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Comitato "Cardinale Carlo Caffarra"


Corso di bioetica.
Capo primo: «Esperienza etica e mistero dell’uomo»
Lugano, 8 febbraio 1987


Sono molte le vie che possiamo percorrere per giungere ad avere una qualche intelligenza del mistero della persona umana. Ma, forse, quella che ci porta più addentro a questo mistero stesso è l’esperienza etica: essa è una grande e profonda rivelazione della verità dell’uomo.

 

1. 

In primo luogo, il nostro sforzo deve essere quello di “isolare” questa esperienza da tutte le altre di cui è intessuta la trama quotidiana della nostra storia. Per non confonderla con le altre, per vederla in se stessa e per se stessa. Per giungere a questo isolamento e a questa visione dobbiamo farci strada, aprirci un varco, per così dire, fra tutto ciò che accade nella nostra esistenza.

 

A) Iniziamo questo cammino osservando il complesso, molto ricco delle nostre attività; ci sarà facile discernere subito in esse una distinzione, una diversità assai profonda: alcune delle nostre attività accadono in noi semplicemente. Mentre sto scrivendo molte sono le attività che accadono in me: pensiamo a tutte le attività che stanno accadendo nelle cellule del nostro corpo. Sono talmente in noi che da esse dipende la mia stessa vita fisica.

Ci sono tuttavia delle attività che non avvengono solamente in noi, ma avvengono in noi consapevolmente: di esse noi siamo consapevoli, sappiamo che esse stanno accadendo in noi. Si pensi all’attività della nostra intelligenza, all’attività del capire (ciò che sto leggendo, ciò che sto ascoltando, un teorema di algebra...). Non solo capisco, ma so di capire. L’attività dell’intelligenza è sempre accompagnata da una consapevolezza più o meno chiara, e in forza di questa consapevolezza questa attività è più nostra che i processi biochimici che accadono nelle nostre cellule. Se però facciamo più attenzione, vediamo che anche in questa attività (consapevole) c’è qualcosa che le impedisce di essere completamente nostra: una mia attività fino in fondo.

Una delle scienze che da sempre, da quando l’uomo è consapevole di esercitare un’attività intellettiva, ha cercato di elaborare con sempre maggior vigore è stata la logica formale. Questa è la scienza che cerca di scoprire quali sono le leggi che governano l’esercizio della nostra intelligenza, a prescindere da ciò che essa sta pensando o comprendendo (formale significa precisamente questo). Possiamo, infatti, verificare come sull’attività del “ragionare”, se non si rispettano certe leggi o regole, si arriva a conclusioni assurde. Non solo, ma quando la nostra intelligenza rispetta le sue regole, arriva ad un punto in cui è costretta, è necessitata a dare il suo consenso: se ho capito ciò che significa “parte” e ciò che significa “tutto”, sono costretto a pensare che “il tutto è maggiore della parte”. Vediamo così che, almeno per certi aspetti, la nostra intelligenza è un’attività che accade in noi, senza dipendere da noi, nel senso che il suo atto (quello con cui, per esempio, affermo che “il tutto è maggiore della parte”) non può non essere compiuto, in quanto non dipende completamente da me, l’attività della mia intelligenza non è completamente mia.

La nostra classificazione delle attività che accadono in noi non è tuttavia terminata. Esiste, infatti, un’attività ben diversa dall’intelligenza, quella volontaria. Essa si esprime attraverso alcuni atti ben precisi: l’atto della scelta, l’atto della decisione per esempio. Che cosa caratterizza questa attività? In primo luogo essa è un’attività consapevole: non posso scegliere senza sapere di scegliere, non posso decidere senza sapere di decidere. Ma non è solo questo. Pensiamo un momento a questo: nessuno può scegliere al mio posto; sono io che scelgo. La scelta, come la decisione, nascono da me e solo da me, ma in un modo profondamente diverso da come nasce da me un atto della mia intelligenza. Nell’atto di scelta non è presente nessuna necessità, di qualunque genere, tale per cui non posso non scegliere (come non posso non dire “il tutto…”). Anzi eventuali condizionamenti che mi spingessero a scegliere, sono sentiti come qualcosa che rendono meno mia la scelta e, nel caso che dovessi rispondere o giustificarmi per una scelta compiuta in queste condizioni, subito noi diremmo che la scelta non era del tutto nostra, che di essa noi non siamo pienamente responsabili. Per vedere, devo voler vedere (aprire gli occhi, accendere la luce se c’è buio...); per capire, devo voler capire (fare attenzione a ciò che leggo...). Vedo perché voglio vedere; capisco perché voglio capire; mentre voglio perché voglio. L’atto della volontà sta così dentro la volontà stessa che esso dipende solo da questa, mentre tutti gli altri atti non stanno così dentro la loro rispettiva facoltà da poter essere compiuti da essa, senza che la volontà lo decida.

In questo modo siamo giunti ad una conclusione così importante che essa è semplicemente il punto di partenza di tutta la riflessione etica. L’attività della volontà è l’unica attività veramente e pienamente nostra. Essa non è solo un’attività che accade nella nostra persona, ma è della nostra persona. L’esperienza etica accade dentro questa attività e non dentro le altre. Il passo successivo sarà, dunque, di descrivere molto attentamente questa attività.

 

B) Cominciamo dalle constatazioni più semplici. Quando noi vogliamo, vogliamo sempre “qualcosa”. La nostra è sempre una volontà intenzionale, diretta cioè, orientata a qualcosa. È volontà di qualcosa. Ciò che è voluto, non giace nell’oscurità: esso è visto dalla nostra intelligenza, è cioè conosciuto. Non si può volere ciò che non si conosce. Anche se il solo semplice fatto di conoscere un oggetto, non ce lo fa volere: molti oggetti conosciuti ci lasciano completamente indifferenti. Non solo, esiste sempre una ragione per cui vogliamo l’oggetto conosciuto: la ragione per cui vogliamo, durante una giornata di calura estiva, bere una bibita fresca è diversa dalla ragione per cui vogliamo, quando siamo spiritualmente angosciati o disperati, pregare, se siamo credenti. Chiamiamo questa “ragione per cui” la bontà dell’oggetto voluto. La bontà di un oggetto è, dunque, quella sua proprietà che lo rende volibile, oggetto cioè della mia volontà. La bontà propria della bibita fresca è precisamente la sua frescura, dolcezza...: è ciò per cui la mia volontà la desidera, la vuole, la bontà è ciò che muove la volontà.

Se ora volessimo mettere un po’ d’ordine fra le infinite “ragioni per cui” durante anche solo poche ore vogliamo ciò che vogliamo, vedremmo che queste ragioni sono essenzialmente tre. La ragione per cui vogliamo bere una bibita fresca è quel piacere che proviamo quando, durante una giornata molto calda, beviamo: la bontà della bibita è una bontà piacevole. Ma noi, quando siamo ammalati, beviamo anche medicine molto amare che non producono in noi alcun piacere: la ragione per cui vogliamo bere la medicina è la sua utilità per la mia salute: la bontà della medicina è una bontà utile. Pensiamo, ora, alla decisione di Tommaso Moro di subire la decapitazione piuttosto che cedere alla volontà del Re: ciò che Moro decide e sceglie non ha in sé alcuna piacevolezza, al contrario; non ha in sé alcuna utilità, al contrario. La ragione per cui Moro ha voluto ciò che ha voluto è che l’atto di subire la decapitazione era l’unico atto giusto: la ragione era solamente e semplicemente la giustizia insita in quell’atto. La bontà dunque, può essere distribuita in tre grandi aree: piacere, utilità, giustizia.

L’esperienza etica accade dentro la terza area. In altre parole: noi viviamo l’esperienza etica non quando vogliamo qualcosa in ragione del piacere e/o dell’utilità che ci pro cura l’oggetto voluto, ma in ragione della giustizia insita nell’atto di volere ciò che stiamo volendo (la decapitazione per Tommaso Moro).

 

Siamo così arrivati ad isolare l’esperienza etica dall’esterno, distinguendola dalle altre esperienze. Essa, dunque, è un’esperienza che noi possiamo vivere quando compiamo un’attività volontaria (A), volendo qualcosa non in ragione della sua piacevolezza o della sua utilità, ma in ragione della sua giustizia (B). Ora, come secondo passo, dobbiamo vedere che cosa accade precisamente in noi quando viviamo questa esperienza: che cosa è accaduto in Tommaso Moro, quando ha deciso di farsi decapitare, piuttosto che cedere al Re?

 

2.

Ciò che immediatamente noi sperimentiamo quando viviamo l’esperienza etica, è la percezione di una necessità intrinseca all’atto che stiamo per compiere, presente in esso così che l’atto si impone con una forza ineludibile alla nostra volontà. Tommaso Moro sente che deve agire in quel modo: non consentire alla richiesta del Re, costi quel che costi. È una necessità incondizionata. Essa non deriva dalla previsione di determinate conseguenze: se non agisco in questo modo potrebbe accadere che... Anzi, come nel caso di san Tommaso Moro, la considerazione delle possibili conseguenze — la perdita della vita, lasciare la propria famiglia bisognosa di lui — l’avrebbe piuttosto distolto dal prendere quella decisione.

È tuttavia una necessità singolare. Quando, infatti, noi abbiamo l’esperienza di una qualche necessità, per e in ciò stesso noi sentiamo che contro di essa la nostra libertà non può nulla: ne rimane letteralmente incatenata e non può farci nulla. Pensiamo alla necessità propria delle leggi fisiche, chimiche: esse esprimono necessità che la nostra libertà deve semplicemente subire. Pensiamo alla necessità insita nell’assenso che l’intelletto dà alle evidenze: la libertà non può in alcuna maniera impedire questo assenso. Possiamo solo dire che due più due fanno cinque, ma non possiamo pensarlo. La necessità che avvertiamo, invece, quando viviamo l’esperienza etica è di tutt’altra natura. Essa non solo non distrugge la libertà, ma la interpella perché essa si impegni al massimo delle sue possibilità. Il suo esclusivo interlocutore è proprio la libertà. L’esperienza etica è esperienza di una necessità intrinseca alla mia libertà e della mia libertà abitata da una necessità. Mai Tommaso Moro fece scelta più libera di quella che fece, decidendo di farsi decapitare piuttosto che cedere al Re e, nello stesso tempo, mai sentì che quella scelta era necessario compiere.

Ma c’è qualcosa di più profondo ancora nell’esperienza etica. Ci sono, nella nostra vita, delle situazioni in cui ciascuno può prendere il posto dell’altro. Uno dei canoni fondamentali della ricerca scientifica è precisamente questo: la interscambiabilità dei ricercatori. Ciascuno, prescindendo dalle singolarità proprie di ogni persona umana, può ripetere l’esperienza fatta da un altro. Ciascuno di noi può ricontrollare le bocce di acqua di Pasteur a Parigi; ciascuno può a Lourdes ricontrollare le cartelle cliniche dei miracolati; davanti ad un microscopio l’uno cede il posto all’altro per vedere ciò che sta su un vetrino. Nessuno, nell’ambito delle discipline scientifiche, può dire: ho scoperto che... però nessuno all’infuori di me può verificarlo. La prima proprietà del sapere scientifico è il suo collocarsi fuori della soggettività, in tutti i sensi. Tutto il contrario avviene nell’esperienza etica: nessuno può prendere il posto di un altro. Tommaso Moro deve decidere: nessuno lo può sostituire nel prendere quella decisione.

Nell’esperienza etica, l’uomo si sente interpellato nella sua singolarità, nella sua solitudine: è il nostro io che è chiamato. Tuttavia, Tommaso Moro è consapevole nel momento di prendere quella decisione, che ogni uomo al suo posto avrebbe dovuto prenderla. La necessità con cui la sua libertà si sente confrontata esprime un’esigenza che è universale: ciò che è ingiusto non deve mai essere compiuto da nessuno ed in nessuna circostanza. È qui in causa una esigenza trans-soggettiva. Ma non nello stesso senso in cui è trans-soggettiva la conoscenza scientifica. Mentre questa consiste proprio nel mettere fra parentesi, nel mettere fuori causa e discussione la singolarità dello scienziato, quella al contrario mette precisamente in causa e in discussione la singolarità di ciascuno. L’esperienza etica è esperienza di una universalità che è penetrata nella singolarità della persona che la vive e della propria singolarità elevata a un ordine che la realizza pienamente.

Ma c’è qualcosa di più profondo ancora nell’esperienza etica. Come la storia di ciascuno di noi ci testimonia, l’uomo può rifiutarsi di acconsentire a questa necessità. Ciò che è ingiusto non deve mai essere compiuto, e tuttavia ciascuno di noi compie atti ingiusti. L’uomo “sente” in questo caso una sofferenza del tutto particolare, non assimilabile a nessun’altra sofferenza. In generale, noi soffriamo quando non possediamo un bene, non raggiungiamo o perdiamo un bene di cui sentiamo o crediamo di aver bisogno. Esiste una sofferenza fisica, quando per esempio siamo ammalati: ci manca un bene, la salute, di cui abbiamo bisogno. Esiste una sofferenza psichica che può essere conseguenza di una sofferenza fisica: l’ammalato soffre non solo nel corpo. Ed esistono sofferenze spirituali: la compagnia di persone care è un bene di cui abbiamo bisogno e la loro distanza ci fa soffrire. La sofferenza, però, che proviamo quando constatiamo che nel mondo esiste l’ingiustizia o, ancora più, quando noi abbiamo commesso un’ingiustizia, è di tutt’altra natura. In primo luogo, tutte le altre sofferenze possono essere compensate in un ordine di valori superiore. Ci sono persone fisicamente handicappate e molto sofferenti che hanno fatto proprio del loro stato fisico occasione per elevarsi ad altezze spirituali insospettate: così un Pascal, un Beethoven e tanti altri. Il male fisico è stato compensato. Il male dell’ingiustizia e la sofferenza che causa non può essere compensata in alcuna maniera. Tutti si trovano d’accordo nel dire che il fine non giustifica i mezzi, anche se poi si discuterà sul significato esatto di questo principio. Ma non è solo questa, né la principale differenza. Mentre tutte le altre sofferenze riguardano la persona nel suo avere qualcosa, questa riguarda la persona nel suo essere semplicemente una persona. Di fronte ad uno che compone della brutta musica, diciamo semplicemente che non è un buon musicista, che non ha qualità musicali. Di fronte ad uno che commette un’ingiustizia, diciamo che non è semplicemente un uomo, che non ha agito da uomo. L’esperienza etica è l’esperienza di un bene che è richiesto dal mio essere puramente e semplicemente uomo: di un bene della mia umanità semplicemente. Non della mia umanità più qualcosa d’altro.

Volendo ora abbozzare una sintesi descrittiva, possiamo dire: nell’esperienza etica noi viviamo l’esperienza di un’esigenza, di una necessità inscritta nell’umanità stessa della persona come tale: una necessità che si sposa con la libertà, dotata di un’universalità che non solo non esclude, ma chiama in causa precisamente l’irripetibile singolarità di ciascuno di noi.

Prima di procedere oltre, fermiamoci un momento per arricchire il nostro vocabolario e precisarlo ulteriormente. Questa precisazione ci sarà molto utile nella nostra esposizione seguente. Come già abbiamo visto, esiste un triplice tipo di bontà inerente a ciò che la volontà vuole. In merito al terzo tipo di bontà ora siamo in grado di precisare ulteriormente. San Tommaso Moro vede chiaramente che l’atto del rifiuto di obbedienza al Re si imponeva assolutamente alla sua volontà: la sua volontà doveva rifiutare di obbedire. Il rifiuto aveva in sé una ragione per cui doveva essere compiuto. Questa “ragione per cui” è la bontà morale (dell’atto). La bontà morale è una qualità che inerisce all’atto volontario della persona. La bontà che è propria dell’atto volontario della persona è la bontà morale. Per capire ancora meglio. La bontà utile può inerire anche alle cose: un orologio è utile, un’auto è utile, ecc... La bontà morale è la bontà propria dell’atto della nostra libera volontà e solo di questo atto. Vedremo poi in seguito in che cosa consista precisamente questa qualità propria ed esclusiva dell’atto libero. Per ora continuiamo il nostro cammino verso il mistero dell’uomo, percorrendo il cammino dell’esperienza etica.

 

3.

L’esperienza etica pone dei seri problemi, per le sue apparenti contraddizioni. Come è possibile una necessità che non distrugge la libertà, anzi la esige nel suo massimo impegno? Come è possibile una esperienza nella quale il singolo come tale è in causa in forza di un’esigenza universale? È il problema della possibilità di questa esperienza. Ma dobbiamo ben capire il significato di “possibilità”. L’esperienza è un fatto, dunque è possibile. In questo senso, non esiste un problema di possibilità: esso è già risolto dal fatto. Il termine di “possibilità” ora significa: che cosa rende possibile questo fatto? Quali sono le sue spiegazioni? Cominciamo ad abbandonare il terreno della pura descrizione del fatto per cercare una spiegazione. Nella descrizione fatta siamo giunti a concludere che quella necessità che vivo nell’esperienza etica è una necessità inscritta nella mia umanità come tale: nel mio essere persona umana. La sua inadempienza mi rende semplicemente meno uomo: accettando di obbedire al Re, Tommaso Moro sentiva di tradire se stesso. A questo punto uno potrebbe pensare che, allora, in fondo questa necessità è legata ad un “se”: se vuoi essere uomo, devi... Indubbiamente questo è vero, tuttavia questa riflessione potrebbe portarci fuori strada.

Molte sono le necessità ipotetiche nella nostra vita: se vuoi rimanere sano, segui una dieta appropriata; se vuoi essere un bravo pianista, esercitati ogni giorno e così via. La necessità di cui parliamo è ipotetica? “Se vuoi essere uomo, devi agire con giustizia”. Rispondere a questa domanda con verità è molto importante per proseguire il nostro cammino. Che dal rifiuto da parte della nostra libertà di agire in un certo modo consegua un mal(e)-essere che intacca ciò che costituisce il nostro essere persone umane, è un fatto di cui la nostra coscienza ne da’ testimonianza. Tuttavia questa consequenzialità è di natura essenzialmente diversa da quelle precedenti: l’apodosi consegue da una protasi essenzialmente diversa. Dire: “se vuoi essere sano” è diverso che dire “se vuoi essere uomo”. La prima esigenza è un’esigenza che è presente, abita in un ambito che non è quello della volontà: è un’esigenza — quella della salute — che io sento in quanto sono un essere vivente, non in quanto sono un essere umano. E, infatti, posso ipotizzare delle situazioni nelle quali posso non volere di essere sano, rischiare la mia salute, senza che questa rinuncia mi distrugga in ciò che mi costituisce nel mio essere uomo. Anzi. La storia della medicina è piena di uomini che per curare altri o proseguire le loro ricerche, hanno preso malattie che li hanno portati alla morte. L’esigenza, di cui mi rende testimonianza l’esperienza etica, è presente, abita dentro la mia volontà stessa in quanto facoltà che compie atti liberi: abita dentro nel mio essere persona umana in quanto persona umana. È dunque esigenza di natura essenzialmente diversa. Essa non mi accomuna a ciò che non è umano in maniera specifica (essere vivente, per esempio): essa mi appartiene in ciò che mi rende essenzialmente diverso e superiore nei confronti delle cose, chiamiamo questo “ciò che...” Spirito. È un’esigenza spirituale in senso stretto: un’esigenza dello Spirito. Più precisamente: quella necessità, di cui l’esperienza etica mi rende testimonianza, è una necessità propria del mio essere soggetto spirituale, del mio essere persona. E allora non ha alcun senso dire: se vuoi essere uomo, devi agire così? La formulazione ha un senso esatto. Essa serve a significare che quella esigenza, che è un’esigenza strutturale dello spirito, è tuttavia legata ad una libertà che può non adempierla. Questa possibilità inscritta nella nostra libertà è un terribile mistero sul quale dovremo in seguito ritornare. Essa è pertanto, da questo punto di vista, condizionata dall’accettazione della libertà. Tuttavia, la decisione di far valere o non questa esigenza non dipende dalla decisione della volontà. Da questa dipende solamente acconsentire o rifiutare: non di più.

Ritorniamo per chiarire meglio questo punto difficile della nostra vita spirituale all’esempio già fatto. Ogni uomo, in quanto essere vivente, desidera naturalmente vivere sano, e normalmente la nostra volontà fa suo questo desiderio. Ma quando essa decide di non tenerlo più in considerazione — come nei casi suddetti — non va contro se stessa, più precisamente non va contro a qualcosa che pure continua a valere come esigenza spirituale. È solo qualcosa di estraneo alla volontà che recalcitra contro la decisione presa (di esporsi al rischio di prendere una malattia infettiva per curare gli ammalati): la chiamiamo solitamente la “sensibilità”, l’istinto di conservazione o altro ancora. Ma in nessuna maniera dipende dalla nostra volontà far valere l’esigenza della giustizia: questa esigenza si impone assolutamente, incondizionatamente alla nostra scelta. Rifiutare l’obbedienza al Re non è stato un atto giusto perché Moro ha deciso questo rifiuto. Al contrario, Moro ha deciso (e poteva anche non farlo), perché era giusto rifiutare. E il rifiuto della volontà pone la persona contro un’esigenza che continua ad urgere, non dal di fuori della persona, ma dentro essa. In una parola: essa è costitutiva dell’essere stesso della persona e pertanto precede l’agire della persona stessa e lo giudica.

L’esperienza etica, pertanto mi fa vivere un’esigenza incondizionata, assoluta, che entra nella costituzione del mio stesso essere personale. L’essere entrati nella casa in cui abita questa esigenza — la sua casa è l’essere stesso della persona — ci offre una spiegazione dei caratteri apparentemente contraddittori di essa: universalità/singolarità; necessità/libertà. Questa esigenza non è di questo uomo, di quell’uomo; non inerisce a una qualità accidentale del nostro essere: la nostra cultura particolare, la nostra razza ecc... Essa è dell’uomo in quanto uomo: essa inerisce non accidentalmente, ma essenzialmente all’uomo. È un’esigenza della natura umana come tale: di qui la sua nota di universalità. Ma proprio perché e non “nonostante che” è universale in questo senso, essa chiama sempre in causa il singolo nella sua irripetibile realtà soggettiva. Infatti, la natura umana esiste sempre personalmente: esiste nella persona umana. L’esigenza chiama sempre la persona.

E ancora, e in fondo per la stessa ragione, quell’esigenza incondizionata, assoluta, non può non essere un’esigenza nella e della libertà: la legge della libertà. La persona, infatti, è un soggetto libero per sua natura stessa. L’esigenza strutturale, strutturante della persona può essere realizzata solo liberamente.

Tuttavia l’essere entrati nella casa in cui abita quell’esigenza di cui l’esperienza etica mi fa vivere — la casa è l’essere stesso della persona — non mi ha ancora fatto vedere la possibilità di quell’esperienza medesima. Al contrario, sembra che abbia semplicemente acuito il problema. L’essere personale che è ciascuno di noi è incapace di sostenere il peso di questa esigenza, cioè di spiegarla completamente. L’assoluto e l’incondizionato, che incontriamo nell’esperienza etica, può trovare spiegazione ultima e definitiva in ciascuno di noi che non siamo né assoluti né incondizionati? Quell’esigenza assoluta ed incondizionata — che ha spinto la libertà di Tommaso Moro a rifiutare obbedienza al Re ed a subire la decapitazione — donde viene ultimamente?

In ultima analisi, non può venire da noi. Essa ci obbliga così fortemente e in maniera così inappellabile che lo stesso identico soggetto non può essere al contempo legislatore e suddito. In certi momenti, sarebbe augurabile sentirci dispensati. Se noi fossimo il legislatore che si dà questa legge, potremmo sentirci abilitati a dispensarci. Se non da noi, da chi viene ultimamente?

Dalla società in cui viviamo? Basterà dire che quell’esigenza riguarda anche pensieri così intimi, sentimenti così profondi che non hanno nessuna rilevanza sociale. E inoltre, quell’esigenza chiede anche atti che vanno contro il bene della società in sé considerata: la mancanza di un successore avrebbe creato gravi problemi per il Regno d’Inghilterra, come la guerra delle Due Rose aveva dimostrato. Ma Tommaso Moro non obbedisce al Re. E infine, ogni assetto sociale ha sempre guardato con diffidenza chi si richiama ad una legge non scritta diversa da quelle della società: i giudici di Atene che condannarono Socrate ebbero molti successori, così come il giudice di Antigone.

Dall’educazione? Questa spiegazione in realtà sposta solo il problema. E a chi ci educa donde è venuta quell’esigenza? Non si risolve un problema rimandandone semplicemente la soluzione. Quell’esigenza è l’espressione di un ordine universale, inscritto cioè nell’universo dell’essere, di cui il singolo è per il singolo l’ingresso in un tutto, nel quale solo trova la sua salvezza? L’ipotesi esplicativa ha una sua suggestione, ma essa è profondamente falsa. Per varie ragioni. In questa ipotesi la persona, ciascuno di noi, avrebbe valore solo se parte di un tutto: il tutto avrebbe valore e non il singolo. In realtà, se questo è vero delle cose, non lo è della persona. Ciascuno di noi vede che la persona è il vertice dell’essere. Inoltre, quell’esigenza interpella ciascuno di noi in quanto tale. Ciò che è in questione in quell’appello non è la sorte di un tutto — qualunque cosa sia — dipendente dalla nostra decisione. Ciò che è in questione è la sorte, il senso ultimo del mio essere.

E infine, che cosa è questo “tutto”? È il tutto costruito dal cosmo? Pensare questo significa non aver notato che esiste nell’uomo una realtà irriducibile alla realtà cosmica: essenzialmente diversa da essa e ad essa superiore. È il tutto che è la Storia nel suo complesso? Delle due l’una. O questa nel suo movimento ha uno scopo finale e allora non si vede perché alcune persone devono servire ad altre che vivranno quel momento, o questa non ha nessun senso definitivo e allora non avrebbero più senso alcuno parole come bene, male, dovere e altre del genere. Siamo così rimandati alla stessa domanda: donde viene ultimamente quella esigenza impiantata dentro l’essere stesso della persona?

La rassegna delle risposte sbagliate non è stata inutile. Essa ci ha mostrato quale via percorrere per giungere alla risposta vera. Essa, infatti, dovrà rispettare alcune esigenze, se vuole spiegare il fatto senza negarlo del tutto o in qualche sua dimensione essenziale. Queste esigenze sono le seguenti. La spiegazione per rendere ragione dell’assolutezza e incondizionatezza dell’esigenza deve individuarne l’origine in una realtà che trascende l’uomo e che al contempo abbia potere di legarlo assolutamente e incondizionatamente. La spiegazione deve individuare un essere trascendente dal carattere personale: tale cui l’uomo possa rivolgersi chiamandolo “Tu” e non connotandolo, dicendo “Esso”. La spiegazione deve individuare un essere trascendente dal carattere personale che legando l’uomo, lo leghi nel suo essere stesso: il legame è costituito da una relazione col Tu trascendente, che si fonda sull’essere stesso dell’uomo. La spiegazione deve individuare un essere trascendente dal carattere personale che lega l’uomo a sé nell’essere stesso della persona umana, ma in modo tale che in questa relazione la persona umana trova il suo bene, la sua realizzazione.

In sintesi: solo un Tu trascendente onnipotente ed allo stesso tempo amante dell’uomo, può spiegare radicalmente ciò che noi proviamo quando viviamo l’esperienza etica. Questi (Tu trascendente...) è ciò che intendono gli uomini religiosi quando dicono “Dio” e l’atto che lega l’uomo è l’atto creativo.

 

4.

Ora dobbiamo vedere quale grande luce l’esperienza etica spiegata getta sul mistero dell’uomo. L’esperienza etica fa vivere all’uomo un incontro con Dio stesso che lo chiama a essere pienamente, attraverso i suoi atti. Nei capitoli seguenti dovremo riflettere lungamente e cogliere tutto ciò che sta dentro a questo dialogo. Per ora è sufficiente che ci fermiamo a riflettere sull’atto creativo, continuando a percorrere la via che ci ha portato a esso.

Considerato in se stesso l’atto creativo è la posizione nell’essere di un altro da Dio. Ma che cosa è precisamente questa “posizione”? È essenzialmente un atto di volontà da parte del Creatore, mediante il quale Egli decide di comunicare il suo Essere. Questa decisione è assolutamente libera, non è in nessun senso necessitato. È, cioè, un dono: non di qualcosa, ma dell’essere stesso. Quell’essere che è ciascuno di noi. Un atto, dunque, di amore puro.

Questo atto pone necessariamente una relazione fra creatura e Creatore: una relazione che inerisce all’essere stesso della creatura. Di che relazione si tratta? Si tratta di una relazione di partecipazione. È un termine e un concetto fondamentale, che va profondamente compreso. Ogni rapporto di partecipazione implica sempre che qualcuno fa partecipare di qualcosa un altro. Noi diciamo a volte: ho voluto renderti partecipe della mia gioia. Ho in me una grande gioia e voglio comunicarla a un altro — la gioia è partecipata —, l’altro gioisce in quanto è partecipe della mia stessa gioia. Questa è la relazione posta in essere dall’atto creativo: Dio è l’Essere stesso e vuole rendere partecipi altri del suo Essere — l’Essere è partecipato —, l’altro è in quanto partecipe dell’Essere divino.

Fino a ora noi abbiamo considerato la statica della relazione creatura-Creatore. Ora dobbiamo considerarne la dinamica. Come una stanza buia torna immediatamente nelle tenebre appena si spegne la luce, poiché la sorgente luminosa influisce continuamente, emette continuamente la luce, così la donazione/partecipazione che Dio fa del suo Essere è continua. Quando il termine del suo atto creativo — ciò che è creato — è una per sona e non una cosa, Dio partecipa il suo Essere, chiamando poi la persona ad assimilarsi all’Essere divino, a partecipare sempre più del suo Essere divino. Nella dinamica della partecipazione ci sono due momenti che vanno distinti: l’atto creativo che pone l’essere della creatura in atto (che chiameremo primo); e poi la chiamata perché la persona accetti liberamente di realizzarsi pienamente mediante l’atto della sua libertà perché sia completamente in atto (che chiameremo secondo). Questa chiamata è precisamente ciò che noi abbiamo chiamato “esigenza incondizionata, assoluta”. (“Prima” e “poi” non in senso cronologico).

L’esperienza etica è la percezione della chiamata che Dio rivolge all’uomo perché l’uomo giunga, attraverso l’esercizio della sua libertà, alla pienezza della partecipazione dell’Essere divino: “entra nella gioia del tuo Signore”. Quando Tommaso Moro capì che doveva assolutamente rifiutare obbedienza al Re, egli senti risuonare nel suo intimo la chiamata di Dio ad assimilarsi completamente al Signore: ed “è meglio obbedire a Dio che agli uomini”.

Ho detto che l’esperienza etica è la via che ci introduce più profondamente nel mistero dell’uomo. Ciò è vero, ma non del tutto.

È vero. Essa ci fa vedere l’uomo nella sua radice stessa, ci fa individuare il senso ultimo del suo operare, della sua vicenda. L’uomo come essere chiamato alla pienezza di senso in Dio.

Ma non è del tutto vero. L’analisi semplicemente etica lascia, infatti, senza risposta alcune domande di decisiva importanza. Questa assimilazione a Dio fino a che punto giunge? Fino alla comunione immediata con Dio? Questa comunione — essendo Dio Spirito — non può che consistere nel conoscerlo e amarlo in Se stesso. Ma a questo si oppone l’insuperabile trascendenza del Creatore nei confronti della creatura. Ed allora, l’assimilazione è condannata a essere un perenne cammino senza mai giungere alla meta? Dobbiamo in linea di principio dire di sì. Ma l’uomo ha in sé un naturale desiderio di vedere Dio. Ed allora, che ne sarà del destino ultimo dell’uomo? La riflessione etica non sa più dire nulla d’altro.

Ma c’è anche altro su cui la riflessione etica non può dare alcuna risposta. La nostra amara esperienza ci insegna che l’uomo, ciascuno di noi, sceglie spesso il male, pur conoscendo e approvando il bene. Che ne sarà di questo uomo, cioè di ciascuno di noi? La disobbedienza all’esigenza etica assume il carattere di offesa a Dio, di ingiustizia verso Dio. Come Dio reagirà al male morale? Come Dio tratterà l’uomo che ha peccato? L’etica non sa neppure balbettare qualcosa al riguardo.

Come si vede non sono due ordini di domande che stiano alla periferia della vicenda umana: si collocano nel centro di essa. E su di essa la riflessione etica tace. È ben poco quello che attraverso essa ci è dato di sapere. Essa termina con l’invocazione di una luce diversa dalla nostra, una luce che finalmente ci dia la risposta alle ultime domande sull’uomo.