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Comitato "Cardinale Carlo Caffarra"


Incontro con i giovani e gli educatori del vicariato di Bazzano
"Educare: come e perché"
Parrocchia di Pragatto, 3 marzo 2008

[La presente catechesi presuppone la lettura del Documento-base La scelta educativa della Chiesa di Bologna. Ciò spiega una certa icasticità nell’esposizione]

Desidero riflettere con voi questa sera sul vostro impegno educativo perché siate confortati ed incoraggiati a proseguirlo con grande gioia. Educare una persona umana, generarla nella pienezza della sua umanità, è la più grande impresa.

Per dare un certo ordine alla mia riflessione la dividerò in tre parti. Nella prima cercheremo di individuare la sorgente di ogni rapporto ed impegno educativo: perché essa sia custodita intatta, anche nei momenti di maggiore difficoltà. Nella seconda cercheremo di vedere quali sono i luoghi in cui si realizza il rapporto educativo. Nella terza vedremo le principali difficoltà ed insidie che oggi lo minacciano, e come farvi fronte.

1. La sorgente dell’atto educativo.

Parto da una narrazione biblica: Gv 1,35-42. È la narrazione di come, secondo Giovanni, si costituisce attorno a Gesù la prima comunità dei suoi discepoli. Ma a noi interessa soprattutto fermarci sulla finale del racconto; più precisamente sul comportamento di Andrea dopo che ha incontrato Gesù. "Egli incontrò per primo suo fratello Simone, e gli disse: abbiamo trovato il Messia (che significa Cristo), e lo condusse da Gesù".

Andrea rimanendo presso Gesù, aveva vissuta un’esperienza mai fino ad allora vissuta. Egli la narra semplicemente con queste parole: "Abbiamo trovato il Messia". Cioè: tutta la sua attesa era stata compiuta: tutta la sua ricerca aveva trovato la risposta. Il "cuore" di Andrea aveva finalmente gioito di una gioia piena. Ovviamente l’apostolo non aveva avuto subito una comprensione piena, matura, dell’identità di Gesù. Anch’egli dovrà compiere un cammino lungo e doloroso per penetrare il mistero della messianicità. È bastata però la sorpresa, lo stupore che nasce dalla percezione che Gesù è la risposta vera alle domande più profonde del cuore, per farvi capire che quella era la vera vita.

Andrea non poté tenere per sé quanto aveva sperimentato vivendo e dimorando con Gesù: "egli incontrò per primo suo fratello Simone e gli disse: abbiamo trovato il Messia, e lo condusse da Gesù". In queste semplici parole è spiegato interamente che cosa è il rapporto educativo. Vediamolo analiticamente.

Il rapporto educativo si istituisce all’interno dello spazio che si apre fra due incontri: l’incontro dell’educatore con Cristo ["e quel giorno si fermarono presso di Lui"]; e l’incontro dell’educatore coll’educando ["egli incontrò per primo suo fratello Simone"]. L’atto educativo quindi è costituito da un rapporto in cui due persone sono pienamente coinvolte; nel quale esse "giocano" se stesse.

È una qualità del rapporto educativo, questa, di decisiva importanza, che rende l’educazione essenzialmente diversa dall’istruzione e dalla formazione ad una professione, ad un lavoro. L’istruttore comunica un sapere; il formatore un "saper fare". Esercita una funzione, e chi esercita una funzione è sempre sostituibile. Non così nel rapporto educativo. Ciò non significa che l’educazione non esiga anche istruzione, come vedremo più avanti.

Il rapporto educativo ha la natura di una testimonianza. Nella testimonianza è impossibile fare astrazione della persona che testimonia: essa non può mai esimersi dal coinvolgimento in ciò che testimonia. Fino al punto di dare perfino la vita. È un discorso auto-implicativo, come si dice oggi; "abbiamo trovato il Messia", dice Andrea.

Che cosa testimonia Andrea? Testimonia in fondo due fatti assai strettamente legati fra loro. Egli testimonia il fatto di un incontro non qualsiasi, ma col Messia: primo fatto. Egli lo testimonia esibendo come prova di ciò che dice il suo proprio cambiamento: secondo fatto. Ciò che dice ["abbiamo incontrato …"] dimora in lui ed è in lui che si manifesta ciò che dice. Testimonia l’incontro [primo fatto]; testimonia la presenza dell’incontro in sé [secondo fatto]. In questo contesto comprendiamo la necessità imprescindibile della parola, del discorso esplicativo, della narrazione di ciò che è accaduto. Ogni narrazione educativa deve esprimere la narrazione ecclesiale, come è riassunta nel Simbolo della fede.

Se dalla parte dell’educatore ha la natura della testimonianza, dalla parte dell’educando l’azione educativa ha la natura del rischio: il rischio insito ogni volta che il destinatario del rapporto è la libertà. In un senso molto preciso.

Andrea testimoniando il suo incontro e la sua scoperta, non intende semplicemente informare suo fratello su un fatto che questi può ritenere vero o falso. Mostra invece una nuova possibilità di esistenza, propria di chi incontra il Messia. Non gli propone un ambito di ricerca ma un nuovo modo di vivere. Ci sono due parole e rispettivamente due contrari per denotare la risposta: fede-incredulità; conversione-dimissione. Mi spiego. Si tratta di iniziare un nuovo modo di vivere, ritenuto/creduto possibile sulla base di ciò che mi dice il testimone-educatore.

Conversione denota inizio [il Vangelo parla addirittura di ri-generazione]. La testimonianza che è l’educazione mi introduce nella realtà; porta a quel punto in cui uno inizia a vivere. Pietro condotto da Andrea a Gesù riceve il nuovo nome: il suo vero nome.

Ma chi è interpellato può anche rifiutarsi di vivere secondo quella prospettiva esistenziale testimoniata dal testimone, ritenendola alla fine non vera. Non vera, nel senso di incapace di mantenere le promesse fatte. È stata la prima reazione di Natanaele: "Da Nazareth può mai venire qualcosa di buono?" [1,46a]. Ho parlato di "dimissione-incredulità". È una sorta di profonda, invincibile tristezza del cuore che fa dire: "non mi è dato di vivere in un modo diverso da quello che sto già vivendo".

S. Tommaso ha scritto che una delle ragioni per cui il Verbo si è fatto carne, fu di liberare l’uomo da questa terribile malattia mortale. È una "disperazione per fragilità": "non ce la faccio a vivere in un modo diverso da come vivo ora"; è una "disperazione per ostinazione": "non voglio vivere in un modo diverso da come vivo ora". S. Kierkegaard ha scritto su questo uno dei capolavori della letteratura cristiana edificante: La malattia mortale.

Se il rapporto educativo non ha la natura della testimonianza, assume la forma o dell’autoritarismo egemone o del permissivismo cinico. Nel primo caso il rapporto educativo diventa un vero e proprio braccio di forza fra educatore ed educando. Nel secondo caso il rapporto educativo diventa un’esperienza di estraneità fra educatore ed educando in cui è "vietato vietare".

Devo ormai concludere questo primo punto. Ho cercato di rispondere alla seguente domanda: da dove ultimamente nasce il rapporto educativo? Quale è il suo principio e fondamento? Ho risposto nel modo seguente. Nasce dalla testimonianza di un incontro fatto dall’educatore, resa all’educando perché si converta e viva.

La testimonianza dalla parte dell’educatore ha il carattere di un discorso, di un discorso auto-implicativo; dalla parte dell’educando ha il carattere di una provocazione fatta alla sua libertà perché corra il rischio della conversione alla vera vita.

2. I luoghi del rapporto educativo.

Forse fino ad ora avrete ricevuto l’impressione di una riflessione ancora abbastanza lontana dalla vita di ogni giorno. È una impressione in parte fondata. Ho voluto parlare infatti del rapporto educativo secundum genus, senza ulteriori specificazioni. Ora dobbiamo concretizzare il discorso fatto fino ad ora. E lo farò vedendo come il rapporto educativo si realizza in due luoghi: in famiglia e nella Chiesa. Per completezza bisognerebbe parlare anche della scuola. Ma non dobbiamo farlo questa sera.

2,1 [In famiglia]. È il luogo originario in cui il rapporto educativo si concretizza. Originario significa che esso trova nella famiglia il suo momento fondativo. In un edificio l’importanza dei fondamenti è ben nota a tutti.

La prima domanda dunque è la seguente: che cosa testimonia il genitore al figlio? Per rispondere a questa domanda, sono costretto per un momento a lasciare il discorso sull’educazione per una riflessione più generale.

Molti di voi sicuramente ricordano come inizia il Vangelo di Giovanni: "In principio era il Logos, il Verbo". Inizia colla stessa parola anche l’intera Bibbia: "In principio Dio creò il cielo e la terra" [Gen 1,1]. Il confronto fra i due testi ci dona la risposta alla domanda più profonda che l’uomo possa porre. All’inizio, al "principio" che cosa c’è? C’è il Logos di Dio, il suo Pensiero: cielo e terra sono creati secondo Esso. E ciò che mosse il Creatore a dare origine a tutto ciò che esiste, è il suo Amore. Di questa convinzione si è nutrita la nostra tradizione ebraico-cristiana, che ha trovato perfino suggestive formulazioni proverbiali quali "non cade foglia che Dio non voglia". La realtà è ragionevole; la realtà è buona, perché è radicata nel Logos-Amore di Dio.

Questa convinzione genera quell’attitudine propria di chi è consapevole che la realtà dipende da un Creatore sapiente e buono, che sostiene ogni sua creatura, ciascuna di esse, anche la più piccola, perché raggiunga la sua felicità, sia pure attraverso prove e sofferenze.

Ma questa risposta oggi si scontra con un’altra spiegazione radicale dell’intero universo, uomo compreso. Una spiegazione che sta entrando sempre più pervasivamente nella nostra vita. La potrei formulare così: "In principio era il Caso, che diede origine al cielo, alla terra, all’uomo". Tutto questo cambia completamente il volto della realtà. Essa non esprime più una intima ragionevolezza e bontà. È pura casualità, che quando consideriamo la vicenda umana chiamiamo "fortuna-sfortuna". L’uomo si sente come "gettato" nella vita da forze impersonali. Ci si può affezionare ad una realtà che mi si presenti con questo volto? Dante parla dell’Amor che muove il sole e l’altre stelle; oggi parliamo del caso e/o necessità che fa essere tutto ciò che è.

Ritorno al nostro discorso sull’educazione. Non è possibile nessuna educazione se chi educa non mette alla base l’ipotesi positiva che genera senso, poiché solo questa ipotesi positiva è capace di generare una profonda affezione alla vita. Non è possibile educare in questo senso, se si esclude in linea di principio la presenza di Dio nella vita. Chi educa, non può farlo se non vivendo almeno "come se Dio ci fosse".

Non sto parlando, come vedete, di "educazione religiosa" nel senso che comunemente si dà a questa espressione. Sto parlando di qualcosa di molto più profondo. Sto parlando dell’attitudine fondamentale con cui ci poniamo di fronte alla realtà, e mi chiedo se qualsiasi attitudine fondamentale nei suoi confronti sia ugualmente adatta a sostenere la fatica quotidiana dell’educazione. E vi ho detto che solo un’attitudine religiosa [non ho detto "cristiana"] è capace di generare una proposta educativa pienamente sensata.

La grande testimonianza in cui consiste l’educazione in famiglia è la testimonianza alla positività della vita, alla presenza dell’amore di Dio in essa.

La seconda domanda allora è la seguente: come concretamente si realizza in famiglia quest’azione educativa?

Vorrei in prima battuta rispondere in modo un po’ paradossale: in nessuna maniera, ma semplicemente con-vivendo la vita di ogni giorno. Non, si badi bene, semplicemente "vivendo", ma "con-vivendo. Non si tratta infatti di trasmettere notizie e regole circa la vita, ma di "insegnare" a vivere bene.

La persona umana non nasce in una posizione neutrale nei confronti di una vita vera e buona e di una vita sbagliata e malvagia. Essa nasce già orientata alla prima poiché nasce come immagine e somiglianza del suo Creatore. È la progressiva e quotidiana realizzazione di questo orientamento ciò che accade nell’educazione famigliare. Questo orientamento si risveglia precisamente dentro alla comunione che è la famiglia. Ma ad alcune condizioni che giova almeno richiamare brevemente.

La prima è che paternità e maternità siano realmente vissute e non surrogate da altre correlazioni coi figli. Se un padre o una madre volesse divenire "amico" del figlio, renderebbe impossibile la sua testimonianza educativa. La cifra della genitorialità è l’autorevolezza. È cioè la qualità della persona in forza della quale ciò che il genitore comanda [esorta, orienta …] si trova testimoniato nella persona del genitore medesimo. Autorevolezza è la vita che testimonia ciò che comanda e il comandamento che è confermato dalla vita.

Non intendete in senso né prevalentemente né esclusivamente moralistico: coerenza fra ciò che si chiede al figlio e ciò che si vive. La cosa è più profonda. È come se il genitore dicesse: "fai così perché, come vedi in me, così facendo alla fine i conti tornano, cioè si vive bene".

La seconda condizione è il dialogo, nel senso più profondo del termine. Nel senso di una guida dentro al significato delle cose; di una guida a vedere la loro verità profonda. Il metodo parabolico usato da Gesù è al riguardo paradigmatico.

La terza condizione è la più importante di tutte: assicurare che la coscienza della presenza di Dio nella vita sia sempre vigile. E questo avviene attraverso la preghiera.

È la preghiera fatta in famiglia che pone ciascun membro nella verità del proprio essere.

2.2 [La Chiesa]. L’altro luogo originario in cui il rapporto educativo si concretizza è la Chiesa. La concretizzazione visibile del Mistero della Chiesa è ordinariamente la parrocchia. Pertanto questa è un’istanza educativa determinante per ogni vita cristiana. Non posso che limitarmi ad alcune riflessioni essenziali a riguardo della parrocchia come luogo educativo.

La prima domanda è la seguente: che cosa testimonia la parrocchia alla persona che le chiede di essere educata? La risposta è immensa e semplice: la presenza della persona vivente di Cristo – usiamo l’espressione dell’Enc. Spe salvi – come "filosofo" e "pastore" [cfr. n. 6]. Il referente essenziale della realtà e della vita parrocchiale è la presenza reale della persona di Cristo in essa.

La seconda domanda allora è la seguente: come la parrocchia rende questa testimonianza in cui consiste la sua proposta educativa? In tre modi strettamente connessi fra loro.

Il primo modo è costituito dalla comunicazione della verità circa il destino dell’uomo. Mi spiego.

L’esistenza umana porta dentro di sé un rischio costante ed assoluto. Costante significa che è un rischio che la minaccia sempre; assoluto significa che è un rischio che minaccia non questo o quel bene della persona [perdere la salute, la propria ricchezza…] ma l’io che è ciascuno di noi. Il rischio di cui sto parlando posso esprimerlo col seguente interrogativo: io – non un altro; nessun altro può sostituirmi – realizzerò il senso del mio esserci o lo mancherò? È la domanda che nel vocabolario cristiano si formula così: mi salverò? Come posso salvarmi? È la domanda circa il destino definitivo di se stessi.

La parrocchia educa perché comunica la verità circa il destino dell’uomo, perché dà all’uomo la risposta a quella domanda. Comunica la notizia – la bella notizia! – di che cosa Dio ha escogitato, ha inventato perché nessuno perisca ma ognuno abbia la vita eterna.

La modalità fondamentale con cui avviene questa comunicazione è la catechesi.

Il secondo modo con cui la parrocchia educa è la celebrazione del Mistero della salvezza dell’uomo: la modalità liturgica.

La celebrazione liturgica rende possibile, anzi realizza l’incontro fra due grandezze incommensurabili: la vita di Dio e la mortalità dell’uomo. "Abbiamo trovato il Messia" dice Andrea. È ciò che accade nella celebrazione liturgica. È il vertice in cui si compie l’opera educativa della Chiesa. In fondo, lo sappia o no, ogni uomo ha un bisogno immenso di vivere questa realtà ultima su cui ogni altra realtà trova consistenza: Dio è amore e l’incontro con lui in Cristo è la sola risposta piena all’inquietudine del cuore umano.

In tutti i sacramenti, la cui celebrazione costituisce il cuore del culto cristiano, è presente per chi crede la divina risposta alla domanda umana di salvezza, che viene donata all’uomo. In questo consiste tutta la potenza educativa della divina liturgia perché si rivolge all’uomo che vi partecipa nella totalità: intelligenza, sensibilità, cuore. E lo può fare perché la Liturgia ha una sua forma propria: la bellezza. La liturgia educa colla forza della sua bellezza nella quale convergono la verità che si manifesta alla ragione e la bontà che muove l’affetto.

Il terzo modo con cui la parrocchia educa è l’esercizio della carità. È una modalità ugualmente necessaria che le due precedenti.

La più grande obiezione alla testimonianza che l’educatore rende ed in cui consiste l’atto educativo, è la presenza del male nell’universo. Mediante l’educazione introduco colui che educo nella realtà: vale la pena entrare in una realtà nella quale l’ingiustizia non raramente trionfa? dove l’innocente soffre? "Perciò mi affretto a restituire il mio biglietto d’ingresso. E se sono un uomo onesto, lo devo restituire al più presto possibile", dice Ivan Karamazov nel noto romanzo di Dostoevskij [cfr. BUR, Milano 1998, pag. 328].

Che cosa fa la Chiesa? Avvicina Cristo alla miseria umana e la miseria umana a Cristo. E questo incontro è la carità cristiana.

È un atto questo sommamente educativo quando è compiuto non come semplice impegno morale, ma come ingresso nella realtà alla maniera di Cristo.

Ho terminato il secondo momento della mia riflessione. Ho cercato di mostrarvi due luoghi originari in cui avviene l’educazione; e come in questi luoghi l’educazione avviene. Un’osservazione finale. Non raramente i due luoghi – famiglia e Chiesa/parrocchia – si incrociano, coincidono. È un fatto questo altamente positivo. È ciò che sono solito chiamare "patto educativo fra Chiesa e famiglia". Ma di questo ora non possiamo parlare.

3. Le inside all’attività educativa.

Non darò al terzo tema della mia riflessione lo sviluppo che meriterebbe: non ne ho più il tempo. Mi limito ad indicare solamente due insidie che minacciano l’attività educativa poiché mi sembra che oggi siano particolarmente gravi.

La prima è costituita dall’insidia del relativismo. Vogliate prestarmi molta attenzione perché tocchiamo forse il nodo problematico più intricato della condizione in cui oggi versa l’attività educativa. Poiché ormai è diventato lo spirito e l’atmosfera del tempo, nessuno deve essere così presuntuoso o così ingenuo da ritenersi senz’altro immune.

Tutti sappiamo che cosa in teoria significa relativismo. È il ritenere che non sia possibile all’uomo conoscere una verità incondizionata circa il bene della persona. Circa il bene della persona vale il principio: è così, se così vi pare! Quali sono le conseguenze sul piano educativo? L’impossibilità di fare una proposta autorevole di vita a colui che stiamo educando. Cioè: semplicemente l’impossibilità di educare.

Due applicazioni o verifiche, se questa minaccia ha già cominciato ad insidiarci.

Nella catechesi, se questo virus fosse già all’opera, la preoccupazione di comunicare la dottrina della fede diventa secondaria, quando non scompare. E viene privilegiata o la comunicazione-esortazione all’impegno pratico; oppure è tralasciata la fatica di mostrare l’intima ragionevolezza della fede. Ci si accontenta di testimoniare una fede esclamata, ma non interrogata; professata, ma non pensata.

Seconda applicazione: nella famiglia. Il relativismo genera nei genitori, senza che se ne accorgano, la perdita del senso dell’orientamento, e quindi alla fine comincia il dubbio se sia una cosa buona l’essere uomini. In queste condizioni un genitore non sa più che cosa testimoniare.

Quale è il rimedio contro questa insidia? Rimanere profondamente radicati dentro alla Chiesa. Più precisamente: nella piena, convinta adesione al suo Magistero.

La seconda insidia sulla quale vorrei attirare la vostra attenzione è la progressiva convinzione che l’educazione sia impossibile. Meglio – si pensa – accontentarsi di meno: qualche buona regola per non ricevere né fare troppo male; imparare un "saper fare". È una sorta di abdicazione all’educazione. Vi confesso una grave preoccupazione. Che le nostre comunità si rassegnino alla afasia educativa riguardo ai giovani. Si fanno, e lodevolmente e doverosamente, sforzi gravi per "tenere" fino alla Cresima; dopo, si è tentati di rassegnarsi alla sconfitta.

Questa insidia ci porta dentro ad una vera e propria voragine. Meno si educa e più diventa difficile. Più diventa difficile e più siamo tentati di abdicare.

Quale è il rimedio contro questa insidia? Continuare a ricordarci che non esiste uomo che non sia educabile, perché non esiste uno che possa distruggere la sua umanità in radice. E c’è un solo modo di far fiorire questa umanità: mostrare in sé la bellezza di una umanità riuscita e amare l’altro fino al punto da voler condividere con lui questo bene. Appunto come fece Andrea con suo fratello Simone.

C’è una straordinaria pagina di Pirandello che è come una bellissima parabola di tutto ciò che vi ho detto questa sera: è il dialogo fra Filippo e Laura nella scena prima dell’Atto secondo della commedia L’innesto.

L’educatore, in fondo, è come colui su cui si innesta colui che è educato. In forza di questo innesto porta frutti. È come se l’educatore dicesse: se vuoi, ragazzo, puoi vivere anche tu della vita di cui anch’io vivo, e verificherai che è una bella, una buona vita.