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Comitato "Cardinale Carlo Caffarra"


LA PAROLA DELLA CROCE
Sera del mercoledì delle Ceneri
8 marzo 2000

Nella lettera pastorale che vi ho inviato in occasione dell’Anno Santo vi chiedevo di vivere il Giubileo in modo tale che si realizzi in ciascuno di voi la profezia: "volgeranno lo sguardo a Colui che hanno trafitto" (Zac. 12,10). Questa sera, all’inizio della S. Quaresima, siamo nella nostra Cattedrale semplicemente per questo: per volgere lo sguardo a Colui che abbiamo trafitto.

L’apostolo Paolo parla di "occhi della mente" (cfr. Ef 2,18) che devono essere illuminati da uno spirito di sapienza e di rivelazione per una più profonda conoscenza del mistero della Croce.

Questo mistero ha come due dimensioni; la "Parola della Croce" (cfr. 1Cor 1,18) ci dice due verità intimamente connesse: la verità su Dio, e la verità sull’uomo. Riflettiamo pacatamente su ciascuna di queste due verità.

[Questa sera solo sulla prima: "La verità su Dio". L'intera catechesi sarà ripetuta, completa, nella relazione che si terrà il 10 aprile 2000 nell'Aula Magna della Facoltà di Giurisprudenza]

1. La parola della Croce dice chi è Dio

Riascoltiamo S. Bernardo: "Egli nutriva pensieri di pace e io non lo sapevo. Chi infatti conosce i sentimenti del Signore, o chi fu suo consigliere? (Ger 29,11). Ma il chiodo penetrando fu per me come una chiave che mi ha aperto perché io vedessi la volontà del Signore … E’ aperto l’ingresso al segreto del cuore per le ferite del corpo … appaiono le viscere di misericordia del nostro Dio, per cui ci visitò dall’alto un sole che sorge (Lc 1,78)" [Sermoni sul Cantico dei cantici; Ser. LXI, 4; Ed. Vivere in, Vol. 2, Roma 1996, pag. 166-167].

"E’ aperto l’ingresso al segreto del cuore": la Croce è la suprema rivelazione di ciò che dimora dentro al cuore di Dio. E pertanto l’apostolo può dire di "non sapere altri in mezzo a voi se non Gesù Cristo, e questi crocefisso" (1Cor 2,2). Alla domanda più alta che lo spirito creato possa fare: "chi è Dio?", noi rispondiamo: "cerca la risposta nel Crocefisso". Al desiderio di cui è impastato il cuore umano, il desiderio di vedere Dio (cfr 1,2,q.3, a.8), il cristiano risponde dicendo: "vedi il Crocefisso".

La Croce svela, in primo luogo, la logica interna all’articolo specifico della nostra fede: "il Verbo si è fatto carne e venne ad abitare in mezzo a noi" (Gv 1,14). E’ la logica della condivisione della nostra condizione umana, che consiste nella partecipazione alla stessa natura umana: nell’avvenimento della Incarnazione si mostra che Dio è veramente interessato alla nostra vicenda ed ai nostri casi umani, fino al punto da venire a viverli Egli stesso.

E’ stata costante nel cuore di ogni uomo la domanda se la nostra storia personale, se la storia di tutta l’umanità nel suo insieme fosse in ultima analisi dominata o dal caso o dalla necessità di un destino impersonale: da chi, alla fine, essa dipendesse. Al popolo ebreo era stata donata la vicinanza di Dio, quale non era mai stata donata a nessun altro popolo. Egli lo istruiva attraverso la Legge, lo guidava attraverso i suoi Profeti, lo difendeva "col suo braccio Santo". Ai pagani invece era stata donata solo la piccola zattera della ragione per attraversare il tempestoso mare dell’esistenza; ma essi, come insegna S. Paolo, "pur conoscendo Dio, non gli hanno dato gloria né gli hanno reso grazie come a Dio, ma hanno vaneggiato nei loro ragionamenti" (Rom 1,21). Vaneggiare nei propri ragionamenti: ecco la nostra più grande disgrazia ed il nostro rischio continuo. A ragion veduta, il sapiente pagano di poter fare "il viaggio in modo più sicuro e con minor rischio su più solida nave, ossia affidarsi ad una divina Rivelazione" [Platone, Fedone 85 C-D].

"Ma Dio, ricco di misericordia, per il grande amore con il quale ci ha amati" (Ef 2,4), "quando venne la pienezza del tempo, …mandò il suo Figlio, nato da donna" (Gal 4,4). Questi, il Figlio, di fronte alla decisione del Padre, di inviarlo nella nostra carne, "pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini" (Fil 2,6-7). E poiché questi "hanno in comune il sangue e la carne, anch’egli ne è divenuto partecipe" (Eb 2,14). In questo modo, "proprio per essere stato messo alla prova" [Egli stesso] "ed aver sofferto personalmente, è in grado di venire in aiuto a quelli che subiscono la prova" (ib. 18).

Nel mistero dell’incarnazione del Verbo appaiono le viscere di misericordia del nostro Dio, dal momento che Egli né si disinteressa delle nostre vicissitudini né se ne prende cura "dall’alto" della sua divina condizione. Se ne prende cura "dal di dentro": venendo Egli stesso a vivere le nostre umane vicissitudini.

Ma questa logica intrinseca alla decisione dell’Incarnazione ha trovato la sua conferma inequivocabile nella sofferenza della passione, e nella morte sulla Croce. E’ la sua sofferenza e morte la "prova definitiva" della condivisione da parte di Dio della nostra condizione umana. Come ci ha appena insegnato S. Pietro Crisologo: "questi chiodi non mi procurano tanto dolore, quanto imprimono più profondamente in me l’amore verso di voi. Queste ferite non mi fanno gemere, ma piuttosto introducono voi nel mio interno" [Discorso 108,3; Opera omnia, CNed., vol.2, pag.323].

"Introducono voi nel mio interno": introducono la vostra condizione umana, interamente, nella mia Persona divina. Entriamo nel mistero più profondo della Croce come conferma estrema della logica dell’incarnazione.

La sofferenza e la morte ci sono sempre presentate nella S. Scrittura come conseguenza del peccato: "la morte" scrive Paolo "ha raggiunto tutti gli uomini, perché tutti hanno peccato" (Rom 5,12). Tale è appunto il significato profondo e misterioso del racconto biblico della creazione e della caduta originaria. L’amore di Dio che ordinava la persona umana alla beatitudine della stessa vita divina, si affidava alla sua risposta libera: l’amore si offre e non costringe chi, non volendo amare, si rifiuta di lasciarsi amare. Ma la disposizione di grazia con cui Dio destinava l’uomo alla vita eterna, alla condivisione della stessa vita trinitaria, impedisce all’uomo medesimo di poter trovare la piena realizzazione di se stesso fuori del dialogo con Dio, a cui solo la grazia può condurlo ed in cui soltanto le sue più profonde aspirazioni trovano compimento.

Rifiutare l’amore di Dio non significa quindi solamente rifiutare la partecipazione, mediante la grazia, alla vita trinitaria; significa nello stesso tempo rifiutare quella piena realizzazione di se stesso, il cui nome è "felicità". E’ inoltrarsi in una strada di infelicità, che terminerà nella morte.

Nella luce della Rivelazione siamo in grado di comprendere l’assurdità totale della morte e la ragione profonda per cui non possiamo non sentirne l’intima contraddizione. Da una parte, infatti, in quanto siamo corpo e materia, non possiamo non corromperci e dissolverci; ma dall’altra parte, in quanto siamo soggetto spirituale, ci "sentiamo" chiamati all’eternità e, da questo punto di vista, è illogico ed assurdo morire, perché morire vuol dire essere definitivamente estromessi da quel dialogo di amore cui siamo stati destinati: "non i morti lodano il Signore, né quanti scendono nella fossa" (S. 113 B,17 ).

Fino a che punto giungerà la decisione di Dio di condividere la nostra condizione umana, decisione che si manifesta nell’Incarnazione del Verbo? la Croce risponde: fino al limite estremo, fino a condividere la nostra sofferenza e la nostra morte.

Il Verbo si è fatto uomo per soffrire la sofferenza dell’uomo e morire della morte dell’uomo (cfr. Eb 10,5-10); ha assunto interamente la nostra stessa natura e condizione umana turbata dal peccato, senza avere lui stesso la minima parte nel peccato. Il Verbo di Dio ha veramente sofferto ed è morto sulla Croce: è questa la più sconvolgente certezza della fede cristiana. Quando un uomo, uno di noi, soffre – fisicamente, moralmente o spiritualmente – o muore, è la persona che soffre, qualunque sia la parte del corpo o la facoltà dell’anima presa dalla sofferenza, ed è la persona che muore. Nello stesso modo è il Verbo che soffre tutto quello che Gesù Cristo soffre sulla Croce, poiché Gesù Cristo non è altri che il Verbo.

La Croce quindi è la massima rivelazione della potenza di Dio. La potenza di Dio è infatti la potenza del suo Amore. Ora la potenza dello amore non consiste nel dimostrare una tale forza da costringere il cuore dell’amato a corrispondere, togliendogli ogni libertà. La forza dell’amore consiste semplicemente nel dimostrarsi: nulla è più forte dell’amore nella sua debolezza, nulla è più debole nella sua forza. "se temete ciò che è di Dio, perché non amate almeno ciò che è vostro?" (S. Pietro Crisologo, cit.).

Ma la conpassione – condivisione del Verbo incarnato, spinta fino alla morte, non è stata impotente. Se Dio stesso non potesse fare nulla contro la nostra morte e sofferenza; se Egli stesso non potesse far altro che condividerle con noi, all’uomo sarebbe tolto ogni diritto di sperare. Venire a soffrire on un disgraziato non ha senso se non per farlo uscire dalla sua condizione, insopportabile se fosse senza via di uscita. L’Amore che ha scelto la via della debolezza compassionevole, è lo stesso Amore che ha creato l’uomo non per la morte ma per la beatitudine eterna: le decisioni divine sono irreformabili. Se condivide con me la morte, non è per rimanervi imprigionato dentro con me: "poiché dunque i figli hanno in comune il sangue e la carne, anch’egli ne è divenuto partecipe, per ridurre all’impotenza mediante la morte colui che della morte ha il potere, cioè il diavolo, e liberare così quelli che per timore della morte erano soggetti a schiavitù per tutta la vita" (Eb 2,14-15).

Il Verbo incarnandosi si è in qualche modo unito ad ogni uomo [cfr. Cost. Past. Gaudium et spes 22] e sulla Croce, colla sua morte e nella sua morte, Egli ha compiuto e fatto compiere in sé, a tutti gli uomini, il cammino di ritorno a Dio. "In Lui e per Lui il nuovo Adamo, questa umanità peccatrice, lui escluso, penitente in lui e per lui, è tornata a Dio con un atto di piena libertà. Atto di pentimento totale e di adorazione, di amore senza riserva, per cui è stato contraddetto e tolto di mezzo il contro-amore, che il vecchio Adamo aveva opposto all’amore divinizzante" [J.H. Nicolas, Contemplazione e vita contemplativa nel cristianesimo, LEV ed., Città del Vaticano 1990, pag. 157]. Veramente, ciò che è accaduto sulla Croce ha cambiato alla radice la nostra condizione umana: noi non siamo più condannati alla morte eterna, perché sulla croce Cristo morendo ha redento la nostra morte. La certezza che questo è realmente accaduto ci è donata dalla Risurrezione. Attraverso la Croce, la Risurrezione rivela pienamente quell’Incarnationis mysterium che noi celebriamo nel Giubileo. A causa della Risurrezione, noi sappiamo con certezza che la nostra umanità, non ideale ma quella reale [il Risorto conserva le stigmate], è definitivamente entrata nella Trinità santa e beatificante. Questo è il frutto della morte del Verbo Incarnato, poiché proprio "per questo Dio lo ha esaltato" (Fil 2,9a). Noi siamo per sempre in Dio. "L’uomo, l’essere assurdo, non è più assurdo. L’uomo, l’essere sconsolato, non è più sconsolato" (J. Ratzinger, Il cammino pasquale, ed. Ancora, Milano 2000, pag. 109).

Conclusione

Carissimi fratelli e sorelle, la nostra meditazione sulla Croce ci ha mostrato Chi è veramente Dio. Ci ha mostrato che in essa è il vero "tornante" della nostra storia: ciò che è accaduto sopra essa ha completamente cambiato la nostra condizione. Essa ha reso possibile ciò che il cuore desidera: la vera beatitudine; ha reso possibile pervenirvi. Poiché questo era la nostra condizione:

"E’ come se qualcuno riuscisse a vedere da lontano la patria, ma ci sia il mare che lo separa da essa. Egli vede dove andare, ma gli manca il mezzo con cui andare … C’è di mezzo il mare di questo secolo attraverso il quale dobbiamo andare, mentre molti non vedono neppure dove devono andare. Perciò, affinché ci fosse anche il mezzo con cui andare, venne di là Colui al quale volevamo andare. E che cosa ha fatto? Ha preparato il legno con cui potessimo attraversare il mare. Infatti, nessuno può attraversare il mare di questo secolo, se non è portato dalla croce di Cristo. A questa Croce potrà stringersi, talvolta, anche chi ha gli occhi malati. E chi non riesce a vedere dove deve andare, non si stacchi dalla Croce, e la Croce lo porterà".

[S. Agostino, Commento al Vangelo di Giovanni II, 2, Rusconi ed., Milano 1994, pag. 54]

O Crux ave, nostra spes unica!