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Comitato "Cardinale Carlo Caffarra"


"TIENI SALDO IL MIO CUORE"
Ritiro Mensile Sacerdotale
19 dicembre 2002

Mediteremo e pregheremo la terza lettera dell’Apocalisse: la lettera alla Chiesa di Pergamo.

1. La presentazione che Cristo fa di se stesso è estremamente sintetica: "Colui che ha la spada affilata a due tagli …". E’ questo un titolo cristologico che si trova anche in 1,18: "dalla bocca gli usciva una spada affilata a doppio taglio" ed anche 19,15 dove si fa un’aggiunta importante: "… per colpire con essa le genti".

Da vari testi paralleli risulta chiaramente che "la spada affilata" è una metafora della Parola di Dio [cfr. Is 49,2:ha reso la mia bocca come spada affilata; Os6,2: per questo li ho colpiti per mezzo dei profeti, li ho uccisi con le parole della mia bocca; Sap 18,15: la tua parola onnipotente dal cielo, dal tuo trono regale, guerriero implacabile, si lanciò in mezzo a quella terra di sterminio, portando, come spada affilata, il tuo ordine inesorabile; 2Tess 2,8: e il Signore Gesù lo distruggerà con il soffio della sua bocca; Eb 4,12: la parola di Dio è viva, efficace, e più tagliente di ogni spada a doppio taglio: essa penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito, delle giunture e delle midolla e scruta i sentimenti e i pensieri del cuore].

Nel loro insieme questi testi ci introducono agevolmente dentro al significato di questa metafora. La "parola di Dio" è portatrice di una sua forza intrinseca; essa quindi realizza ciò che dice; essa svolge una funzione di discernimento, di giudizio profondo nei confronti dell’uomo.

Se ora ritorniamo al testo dell’Apocalisse, Cristo nel suo rapporto colla Chiesa, in quanto è "colui che parla" alla Chiesa stessa, ci appare come colui che giudica la Chiesa: che si pone di fronte ad essa come discernimento. E correlativamente la Chiesa è collocata in rapporto a Cristo, alla sua parola, come al criterio fondamentale in base al quale verificare il proprio essere ed il proprio operare. Insomma, il Signore oggi ci domanda di porci di fronte a Lui per verificare la nostra fedeltà a Lui e alla sua parola.

Ma la lettera ci presenta anche, se così posso chiamarlo, un paradigma fondamentale e quindi ricorrente della condizione storica della Chiesa, in ragione della quale essa deve verificare la sua fedeltà a Cristo. Vediamo ora quali sono gli elementi costitutivi di questo paradigma.

"So che abiti dove satana ha posto il suo trono": "la vostra città dimora di satana". Il senso letterale immediato è ovvio: Pergamo è la città dove l’imperatore romano è venerato come un dio. Questo atto di idolatria per l’autore è il segno eminente del dominio che satana, l’anti-Dio, esercita in quella città: porre una creatura al posto o accanto a Dio. Ma questa parola ci invita a riflessioni ben più profonde.

Dove satana ha posto il so trono? Quale è la dimora di satana? Non c’è dubbio: è il mondo. E qui tocchiamo uno dei punti nodali della nostra meditazione.

Satana viene chiamato "il principe del mondo" [Gv 14,30]; che non vuol dire della creazione, ma capo del mondo, del regno cioè opposto a Dio [cfr. Mt 12,16]; del sistema, di quello "spirito oggettivo" che viene costruito contro Dio, la sua sapienza e la sua legge. In questo luogo satana ha posto il suo trono; questa è la dimora di satana. Ed è dentro a questo contesto che la Chiesa, la nostra Chiesa, vive ed abita: "so che abiti dove satana ha il suo trono".

Dentro a questa situazione si configurano inevitabilmente nella comunità cristiana due posizioni culturali. L’una è indicata dalle seguenti parole: "tu tieni saldo il mio nome e non hai rinnegato la mia fede"; l’altra è indicata dalle seguenti parole: "hai presso di te seguaci della dottrina di Balaam…".

La prima posizione. E’ quella del "fedele testimone"; di chi "tiene saldo il nome" del Signore; di chi non rinnega la fede nel Signore. E’ la posizione della testimonianza fedele a Cristo: una testimonianza solida, perseverante in un’unità profonda di vita e di destino col Cristo. E’ la posizione appunto di chi "tiene saldo il nome del Signore" e "non rinnega la fede del Signore". E’ un tipico parallelismo biblico che ha un suo confronto con 3,8 e 14,12: "tu resti fermamente attaccato alla mia persona e al mio messaggio, perché riconosci in me il solo Signore da adorare, e nella mia parola l’unico insegnamento da ascoltare". Ed Antipa è la perfetta espressione di questa posizione. Essa, dunque, consiste nell’essere e mostrarsi radicati in Cristo, "tenendo saldo" in un tempo di grave crisi l’insegnamento, il nome del Signore. Nel mondo, dove satana ha il suo regno, questi cristiani – in primo luogo Antipa – hanno mostrato la vocazione ed il senso della presenza della Chiesa: rendere sempre attuale la parola di Dio e la testimonianza di Cristo in un mondo ipnotizzato da altre parole.

La seconda posizione. E’ quella dei seguaci di Balaam. Attraverso il racconto biblico, interpretato secondo una tradizione rabbinica, vengono indicati quei fedeli che attirati da falsi maestri vengono a compromessi colla situazione in cui vivono, col mondo in cui si trovano. [Secondo alcuni studiosi dell’Apocalisse il tema di questa lettera a Pergamo non sarebbe altro che la controversia presente fra i cristiani di questa Chiesa sui rapporti che dovevano stabilire con la società pagana: cfr. I. Donegani, "A cause de la parole de Dieu et du témoignage de Jesus, EB, Gabalda ed., Paris 1997, pag. 447-448].

Ci eravamo chiesti: perché la Chiesa deve porsi in ascolto del Signore come di Colui che la giudica e che opera un discernimento? la risposta è perché la Chiesa vive nel mondo, e quindi è chiamata a tenere saldo il nome del suo Signore e non scendere a compromessi idolatrici. Su questo essa è giudicata e sarà sempre più giudicata; per questo Cristo è "colui che ha la spada a due tagli".

2. E’ dentro a questa Chiesa che noi ci troviamo. Dentro alla nostra Chiesa anche ciascuno di noi è chiamato a verificare se tiene saldo il nome del Signore, se non rinnega la fede in Cristo. Insomma è il nostro rapporto colla persona di Cristo e colla sua parola che lo Spirito ci chiede oggi di verificare. O – il che equivale – è la nostra fede in Lui che oggi dobbiamo verificare.

Dobbiamo partire dalla domanda radicale circa la nostra esistenza di cristiani e di sacerdoti: che cosa significa essere un credente in Gesù Cristo?

Un antifona del vespro di S. Andrea nella Liturgia bizantina dice: "Trovato il culmine di ogni desiderio, che nella sua amorosa compassione per noi si era rivestito della nostra natura, tu, o Andrea di mente divina, ti sei fuso con Lui con amore infuocato, gridando al tuo fratello: abbiamo trovato colui che i profeti nello Spirito hanno annunciato; vieni, lasciamo che la nostra anima e la nostra mente siano affascinate dalle sue bellezze".

Credere in Cristo significa avere riconosciuto in Lui "il culmine di ogni desiderio": la pienezza del bene della nostra persona. Cioè: Cristo, la sua persona diventa una presenza onnicomprensiva di tutta la nostra vita, per cui Egli è l’unico riferimento della nostra esistenza, fuori del quale essa non ha più senso. Ci sono stati uomini che hanno riferito la loro vita ad un’idea; che hanno ordinato la loro esistenza in vista di un ideale, per es. di giustizia. Il cristiano non ha come referente un’idea: ha una persona, Gesù Cristo. E’ l’essere in Cristo; è il radicarsi e fondarsi in Cristo, di cui parla continuamente S. Paolo; è il "dimorare" in Cristo, di cui parla S. Giovanni.

Come si concretizza quest’attitudine fondamentale, questa prospettiva di senso che definisce il cristiano? Come diventa storia quotidiana e vissuta? Questa è fatta dal nostro modo di pensare; dalle nostre scelte generate dai nostri giudizi di valori; dalle nostre azioni. Non è più il mio modo di pensare, che importa, ma quello di Cristo; le mie scelte sono generate dagli stessi giudizi di valore che ispirarono le scelte di Cristo; le mie azioni sono modellate quindi su quelle di Cristo. Il nostro "essere in Cristo" genera il nostro pensare, scegliere, agire, "come Cristo". Per chi crede in Lui non esiste dimensione o espressione della vita che non debba essere compresa e vissuta dentro alla coscienza del suo rapporto con Cristo. Vivere dentro questo rapporto è per il credente l’unico modo giusto e vero di vivere.

S. Kierkegaard ha visto bene che questo era il nodo della proposta cristiana, col quale si scontrava il principio di immanenza che ha generato il mondo moderno e sul quale non era possibile alcun compromesso: meglio male impiccati, scrisse, che bene sposati. Cioè: chi definisce il mio io è un Altro, non sono io stesso; e nello stesso tempo, questa è l’unica definizione interamente vera del mio io, nella quale solamente io ritrovo pienamente me stesso.

Certamente è un cammino lungo molto difficile. Ma il cammino non inizia neppure se non c’è questo consenso di fondo a lasciarsi "definire da Gesù Cristo", quest’obbedienza che ci dispone a lasciarsi determinare nei contenuti della propria vita da Gesù Cristo. E’ la grande preghiera ignaziana: "suscipe, Domine, universam meam libertatem".

Vorrei fermarmi brevemente su due aspetti dell’itinerario della fede, quelli che mi sembrano emergano dalla lettera dell’Apocalisse.

Il primo aspetto è la dimensione veritativa della fede. S. Tommaso ha scritto profondamente che l’atto del credente termina non ad una enunciazione, ma alla realtà stessa che conosciamo attraverso l’enunciazione. Ciò che il credente dice non esprime ciò che pensa lui, ciò che sente lui: esprime "come stanno le cose" dal punto di vista di Dio. Quando dunque dicevo che credere è "lasciarsi definire" da Gesù Cristo, ciò significa in primo luogo una apertura non in primo luogo ad un universo di linguaggio, ma alla realtà stessa. Se, per esempio, la fede dice che non c’è salvezza fuori di Gesù Cristo, non sto esprimendo un’opinione, quella della Chiesa, ma sto adeguando il mio essere ed il mio esistere alla realtà, quella di un uomo che ha necessità di essere salvato e di un uomo che solo nell’incontro con Cristo trova la verità su se stesso. E’ un cammino, quello della fede, che ci porta dall’immaginazione alla realtà: è una vera e profonda purificazione da ogni volontà di essere noi misura del vero. Ritroviamo la famosa definizione di Aristolete e S. Tommaso della verità: "la verità è la conferma dell’intelligenza alla realtà". La realtà di cui si parla non è quella fenomenica, quella che appare, ma quella che è".

Il secondo aspetto dell’itinerario della fede è il suo volgersi alla storia di Gesù Cristo. Se non vado errato, è stato soprattutto Francesco d’Assisi ad insegnarci questo. L’avvenimento Gesù di Nazareth non è uno dei tanti avvenimenti che hanno avuto un grande influsso sulla storia. "La storia trova il suo significato totalmente ed esclusivamente nella storia di Gesù. Gesù di Nazareth è l’unico avvenimento, l’unico episodio che dà senso alla storia" [G. Moioli, Va’ dai miei fratelli (Gv 20,17), Glossa ed., Milano 1986, pag. 26]. Pertanto il volgersi a quell’avvenimento per essere pienamente determinati nei contenuti del nostro pensare, nelle ragioni delle nostre scelte, nella configurazione delle nostre azioni, è un’esigenza costante nel cammino di fede Gesù non è nato, per esempio, in un qualsiasi modo; non è nato in un qualsiasi luogo: e tutto questo esprime la verità assoluta del vivere umano.

"Tieni saldo il mio nome e non hai rinnegato la mia fede".

3. Ma questo è vero di ogni credente. Come si profila la fede del credente-sacerdote? Si caratterizza per lo "sguardo" che egli rivolge a Cristo; per la modalità propria con cui Cristo gli si mostra in quanto unico referente della sua vita: gli si mostra come Colui che dona Se stesso per la sua Chiesa, come lo Sposo della Chiesa. Chi definisce il nostro io sacerdotale è l’autodonazione di Cristo per la redenzione dell’uomo; chi determina nei contenuti il nostro pensare, le ragioni delle nostre scelte, la configurazione delle nostre azioni è la Passione e la morte di Cristo per l’uomo, per la redenzione della sua dignità.

Ora non si danno due definizioni della stessa realtà. Non possono esserci due definizioni della nostra vita; non si può nello stesso tempo tenere saldo il nome del Signore e tenere presso di sé i seguaci della dottrina dei Balaam. Insomma non si possono vivere più vite: chi vuole vivere due vite finisce col non viverne nessuna.

Non mi fermo ora a concretizzare questa prospettiva di senso che è la fede del sacerdote. Essa (mi limito ad accennare a questa esemplificazione) genera un’idea ed una esperienza precisa di libertà. E’ la libertà intesa e vissuta come totale servizio alla Chiesa, e – il che equivale – alla redenzione dell’uomo. La libertà non tocca il suo vertice nell’auto-possesso, ma nell’auto-donazione. Tante nostre tristezze, tanti nostri malumori hanno origine dal non vivere liberamente nel senso suddetto, perché solo chi ama gioisce: anche nelle più grandi tribolazioni.

4. Non possiamo terminare senza meditare sulle due promesse fatte a chi tiene saldo il nome del Signore.

La prima è il dono della manna nascosta. Questa è il nutrimento celeste; è la persona stessa di Cristo che entra in una comunione perfetta col suo sacerdote ["ti sei fuso con Lui con amore infuocato"].

La seconda è il nome nuovo. E’ cioè il rinnovamento completo del nostro essere, della nostra persona. La fede ci rigenera in quanto ricostruisce in noi il vero senso della vita.