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Comitato "Cardinale Carlo Caffarra"


Convegno dell’Ospedale San Raffaele
Relazione «“Il dono della vita”: introduzione antropologica»
Milano, 7 marzo 1987


Il titolo esige subito due precisazioni. La prima riguarda il contenuto. Intendo parlare sul fatto che l’uomo ha oggi il potere di porre le condizioni del concepimento di una nuova persona umana, prescindendo completamente dall’attività eterosessuale (= procreazione artificiale). Da questo potere conseguono altre possibilità: avere più embrioni a disposizione del ricercatore sia per la ricerca scientifica sia per la sperimentazione; predeterminare il sesso; maternità sostitutiva ed altro ancora. La seconda precisazione riguarda la prospettiva della mia riflessione: essa non intende, direttamente, riferire sulle soluzioni date dall’Istruzione alla casistica, ma cogliere le implicazioni antropologiche ed etiche di quel fatto. Ci sono, infatti, dei casi nel corso della storia umana che, pur riguardando un particolare settore del la nostra esistenza, sono dotati di una tale “carica” che investono o possono investire l’humanum come tale. Si pensi, per fare solo qualche esempio, la scoperta del nuovo mondo, l’avvento con Galilei della nuova scienza. L’idea centrale della mia riflessione è: il potere che l’uomo oggi ha sul sorgere stesso della vita umana appartiene a questi fatti.

 

1. Che cosa ha reso possibile questo potere? La domanda non riguarda la possibilità tecnica, né la storia delle difficoltà tecniche incontrate, né il modo con cui sono state superate. Il fatto che l’uomo abbia tentato questo modo di procreare — quello artificiale — e l’abbia percorso fino in fondo, cioè fino alla sua riuscita, deducendone poi tutte (o quasi) le conseguenze tecniche, esige una spiegazione. Immediatamente la risposta appare molto semplice. Nessuno contesta la legittimità del desiderio di due sposi di avere un figlio, da una parte, e, dall’altra, compito essenziale della medicina è di “aiutare” la natura, di vincerne i difetti, di curare le malattie: e la sterilità è una malattia, indubbiamente. Può essere che questo spieghi questa o quella fecondazione artificiale: ci si deve tuttavia chiedere se la spiegazione così data coglie tutto il significato del fatto. Vediamo.

Incominciano subito col notare che la procreazione artificiale (PA) implica per sua definizione stessa la separazione della procreazione dalla sessualità, cioè — più precisamente — dall’atto sessuale (coniugale). E così la PA si pone in linea colla precedente separazione della sessualità — dell’atto sessuale — dalla procreazione. Questa vicenda conclude così il suo percorso: sessualità e procreazione sono due realtà che sono spesso di fatto connesse, ma non lo sono di diritto e, pertanto, possono essere separate.

La negazione di una inseparabilità di diritto ha immediatamente due necessarie conseguenze. La prima è che l’attività che pone le condizioni del concepimento può essere un’attività non inter-personale (un incontro di due persone) ma un’attività che in sé e per sé procede da un tecnico verso l’ottenimento di un risultato. La seconda conseguenza è che la dimensione biologica — cioè: il suo potere procreativo — dell’atto sessuale (coniugale) fertile — può essere sostituita dalla tecnica: ciò che naturalmente essa può causare (un concepimento, appunto) può essere ottenuto artificialmente cioè tecnicamente. In maniera analoga lo si fa con la dialisi per un’altra funzione naturale e lo si tenta col cuore artificiale. Dobbiamo riflettere profondamente su queste due conseguenze, per cogliere il fatto da cui derivano.

 

1, 1. L’intimo significato dell’atto sessuale e l’intimo significato del procedimento procreativo artificiale sono profondamente diversi: così diversi da far sì che le due attività siano essenzialmente diverse. L’atto sessuale è per sua intima natura l’incontro fra due persone, nella totalità della loro realtà (fisica, psichica e spirituale). La coscienza dell’uomo ha espresso questa intima natura dell’atto sessuale, qualificandolo come atto d’amore. Esso, dunque, colloca l’uomo e la donna in reciproca relazione, ponendo in e con questa reciproca relazione, per quanto dipende dalla loro libertà, le condizioni del concepimento. Si rifletta un momento su questo fatto. Il rapporto fra il coniuge e il figlio non è immediato, ma è mediato: “mediante” l’altro coniuge. L’uomo diventa padre “mediante” la donna; la donna diventa madre “mediante” l’uomo. Dire “’mediante” può indurre in errore, facendo pensare ad una sorta di “uso” che l’uno fa dell’altro in ordine al raggiungimento di uno scopo: avere un figlio. Non va inteso in questo senso. In realtà la donna nel e col dono che fa di sé, dona all’uomo la possibilità della paternità e reciprocamente. La possibilità del concepimento è dunque istituita in e da un dono inter-personale. Il terreno — se così posso dire — in cui la nuova persona affonda le sue radici è la comunione di due persone. La sua sorgente, ciò da cui deriva il suo esserci, è un dono inter-personale. L’eco psicologica di questa situazione è quel sentimento di attesa di qualcuno che non è strettamente dovuto, ma può essere solo sperato. Ma non è su questo che ora vorrei attirare l’attenzione, ma sull’intima natura del rapporto che tutto ciò stabilisce fra gli sposi e il figlio. Se la radice del suo concepimento è un atto di donazione inter-personale, l’uomo entra nell’universo dell’essere all’interno di una reciprocità che lo colloca, fin dalla sua prima origine, come punto di unione fra i due sposi: segno permanente del loro dono reciproco e nesso di questa stessa reciprocità. Dire questo equivale a dire che il concepito entra nel mondo come persona fra persone: entra nella comunione umana a pieno diritto.

E ora rivolgiamo la nostra attenzione al procedimento procreativo artificiale, allo scopo di coglierne l’intimo significato. La prima diversità che balza immediatamente agli occhi è la seguente: il rapporto fra colui che mette in atto quel procedimento e il concepito è immediato e diretto. Dagli sposi egli desume i gameti e, dal quel momento in poi, essi restano estranei alla procedura. Se sono più persone che cooperano nel porre in atto la procedura, esse sono, vi entrano, come responsabili di un momento o di una parte del protocollo, che nella sua interezza si realizza nei vari successivi interventi. La cosa dà molta materia di riflessione, tenendo conto anche del fatto che l’effetto — il concepimento — è raggiunto mediante una serie di cose o strumenti: è mediante degli strumenti che si arriva al concepimento. È ovvio che chi agisce è solo il tecnico; l’uso degli strumenti da parte del tecnico impedisce una reciprocità vera e propria, ma causa solo ed esclusivamente un rapporto di dominio. Per questa ragione, questo rapporto si istituisce sempre fra l’uomo e le cose e non le persone. Troviamo qui un tipo di attività umana ben conosciuta: è l’attività produttiva. Il concepito è prodotto, non generato. E qui sta l’assoluta novità di questo avvenimento: l’uomo fino a oggi era in grado di produrre delle cose, ora è in grado di produrre le persone. E che si tratti di “produzione” in senso stretto, può essere mostrato da vari punti di vista. Ogni produzione presuppone un materiale preesistente: nel caso, si ha il materiale genetico. Ogni produzione consiste nell’intervenire — in un modo adeguato allo scopo che ci si prefigge — sul materiale per ottenere uno scopo preciso: nel caso, il materiale genetico viene manipolato in modo da ottenere il concepimento. La produzione non istituisce nessuna reciprocità vera e propria fra il produttore e il prodotto, ma solo un rapporto di “dominio” e di non perfetta uguaglianza. Poiché la radice del suo concepimento è un atto di produzione, l’uomo entra nell’universo dell’essere all’interno di un rapporto che non lo colloca, fin dall’inizio, in un rapporto di vera reciprocità con le altre persone. Il suo esserci non affonda le sue radici dentro un terreno di amore, ma di produzione. Il suo essere riconosciuto come tale — persona cioè fra le persone — non coincide col momento del suo concepimento; il suo essere nella comunione dipende dalla volontà del tecnico che lo trasferisce in utero.

Anche in questo caso, vediamo realizzarsi una legge metafisica, scoperta per primo da Platone, ripresa e profondamente ripensata dai Padri (soprattutto alessandrini) della Chiesa. La legge secondo la quale i fatti sensibilmente percepibili sono simbolicamente connessi con fatti invisibili e ben più reali. Il fatto che nella procreazione naturale la nuova persona sia concepita nel corpo della donna significa efficacemente (realizza ciò che significa) che, fin dal primo istante del suo esserci, essa è inscritta dentro il tessuto della comunione interpersonale. Il suo luogo originario non è il mondo delle cose, ma quello delle persone. San Tommaso nota profondamente che quanto più si sale nella scala dei viventi, tanto più il frutto dell’atto generativo è immanente al generante. Il Verbo generato dal Padre rimane nel seno del Padre.

Tutto il contrario avviene nella PA. Come sappiamo molto bene tutti, alla fecondazione artificiale segue il “trasferimento” nell’utero, totalmente ed esclusivamente dipendente da una decisione successiva al concepimento avvenuto. Riflettiamo seriamente su questa successione, considerando lo spazio che intercorre fra concepimento e trasferimento in utero, fissando precisamente lo sguardo sull’embrione. Egli si trova in una singolare situazione esistenziale, in una singolare condizione umana. Prodotto e non generato, egli è a disposizione degli altri che lo possono sia usare per la ricerca e la sperimentazione sia inserire in una comunità umana coniugale: e non si tratta — come tutti sappiamo — di pure ipotesi teoriche. Questa disponibilità dell’embrione equivale alla dipendenza radicale del suo essere dalla decisione degli altri: questi decideranno se conferirgli lo statuto di persona umana o continuare a considerarlo come cosa di cui fare uso. La sua è una condizione ambigua; un’ambiguità che è conseguenza del fatto che l’effetto della produzione — nel nostro caso — non è una cosa, ma una persona. Ritornerò più avanti su questa “ambiguità”. Vorrei ora riflettere sulla seconda conseguenza della separazione della procreazione dall’esercizio della sessualità.

 

1, 2. La seconda conseguenza della PA è la sostituzione del procedimento procreativo naturale da parte di un procedimento artificiale, tecnico cioè. In fondo, è questa sostituzione che definisce la PA stessa. Quale sia il significato dell’artificializzazione della procreazione, in sé considerata, lo abbiamo appena considerato. Ora si tratta di fare un passo ulteriore. Si tratta di riflettere su questa stessa sostituzione o — il che è lo stesso — sul fatto che il procedimento artificiale prende il posto del procedimento naturale. Dobbiamo riflettere su questo “prendere il posto”. E cominciamo proprio dal meditare su che cosa vuol dire “prendere il posto di…”.

Una delle caratteristiche fondamentali del sapere scientifico, come tutti sanno, è la sua verificabilità (o falsificabilità). Non intendo qui riferirmi ad una particolare interpretazione filosofica della scienza (cioè a quella di Karl Popper), ma intendo dare un concetto di verificabilità più generico. Ciascuno può verificare, controllare attraverso la ripetizione dell’esperienza, l’ipotesi scientifica elaborata da un altro. E in questa possibilità (di verificare), che per principio non ha limiti di tempo e di spazio, consiste l’universalità del sapere scientifico e la sua oggettività. Fermiamoci un momento a considerare precisamente questa “oggettività scientifica”. Essa, formalmente, consiste nel fatto che la proposizione scientifica prescinde del tutto da chi, dal soggetto che la enuncia: davanti al microscopio, preparato per controllare un virus, ciascuno può prendere il posto dell’altro, indifferentemente. La verità di una proposizione scientifica è direttamente proporzionale alla sua oggettività, intesa in questo senso. Per cogliere meglio questa proprietà del sapere scientifico si potrebbe confrontarla con la verità di ordine metafisico o di ordine religioso, nelle quali il coinvolgimento del soggetto è portato al massimo grado. Per questo, la scienza non comincia sempre da capo, mentre la metafisica ricomincia con ogni filosofo e la fede non può essere semplicemente ricevuta: non si diventa credenti senza decidere mai, neppure una volta, di diventarlo. È stato soprattutto sant’Agostino che ha capito questo e san Gregorio Magno, al suo seguito, parla sempre di “verità intima”. “Prendere il posto di…”, pertanto, ha un significato molto preciso nella metodologia scientifica: esso è un processo conoscitivo dal quale deve essere escluso tutto ciò che attiene alla irripetibile singolarità del soggetto conoscente. La conseguenza più importante di questo canone della ricerca scientifica è che la scienza, così intesa, ha un limitato campo di indagine: essa non può conoscere tutta la realtà. Alla sua presa conoscitiva resta esclusa tutta quella realtà che si mostra solo al soggetto conoscente, in quanto egli è coinvolto nella sua conoscenza. È stato Platone a scoprire per primo questa fondamentale legge del pensare umano, Poiché l’atto del conoscere consiste in un’assimilazione (intenzionale) che intercorre fra chi conosce e ciò che è conosciuto, chi conosce deve disporsi, adeguarsi alla realtà che vuole conoscere. Poiché l’uomo che vuole conoscere scientificamente la realtà, si pone nella decisione di mettere fra parentesi la sua soggettività in tutti i sensi, solo la realtà quantitativamente misurabile gli si mostrerà. Non a caso, è la matematica la suprema forma del sapere scientifico.

Se ora scendiamo dal livello del puro sapere scientifico al livello del suo uso in ordine al raggiungimento di predeterminati scopi pratici, cioè al livello tecnico, vediamo che anche nell’ambito del “fare tecnico” si ha la la possibilità di “prendere il posto di…”. Infatti, nell’uso della scienza ciò che si richiede è competenza e abilità. Competenza: il tecnico deve possedere le sufficienti conoscenze scientifiche; abilità: una capacità in senso largo operativa. Poiché il problema principale della tecnica è la sicurezza del raggiungimento dello scopo e, dunque, l’efficacità del procedimento messo in atto, a chi prende parte a questa messa in atto è richiesto solo di offrire sufficienti garanzie di essere in grado di raggiungere lo scopo. La persona vi entra in quanto tecnicamente preparata e non viceversa: non vi entra il tecnico in quanto persona ma la persona in quanto tecnico. Si ripete la stessa situazione che nel sapere scientifico. Poiché non è la persona in quanto persona che vi entra, in ciascun momento della realizzazione del procedimento l’uno può prendere il posto di un altro: nessuno propriamente è insostituibile, poiché nessuno in questa condizione è irripetibile.

Può essere che qualcuno consideri tutta questa riflessione una inutile digressione dal nostro tema. Mostriamo subito che non è così. Cominciamo col notare dei fatti realmente accaduti e resi possibili esclusivamente dalla PA. I gameti possono essere presi da persone estranee agli sposi; gli sposi possono essere sostituiti: prima sostituzione. Se presi i gameti, si ha il concepimento, la donna che porta in utero l’embrione può essere diversa sia dalla sposa sia dalla donna che ha dato l’ovulo: seconda sostituzione. E l’elenco potrebbe ancora continuare. Riflettiamo. Perché l’uno può “prendere il posto di” un altro? La prima sostituzione è resa possibile dal fatto che la donna e l’uomo entrano nel processo generativo, in quanto produttori di gameti e in questa riduzione della persona a una sua funzione, l’uno può prendere il posto dell’altro. Così è della seconda sostituzione. La donna in quanto può gestire, può “prendere il posto di” un’altra. “Prendere il posto di...” ha, dunque, un significato molto preciso. Esso consiste nell’esclusione dal processo procreativo della persona in quanto persona. Più precisamente; nella spersonalizzazione del processo procreativo, considerando precisamente questo processo un fatto puramente naturale. Naturale nel senso che questo termine ha nella scienza: ciò che è misurabile, calcolabile.

Si vede, allora, come la ritornante accusa rivolta all’etica sessuale cattolica ripetuta anche contro questa Istruzione, si capovolge contro chi la muove. Solo chi pensa che la fertilità inerente all’atto sessuale sia un fatto puramente biologico, può sostenere che essa possa essere artificialmente, tecnicamente sostituita. Chi invece — come la dottrina cattolica — nega la “purità” biologica della fertilità umana, coerentemente nega la liceità etica di quella sostituzione.

Ora, nel linguaggio comune ogni “...ismo” è proprio di chi ritiene che la parte sia tutto; scientismo è ritenere che una parte della conoscenza umana (la scienza) sia tutta la conoscenza umana; biologismo è ritenere che una parte, una dimensione della fertilità umana (la dimensione, innegabile, biologica) sia tutta la fertilità umana.

E le ragioni dell’anti-biologismo della dottrina esposta dalla Istruzione sono fondamentalmente tre: il rapporto fra la persona e il suo corpo (come vedremo fra breve), l’ordinazione (ovvia) del processo procreativo al concepimento di una persona e il rapporto fra questo concepimento e l’atto creativo di Dio.

Affermare poi che tutta questa riflessione finora svolta è puramente astratta, in quanto l’affetto, l’amore, in una parola l’intenzione dei due coniugi che ricorrono alla PA toglie ogni spersonalizzazione a essa, è una semplice petitio principii. Ciò che deve essere dimostrato è precisamente questo: se il processo in sé considerato sia eticamente neutro e riceva la sua qualità etica solo dalla intenzione di chi vi ricorre. Se, invece, si giudica che il considerare in se stesso un atto o una serie collegata di atti, in ordine a scoprirne la moralità intrinseca, prescindendo dalla intenzione di chi la compie, sia uno pseudo-problema, per mostrare l’inconsistenza di una simile tesi, esigerebbe un discorso a parte. Dal punto di vista teologico (cattolico), è sufficiente notare che essa è contraria sia alla Tradizione sia al Magistero della Chiesa. Dal punto di vista filosofico, i presupposti metafisici ed epistemologici di quella tesi sono tutt’altro che così indiscutibili come, a causa del consenso maggioritario di cui godono nella cultura contemporanea, si pensa comunemente.

Ciò che nel momento precedente della nostra riflessione abbiamo chiamato sradicamento del processo procreativo dal terreno della comunione interpersonale, mostra ora chiaramente la sua logica interna, e la mostra fino in fondo.

La separazione della procreazione dall’atto dell’amore coniugale ha avuto due conseguenze inevitabili: produzione della persona; spersonalizzazione del processo procreativo. Le due conseguenze vanno nella stessa direzione: il misconoscimento della singolare preziosità dell’humanum nell’universo dell’essere.

 

2. Abbiamo finora riflettuto sulle conseguenze: l’effetto ci fa conoscere la causa. Vorrei ora, in questo secondo punto della mia riflessione, riflettere direttamente sulla causa in se stessa, alla luce anche di ciò che ho già detto. Benché le riflessioni seguenti siano di minor immediata percezione, esse tuttavia stanno a fondamento di ciò che ho già detto. E appunto, le fondamenta non si vedono, ma ci sono.

Terminando la riflessione del punto precedente, ho detto che ci troviamo di fronte ad un misconoscimento del posto singolare che l’uomo occupa nei gradi dell’essere, degradandolo al grado delle cose. Il giudizio può essere considerato falso, traendo conseguenze più estese che le premesse. In realtà — si può obiettare — la tecnica riproduttiva prende il posto di un processo che, anche nella procreazione per congiunzione sessuale, è naturale e non personale (generatio opus naturae non personae, dicevano già i vecchi testi di medicina). L’obiezione mi costringe, ancora una volta, a precisare con rinnovato rigore la “materia del contendere”. Che nell’insieme del processo procreativo naturale ci sia una parte dovuta all’attività libera della persona e una parte dovuta a cause non della persona considerata nella sua libertà; che, in altri termini, il processo procreativo sia in parte attività della persona e in parte attività che semplicemente avviene nella persona, è fuori ogni discussione. Ciò che non è fuori discussione per nulla, a giudizio dell’Istruzione, è il rapporto che deve esserci fra questi due momenti: il secondo deve essere o non un’immediata conseguenza del primo (o — il che è lo stesso — ciò che pone le condizioni del processo naturale deve essere un atto d’amore personale?)? Oppure quel processo può essere posto da un atto diverso dall’atto coniugale? La PA ha reso possibile questo. E in questo senso preciso essa ha separato la procreazione dalla sessualità umana. E abbiamo visto le due conseguenze antropologiche.

Considerando ora il fatto in sé di questa separazione, a me sembra che essa — proprio nel senso preciso appena richiamato — implichi una de-gradazione ontologica della persona umana e non solo di un suo aspetto. Procediamo con ordine.

 

2, 1. Lo sradicamento della procreazione dalla comunione coniugale nasce — e può nascere solo — dalla convinzione, almeno implicita e vissuta, che il processo procreativo non appartenga alla persona, non entri nella costituzione della persona al punto tale da non poter esserne astratto. Per essere più precisi: l’atto coniugale fertile in quanto fertile non è della persona, ma di qualcosa d’altro che la persona. Appunto un fatto naturale (= non personale), pur essendo e avvenendo nella persona. In esso non è presente la persona. In una parola; lo sradicamento della procreazione dalla comunione coniugale significa una visione della persona umana secondo la quale il corpo è altro dalla persona.

Vediamo di cogliere nei suoi punti essenziali questo processo di disintegrazione della persona in due parti solo giustapposte: il corpo e lo spirito. In realtà, non si parla più molto oggi di “spirito” nel contesto di quella cultura di disintegrazione della persona. Ciò di cui si parla è di libertà dell’uomo. Non è questo il luogo per mostrare come, nella cultura moderna, si è giunti progressivamente a ridurre la realtà spirituale dell’uomo all’esercizio della sua libertà. Ciò su cui mi preme attirare l’attenzione è sul fatto che la sessualità umana, nella sua naturale biologicità, non è più vista come avente in sé un significato proprio. Mi spiego meglio. Nessuno ha mai negato né oggi nega che dal punto di vista biologico la sessualità sia ordinata alla procreazione. Ciò che viene oggi comunemente negato è che questo finalismo biologico abbia in sé un significato etico; ciò che oggi viene comunemente negato è che la sessualità, biologicamente considerata, sia dotata di un linguaggio, abbia scritto in sé un messaggio che l’intelligenza scopre e la libertà deve rispettare. Ciò che viene, pertanto, affermato è che la sessualità è totalmente affidata alla libertà dell’uomo, che di essa fa uso secondo quel progetto di vita che è ancora la libertà a elaborare. La libertà può usare della sua sessualità sia nella sua forma etero- che omosessuale; può usare della sua sessualità ricorrendo alla contraccezione; può usare della sua sessualità come luogo dal quale ricavare i gameti di cui disporre per una procreazione artificiale. L’umanizzazione della sessualità consiste essenzialmente nel suo essere integrata, inserita in una decisione libera che plasma la sessualità secondo il proprio progetto esistenziale. La sessualità, se considerata fuori o astratta da questo inserimento (cioè: nel suo dato biologico), non ha alcuna verità propriamente umana.

In questo senso, ho detto che lo sradicamento della procreazione umana dalla sessualità è un “caso” di quella disintegrazione della persona umana, di cui la cultura nella quale viviamo ci offre altri e numerosi esempi.

 

2, 2. Facciamo ora un passo ulteriore. Ho detto di vedere in questa disintegrazione una vera e propria de-gradazione ontologica della persona umana. Ciò che abbiamo detto sembrerebbe, al contrario, avere il significato esattamente contrario. Quel progetto non esalta precisamente ciò che di più prezioso si ha nell’uomo, cioè la sua libertà? Non si è continuamente ripetuto che l’etica sessuale della Chiesa cattolica, soprattutto con e dopo l’Humanae vitae, ha voluto assoggettare l’uomo alla biologia, confondendo norme morali e leggi biologiche? Non si è presentata la procreazione artificiale come un deciso passo avanti nella razionalizzazione della natura (come già Goethe aveva previsto nel Faust)? Dunque, in una parola: ci troviamo di fronte ad un processo che se, controllato nei suoi dettagli, costituisce una più profonda umanizzazione dell’uomo? Come si vede, lo stesso fatto (la procreazione artificiale) riceve due interpretazioni contraddittorie. Eppure, è necessario che non subiamo questa contraddizione: ma che cerchiamo di uscirne. Non si tratta di questioni di dettaglio per la salvezza della persona.

Ciò che appare ad una riflessione attenta è che le due interpretazioni sono teoreticamente ispirate da due definizioni di libertà (umana) e, pertanto, alla fine, è sul nostro modo di essere liberi che si situa tutta la materia del nostro odierno contendere.

Un’interpretazione positiva dell’artificializzazione della procreazione umana ha in sé una sua logica stringente: essa implica una concezione della libertà come dominio senza, almeno in linea di principio, presupposti che debbano limitarla. Un pensiero, come quello moderno, dominato dalla passione ossessiva (direi) di partire da un “inizio assoluto”, da nessun pre-supposto, doveva finire, e di fatto è finito, nella riconduzione totale della realtà — dell’essere — alla libertà. Quando Schelling scriveva nel 1794 al suo amico Hegel “ho fatto una grande scoperta, che l’essere è libertà”, percepiva il centro del mondo moderno. E la libertà non può essere, in questo contesto, pensata e vissuta che come spontaneità assoluta.

Ora, esiste un ambito nel quale questa concezione della libertà ha modo soprattutto di esprimersi, verificarsi e realizzarsi: l’ambito del “fare”, cioè della “produzione”, della “tecnica”. Coerentemente, da una parte la libertà tende sempre più a identificarsi col potere (è libero chi ha potere di...) e, poi, col potere che è capacità di dominare tecnicamente tutti quei dati che si oppongono al potere dell’uomo. In questo contesto la produzione (tecnica) dell’uomo è da accogliere almeno tanto quanto la generazione (naturale) dell’uomo: anzi è da vedere come un dato umanamente positivo. In un certo senso costituisce il vero salto di qualità verso la conquista da parte dell’uomo della sua libertà: l’uomo può finalmente produrre se stesso e non affidare più il concepimento a un misterioso concorso casuale di forze sconosciute.

Vediamo però ora quale è il “prezzo” che l’uomo deve pagare a questo progetto di liberazione. Il prezzo è uno solo alla fine: la riduzione dell’uomo ad “oggetto” perché possa entrare in questo progetto. Mi spiego.

Che la libertà umana si manifesti anche nel fare, nella tecnica, è fuori discussione. Così — se non siamo stati completamente accecati dal tecnicismo imperante — penso sia chiaro per tutti che l’uomo non solo opera facendo, ma anche agendo: e c’è una diversità essenziale fra il “fare” e l’“agire”. Il secondo arricchisce, fa essere la persona come tale: divento più uomo quando conosco una legge di fisica (atto dell’intelletto), che quando ne faccio uso per dominare la materia (fatto tecnico). Ora se, almeno tendenzialmente, vedo la realizzazione principale della libertà nel fare — quando l’uomo deve decidere non del mondo che gli sta attorno, ma di se stesso — almeno tendenzialmente ridurrò questo “se stesso” ad un oggetto su cui esercitare il mio fare. La domanda “che devo decidere di me stesso?” diventa: “che devo fare di me stesso?”.

La caduta dall’altezza del concetto cristiano (ma non solo, si pensi alla proposta soteriologica delle grandi religioni orientali) di libertà è a picco. San Tommaso insegna — nella fedeltà alla grande tradizione del pensiero cristiano — che il primo atto della libertà umana, anche cronologicamente, è “l’atto di decidere di se stesso in rapporto al suo vero fine ultimo”. La libertà dell’uomo è elevata ad una tensione inaudita: decidere nel tempo dell’eternità del suo destino. Confrontato con il divino Tu, l’uomo esce dalla disperazione del “divertimento” (nel senso pascaliano) di chi riduce la libertà al puro sperimentare provvisoriamente tutte le possibilità e il contrario di tutte.

L’Istruzione si inserisce così nel discorso sulla libertà, proposto dalle due precedenti su libertà e liberazione.

Concludo questo secondo passo dell’interpretazione che sto dando della PA in sé considerata. Lo sradicamento dalla sessualità umana della procreazione è un caso di “disintegrazione” della persona umana, che comporta una de-gradazione onto-assiologica della medesima. Nel senso che quello sradicamento è un ulteriore passo in avanti di assoggettamento della persona umana a un progetto di pseudo-liberazione. Pseudo, poiché tendenzialmente è orientato a vedere (il corpo del)l’uomo come oggetto del fare umano: ambito in cui e su cui si esercita la tecnica. Per questo, più che rimanere perplessi e sconcertati di fronte a certi e ultimi sviluppi di questo progetto, è necessario interrogarci sulle sue radici ultime.

 

3. L’ultimo punto della mia riflessione vuole essere precisamente un tentativo di individuare queste radici. La domanda, dunque, potrebbe essere formulata così: che cosa rende possibile un evento come quello che abbiamo chiamato “degradazione onto-assiologica dell’uomo”? Procediamo ancora per gradi.

 

3, 1. Parlare di de-gradazione implica che l’universo dell’essere sia strutturato secondo una gradazione di “più e meno”. Tutti intuiamo immediatamente che essere “qualcuno” è ben diverso che essere “qualcosa”, che essere “qualcuno” è più che essere “qualcosa” e che la degradazione di “qualcuno” ad essere considerato solo “qualcosa” costituisce una de-gradazione onto-assiologica, cioè sul piano dell’essere e della dignità.

Questa naturale intuizione pone, tuttavia, un difficile problema alla nostra riflessione: qual è il criterio secondo il quale l’universo si presenta al nostro sguardo spirituale così graduato? qual è la misura secondo cui parliamo di un “essere più/essere meno”?

Non si può rispondere negando semplicemente l’esistenza di una tale misura, poiché questa negazione non spiegherebbe quell’intuizione originaria che ha strutturato ogni cultura umana. Non si può rispondere affermando semplicemente che questo ordine gerarchico dell’essere è deciso dall’uomo di attribuirsi una superiorità, di collocarsi al vertice. Quando ciascuno manca di rispetto a se stesso, non agli altri; quando uno degrada se stesso, non si sente dispensato da un ordine che egli stesso avrebbe deciso di istituire.  Semplicemente, sente profondamente ed in modo ingiustificabile di aver distrutto la propria dignità: una dignità non costituita dalla sua libertà.

Questa collocazione dell’uomo nell’universo non gli può derivare che dalla particolare “vicinanza” e “somiglianza”, da un particolare rapporto con l’Essere stesso Sommo nella sua dignità, con Dio stesso. L’uomo è l’unica creatura voluta per se stessa e non per le altre carature.

 

3, 2. Tutta la dignità dell’uomo è ultimamente fondata su questa singolare relazione che egli ha con Dio stesso. Quando questo fondamento si oscura nella coscienza dell’uomo; quando, ancor più, è negato, in quello stesso momento la dignità propria dell’uomo è esposta al rischio di essere negata in teoria e in pratica.

In questo contesto scopriamo la valenza profondamente anti-umana di quel concetto di libertà che abbiamo poc’anzi criticato, la carica di anti-umanesimo che porta nel suo seno. Il concetto di libertà come causalità prima, cioè priva di ogni presupposto, in linea di principio è giustificabile, alla fine, solo in un contesto ateo. E, pertanto, non c’è più nulla, in linea di principio, che possa imporsi alla libertà umana. In primo luogo, non si imporrebbe l’ordine onto-assiologico dell’universo.

Ecco perché l’Istruzione inizia nel modo seguente: «Il dono della vita, che Dio creatore e padre ha affidato all’uomo, impone a questi di prendere coscienza del suo inestimabile valore e di assumerne la respousabilità: questo principio fondamentale deve essere posto al centro della riflessione».