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Comitato "Cardinale Carlo Caffarra"


Convegno Compagnia delle Opere - Bologna
Oratorio San Filippo Neri, 16 aprile 2005
CARITA’ E BENE COMUNE

La formulazione del tema del vostro incontro accosta due realtà, carità e bene comune, che formalmente appartengono a due universi distinti: l’universo dell’economia salvifica cristiana e l’universo dell’organismo sociale umano.

Tuttavia, e sarà questa una delle tematiche fondamentali della mia riflessione presente, le due realtà si complicano vicendevolmente.

Fatta questa premessa, posso già dire come si articolerà la mia esposizione. Dapprima cercherò di esporre la concezione cristiana di carità, e sarà il primo punto della mia riflessione; poi la concezione di bene comune, e sarà il secondo punto della mia riflessione; ed infine – ma sarà il momento più importante della mia riflessione – cercherò di individuare i rapporti esistenziali fra carità e bene comune.

1. La carità cristiana.

Una delle certezze che ha sempre abitato nella fede della Chiesa è che la carità trova la sua origine, la sua sorgente nell’Eucarestia. Mi basti citare un limpido testo di S. Tommaso d’Aquino.

Confrontando il sacramento del battesimo col sacramento dell’Eucarestia, Tommaso scrive: "il Battesimo è il sacramento della morte e della passione di Cristo in quanto l’uomo è rigenerato in Cristo in forza della sua passione. Ma l’Eucarestia è il sacramento della passione di Cristo in quanto [mediante essa] l’uomo raggiunge la perfezione nell’unione a Cristo nella sua passione. Pertanto, come il Battesimo è il sacramento della fede, che è il fondamento della vita cristiana, così l’Eucarestia è il sacramento della carità, che è il vincolo della perfezione" [3, q,73, a.3, ad 3um].

Si faccia bene attenzione: dalla perfezione nella nostra unione al "Christus patiens" dipende la perfezione della carità. Si istituisce un rapporto fra l’unione dell’uomo col sacrificio della Croce e la sua capacità di amare, la sua carità. È Cristo che dona se stesso sulla Croce, che mediante l’Eucarestia imprime la sua "forma vivendi" nel battezzato. La nostra umanità è formata secondo la forma di Gesù Cristo.

Per comprendere meglio possiamo partire dalle parole, dal comando di Cristo che istituisce l’Eucarestia: "fate questo in memoria di me". Che cosa è "questo"? È il corpo offerto per l’uomo; è il Sangue effuso in remissione dei peccati. È in una parola, l’auto-donazione di Cristo. Dicendo "fate questo" Cristo non intendeva solo dire: "celebrate la memoria della mia auto-donazione", ma anche "rivivete nella vostra vita la stessa auto-donazione". È come se ci dicesse: "amate come io ho amato sulla Croce". La vita diventa l’Eucarestia realizzata. Il rapporto che Cristo istituisce coll’uomo sulla CROCE viene – mediante l’Eucarestia – riprodotto nel battezzato. Come era il rapporto di Cristo? Quale era la sua radice? È questa una domanda fondamentale per avere un’intelligenza vera della carità cristiana.

Il gesto compiuto da Cristo sulla Croce trova la sua radice nell’obbedienza al Padre; nell’amore di Cristo che dona se stesso prende corpo, diventa visibile lo stesso amore del Padre verso l’uomo. È l’amore stesso del Padre che sta all’origine dell’amore di Cristo. Obbedienza al Padre significa lasciarsi trasportare dal suo movimento di amore verso l’uomo: radicare Se stesso in questa decisione del Padre di amare l’uomo.

Il dono quindi che Cristo fa di se stesso all’uomo non ha nell’uomo medesimo la sua ragione ultima; non trova la sua motivazione ultima nell’uomo, ma nella decisione del Padre di amare comunque l’uomo. L’autodonazione di Cristo sulla Croce è la traduzione umana di questa decisione. Mediante l’Eucarestia "questo" si imprime nel battezzato: "fate questo", dice il Signore.

Attraverso l’Eucarestia si costruisce quindi la nuova comunità nel nuovo Adamo dentro alla vecchia umanità radicata nel vecchio Adamo. Questo nuovo organismo della carità è la Chiesa.

Tuttavia se l’Eucarestia costituisce la Chiesa, non lo fa per costituire un giardino chiuso, ma lo fa per divenire fermento nel mondo. Come ha insegnato il Concilio Vaticano II: "la Chiesa è in Cristo come sacramento, cioè segno e strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano" [Lumen Gentium 1,1: Ev 1/284]. Certamente dalla dottrina eucaristica non posso dedurre nessuna dottrina politica, sociale, economica. Tuttavia l’avvenimento dell’auto-donazione di Cristo all’uomo, che mediante l’Eucarestia diventa la sua forma vivendi, non può rimanere estraneo al modo con cui il cristiano pensa la politica, la società, l’economia, ed opera dentro a queste realtà.

Ma con questo siamo già entrati nel secondo momento della nostra riflessione, il tema del bene comune.

2. Il concetto di bene comune.

È necessario che definiamo che cosa intendiamo, più modestamente che cosa intendo per bene comune. È una categoria fondamentale nella nostra riflessione.

Possiamo partire da una definizione molto superficiale. Bene è ciò che mi realizza; bene comune è ciò che realizza i membri di tutta una comunità.

Questa definizione diciamo ancora nominale può essere capita in due modi, in realtà. Realizza i membri di tutta la comunità nel senso che è un bene di cui tutti partecipano: la pulizia dell’aria che respiriamo è un bene comune perché di essa ciascuno ha bisogno come organismo vivente. Bene comune quindi significa bene di cui ciascuno è proprietario, meglio a cui ciascuno è ordinato.

Oppure un bene è comune nel senso che è ciò che si propongono di raggiungere assieme i membri della comunità. Un cantiere edile è un insieme di persone che si propone la realizzazione di un edificio: la costruzione dell’edificio è il bene comune dell’impresa edile.

I due esempi non sono stati scelti a caso. Essi ci aiutano a capire che due sono le dimensioni costitutive del bene comune: una dimensione oggettiva ed una dimensione soggettiva. L’aria è un bene dato ed indipendente dall’agire dell’uomo: dimensione oggettiva. Il grado di inquinamento, e quindi la custodia del bene-aria, è frutto dell’agire dell’uomo: dimensione soggettiva.

L’esempio era desunto da qualcosa di esterno all’uomo: era più semplice iniziare in questo modo. Esistono però beni che sono insiti nella persona stessa. Più precisamente, poiché stiamo cercando di comprendere che cosa è il bene comune, partiamo dal fatto della società umana. L’uomo vive in società; l’uomo è orientato a vivere in società con gli altri uomini. Domandiamoci: vivere in società è un bene dell’uomo? A questa domanda possiamo rispondere in due modi fondamentalmente. È un bene in quanto vivere in società serve alla realizzazione del mio bene proprio. La società è un bene comune utile. Oppure possiamo rispondere che è un bene in quanto vivere in società esprime e realizza la natura stessa dell’umanità della persona. La società è un bene comune, in sé e per sé.

Fermiamoci a considerare queste due concezioni della socialità umana in quanto bene comune. La prima nega che esista un bene comune che non sia semplicemente funzionale al bene del singolo, e pertanto riduce il bene comune ad un insieme di condizioni che consentano al singolo di realizzarsi. In senso vero e proprio esiste solo il bene del singolo, il quale tuttavia non potendosi raggiungere senza il concorso degli altri, esige che si ponga in essere questo stesso concorso e le condizioni perché si ponga in essere.

La seconda concezione del bene comune è profondamente diversa. Esiste un bene comune che non è semplicemente funzionale al bene del singolo, in quanto il bene del singolo è raggiunto nel [realizzare il] bene comune. E siamo così arrivati al fondo della questione sul bene comune, che è la questione antropologica. Le due concezioni di bene comune esprimono infatti due concezioni della persona umana. Per ragioni di tempo sono costretto ad essere molto schematico.

L’umanità che mi costituisce e mi definisce è un’umanità originariamente partecipata; è una co-umanità. Pertanto è impensabile ed irrealizzabile il mio bene prescindendo dal bene di ogni altro o ancora meno contro il bene di ogni altro, poiché il mio bene è il bene di ognuno: è un bene comune.

L’antropologia che pensa in questo modo il bene comune ha elaborato la categoria di "prossimo" [superlativo di prope]. Essa connota la partecipazione di ogni uomo nella stessa umanità; e questa partecipazione è più profonda di qualsiasi altra partecipazione. Il bene comune è il bene che consiste nella prossimità: è il bene della prossimità.

Oppure l’umanità che mi costituisce è un’umanità originariamente individualizzata [indivisum in se et divisum a quolibet alio]. Pertanto non esiste bene comune nel senso di una realizzazione di se stesso che accade nella realizzazione dell’altro, ma solo nel senso che l’uno ha bisogno dell’altro. Più che di bene comune si deve parlare di interesse comune. O meglio: il bene comune è la convergenza di interessi divisi e non raramente opposti.

Si ha la divaricazione fra due definizioni di uomo: uomo-persona; uomo-individuo.

Se ora ci poniamo maggiormente sul versante soggettivo, sul versante cioè della persona che agisce, possiamo comprendere che di ben diversa natura è la partecipazione al bene comune a seconda dell’una o dell’altra definizione oggettiva del medesimo.

Se la costruzione del bene comune è pensata secondo l’antropologia dell’uomo-individuo, la partecipazione è sostanzialmente orientata al proprio interesse e pertanto è determinata nei suoi contenuti e nella sua misura dal medesimo: non oltre.

Se la costruzione del bene comune è pensata secondo l’antropologia dell’uomo-persona, la partecipazione è sostanzialmente orientata a ritrovare se sesso [il proprio bene] nell’affermazione dell’altro, cioè nell’amare il prossimo come se stesso. E siamo al terzo punto della nostra riflessione.

3. Carità e bene comune.

Ponendo in rapporto i due termini, carità e bene comune, ci rendiamo conto che la realizzazione del bene comune inteso nel secondo significato può essere affidata solo alla carità. Vorrei ora riflettere precisamente su questo.

La carità data la sua origine pasquale-eucaristica, inserisce dentro ai rapporti umani, alla costruzione del bene comune, una forza, un "tessuto connettivo" di natura divina: è lo stesso amore del Padre che ci viene comunicato in Cristo. Come è detto nel Vangelo secondo Giovanni: "l’amore con il quale mi hai amato sia in essi ed io in loro" [Gv 17,26]. È questa forza che riesce a reintegrare nell’unità l’umanità disintegrata dalla divisione.

La carità opera questa reintegrazione generando alcune attitudini fondamentali per la costruzione del bene comune ed immunizzando la persona da altre attitudini che sono distruttive del bene comune. L’analisi sarebbe lunga e complessa. Mi limito solo ad accennarne una positiva ed una negativa, che mi sembrano quelle fondamentali di segno contrario.

La carità genera la solidarietà. La solidarietà è la capacità di agire coerentemente al bene comune, al bene del prossimo. Al bene cioè che è la partecipazione nella stessa umanità. Ma si deve tener presente che il bene dell’umanità che costituisce e definisce ogni persona, si realizza solo nel possesso dei beni che sono propri dell’uomo come tale. Giungiamo così al significato più profondo di solidarietà. "Coloro che contano di più, disponendo di una porzione più grande di beni e di servizi comuni, si sentano responsabili dei più deboli e siano disposti a condividere quanto possiedono. I più deboli, da parte loro, nella stessa linea di solidarietà, non adottino un atteggiamento puramente passivo o distruttivo del tessuto sociale, ma, pur rivendicando i loro legittimi diritti, facciano quanto loro spetta per il bene di tutti" [Lett. Enc. Sollecitudo rei socialis 30ù9,1; EE 8/952].

La solidarietà è la carità che diventa attivamente consapevole di quella comunicazione ed interdipendenza di ogni uomo nello stesso bene.

La carità immunizza la persona dal conformismo. Il conformismo è la rinuncia a partecipare alla costruzione del bene comune sia rifugiandosi nel proprio benessere sia uniformandosi semplicemente alla mentalità comune. Il conformismo, inteso in questo senso, nasce in fondo dal rifiuto della persona di trascendere se stessa mediante la scelta e l’autodeterminazione vero il bene comune.

Il conformismo è uno degli atteggiamenti più distruttivi del bene comune. In una situazione nella quale le persone rinunciano alla loro creatività adeguandosi solo esteriormente alle esigenze della comunità per averne vantaggi o per evitare danni, sia la persona sia la comunità subiscono danni irreparabili. La carità immunizza da questa attitudine perché è il contrario del conformismo: è per sua natura inesauribilmente e genialmente creativa del bene comune.

Termino la mia riflessione aprendo la porta ad un altro ordine di riflessione che però non è più di mia competenza. Per questo mi devo limitare ad aprire solo la porta invitando altri ad entrare.

La "prossimità" si contestualizza nelle varie comunità, nelle varie appartenenze. Per questo la dottrina cristiana ha sempre pensato che esista un ordo charitatis: un ordine nella e della carità. È dunque necessaria che la compenetrazione fra la prossimità e la comunità che la concretizza storicamente, sia articolata in modo tale che la seconda non si sradica dalla prima: l’essere italiani, per esempio, costituisce un’appartenenza [la nazione], ma questa comunità non deve sradicarsi dall’essere prossimi di ogni uomo.

La corretta articolazione e compenetrazione dei due aspetti è assicurata dal principio architettonico della sussidiarietà. Solo questo stile architettonico rende possibile alla carità di generare solidarietà e di immunizzarci dal conformismo, perché rende possibile una reale partecipazione nella costruzione del bene comune.

Come questo debba tradursi nel sistema politico, sociale, economico non è più compito mio dire.

È la rigenerazione dell’humanum operata dalla carità di Cristo che rende possibile l’edificazione di una dimora, di un ethos solidale: "se uno è in Cristo, è una creatura nuova; le cose vecchie sono passate, ecco ne sono nate di nuove" [2Cor 5,17].

Conclusione

Mi piace terminare con un testo del S. Padre Giovanni Paolo II che sintetizza in modo mirabile quanto ho cercato di dirvi poveramente. È tratto dal dramma Fratello del nostro Dio:

"ALBERTO – In ognuno di voi ho conosciuto la miseria e Lui. A lungo sono stati separati. Con tutte le forze ho cercato di avvicinarli. Perché prima tu eri un uomo misero e sulla tua miseria regnava la desolazione. Da quando ti sei avvicinato a Lui, la tua caduta si è trasformata in croce e la tua schiavitù in libertà".

SEBASTIANO – La schiavitù in libertà … la caduta in croce … Oh, sì, Alberto, oh, sì!…

ALBERTO – Il Figlio di Dio è tutta la libertà. Senza traccia di schiavitù.

ANTONIO – Ma che cosa importa? Che cosa importa che Egli sia tutta la libertà? Egli è stato una volta.

ALBERTO – Egli è sempre.

ANTONIO – Sì. Ci credo. Ci hai comandato di credere in Lui, di pregarLo, di imitarLo. Bene. Ci hai detto: siate poveri, perché Egli non aveva dove posare il capo. Bene. Ti abbiamo ubbidito volentieri, perché tu stesso hai fatto così. Non c’è stata menzogna in te. Eppure…

ALBERTO – Egli è sempre. Egli raggiunge continuamente le anime. E riproduce in esse… Se stesso!"

La relazione fra carità e bene comune è l’unificazione della miseria e del bisogno umano con Cristo e di Cristo col bisogno e la miseria umana. Se questa unificazione non accadesse, il bisogno umano non riceverebbe una risposta interamente vera, e Cristo sarebbe morto invano.

E che questo avvenimento accada anche oggi è perché "Egli è sempre. Egli raggiunge continuamente le anime, e riproduce in esse … Se stesso".