procreazione responsabile).
«In rapporto alle tendenze dell’istinto e delle passioni, la paternità responsabile significa il necessario dominio che la ragione e la volontà devono esercitare su di esse» (= dimensione soggettiva della procreazione responsabile).
«In rapporto alle condizioni fisiche, economiche, psicologiche e sociali, la paternità responsabile si esercita, sia con la deliberazione ponderata e generosa di far crescere una famiglia numerosa, sia con la decisione, presa per gravi motivi e nel rispetto della legge morale di evitare temporaneamente e anche a tempo indeterminato una nuova nascita.
Paternità responsabile comporta ancora e soprattutto un più profondo rapporto all’ordine morale oggettivo stabilito da Dio, e di cui la retta coscienza è fedele interprete. L’esercizio responsabile della paternità implica dunque che i coniugi riconoscano pienamente i propri doveri verso Dio, verso se stessi, verso la famiglia e verso la società in una giusta gerarchia dei valori» (= dimensione trascendente della procreazione responsabile).
«Nel compito di trasmettere la vita essi non sono quindi liberi di procedere a proprio arbitrio, come se potessero determinare in modo del tutto autonomo le vie oneste da seguire, ma devono conformare il loro agire all’intenzione creatrice di Dio, espressa nella stessa natura del matrimonio e dei suoi atti, e manifestata dall’insegnamento costante della Chiesa”.
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