«La verità sulla sessualità umana»
settembre 1985
La riflessione del teologo sui risultati acquisiti dalle precedenti ricerche non è agevole. Essa non può né deve limitarsi a riassumerle e a sistemarle. Deve ripensarle profondamente, mettendo in atto quell’intelligenza della fede in cui formalmente consiste il pensare teologico. E anche se le ricerche precedenti si limitano al campo biblico, in questo momento si deve riflettere tenendo conto della Tradizione e del Magistero della Chiesa.
La riflessione teologica (così intesa) sulla sessualità umana si inserisce nei tre momenti essenziali che scandiscono il piano provvidenziale di Dio sulla creazione: la creazione, la redenzione, la finale glorificazione. E questi tre momenti costituiranno le tre parti fondamentali del nostro studio.
1. La sessualità umana nel mistero della creazione
Non per caso, il discorso biblico sulla sessualità umana inizia con e nel racconto stesso della creazione dell’uomo. Questi esce dalle mani creatrici di Dio uomo-donna ed è marcato fin “dal principio” dalla differenziazione sessuale. Il fatto è di capitale importanza per comprendere la verità della sessualità umana. Di esso, infatti, la pagina biblica rivela il senso fondamentale: non lasciare l’uomo (maschio) solo e renderlo soggetto di una particolare benedizione, quella della fecondità. La meditazione teologica su questa rivelazione svela la prima, originaria, permanente verità della sessualità umana.
1, 1. La solitudine dell’uomo è connessa inscindibilmente al suo stesso essere persona, alla sua soggettività personale. Questa, infatti, è costituita dallo spirito che eleva l’individualità, propria di ogni essere in senso primo, a quel modo di essere in sé e per sé che è proprio della persona come tale. A se stesso trasparente, lo spirito — o meglio, più concretamente — il soggetto spirituale è dotato di quell’auto-consapevolezza che lo rende presente a se stesso, che non consente che possa essere integrato come parte in un tutto. D’altra parte, è nella natura dello stesso spirito, e dunque della persona, di essere “intenzionato” ad “altro da sé”. Le sue attività specifiche, il pensare ed il volere, lo muovono, lo spingono fuori di sé. La paradossalità dell’essere spirituale è costituita da questo suo statuto ontologico: è in sé e per sé, intenzionato verso l’altro.
Qualsiasi atto di intelligenza e di volontà realizza l’uscita dallo spirito, della persona da se stessa, dalla sua originaria solitudine? Prescindendo per il momento dall’attività conoscitiva, possiamo osservare che l’attività volitiva può muoversi verso il suo “oggetto” in due modi essenzialmente diversi. La persona può volere qualcosa in quanto ed in ragione del fatto che il “qualcosa voluto” le serve per il raggiungimento di uno scopo: ha ragione di mezzo o strumento per sé. Le è di una qualche utilità. Se consideriamo attentamente questo modo di volere, vediamo che esso non porta la persona fuori di sé. Già Platone notava che non si ama, in realtà, il vino o i cavalli, ma il piacere che procura il bere o il cavalcare. In ultima analisi, e in realtà, si ama se stessi cui si vuole procurare quel piacere. Ma c’è, anche, un altro modo di volere essenzialmente diverso da questo. Si vuole l’oggetto perché esso possiede in se stesso un valore, una particolare preziosità o bontà, tale da meritare di essere voluto. Questo modo di volere non si serve dell’oggetto, non lo usa, non lo indirizza ad altro, non lo inserisce in una concatenazione di mezzo-fine. Si ferma in esso. Si compiace della sua intrinseca bellezza, gioisce del suo intrinseco valore, fruisce estaticamente della sua intrinseca bontà. In questo modo, e solo in questo modo, lo spirito è uscito dalla sua originaria solitudine.
Ma quale “oggetto” è degno di essere voluto in questo modo? quale “oggetto” possiede una tale preziosità interna da poter essere voluto in questo modo? Prima di rispondere a questa domanda, devo aprire una parentesi. Si tratta di una riflessione importante che, però, nel tema attuale non possiamo lungamente giustificare.
L’atto di volontà è sempre preceduto da un atto di intelligenza che scopre il valore reale dell’oggetto. Il movimento della volontà non è il “primo”, il dato assolutamente originario dello spirito: esso è misurato dalla verità delle cose, che l’intelletto scopre. Da ciò deriva che quel movimento è intrinsecamente sub-ordinato, interiormente sottomesso ad un ordine di beni che altro non è se non lo stesso ordine dell’essere, in quanto si propone, attraverso l’intelligenza vera, alla volontà. Non la volontà umana, dunque, causa il bene delle cose volute, ma, piuttosto, è il bene delle cose volute a dare origine al bene della volontà. In questo senso e tenendo presente i due modi in cui si mette in atto il dinamismo volitivo, sant’Agostino affermava che il disordine consiste nel far uso di ciò di cui si deve godere e nel godere di ciò di cui si deve far uso.
Ritorno ora alla domanda lasciata inevasa. Solo la realtà che è in sé e per sé possiede una bontà, un valore che la rende degna di essere voluta in sé e per sé. Anzi: non solo degna, ma che può essere voluta solo in questo modo, poiché solo questo modo è adeguato al suo valore intrinseco.
Siamo, dunque, arrivati a questo punto: la persona esce realmente da sé solo quando vuole l’altro da sé in ragione del valore proprio di questo, quando lo vuole in sé e per sé. Solo la persona può (e deve) essere voluta in questo modo. Quindi, solo il rapporto con un’altra persona può fare uscire l’uomo dalla sua originaria solitudine. L’uomo posto di fronte agli animali rimane solo; posto di fronte ad un’altra persona non è più solo.
Si deve, tuttavia, notare immediatamente che la pagina biblica ci rivela che l’altra persona è “donna”: che nella prima originaria comunione interpersonale la sessualità — la differenziazione sessuale — costituisce un fatto di fondamentale importanza. Su di esso si deve ora soffermare la nostra meditazione teologica.
1, 2. L’avvio deve essere preso dalla riflessione sulla corporeità. Nell’universo dell’essere la persona umana è l’unica persona corporea. La cosa è singolare, non solo dal punto di vista numerico: dal punto di vista metafisico. Come è dimostrato dal fatto che essa ha sempre costituito un “nodo” in ogni seria riflessione antropologica, da Platone in poi.
È indubbio che l’uomo deve il suo essere persona al suo spirito, poiché solo allo spirito è dovuto l’essere sussistente che caratterizza l’essere personale. Ma è altrettanto indubbio che la nostra esperienza ci attesta non essere il corpo qualcosa di estraneo al nostro essere persona: è lo stesso io che è all’origine della messa in atto dei dinamismi spirituali, psichici e fisici. Solo, dunque, l’affermazione, secondo la quale lo stesso e identico atto (actus essendi) che fa essere lo spirito fa essere il corpo elevandolo ad essere corpo-persona, rende pienamente ragione dell’esperienza che ciascuno ha di se stesso.
Quest’affermazione — di carattere rigorosamente metafisico — è gravida di molte conseguenze di decisiva importanza per il nostro tema. In primo luogo, la natura (metafisica) della corporeità umana è intrinsecamente diversa dalla natura della corporeità animale ed infra-animale. E la diversità deve essere precisamente collocata nel fatto che solo la corporeità umana è corporeità personale: la persona umana è una persona corporea ed il corpo umano è un corpo personale. In secondo luogo, e di conseguenza, il corpo umano è interiormente ordinato ad esprimere, sul piano dell’universo visibile, la persona come tale: è di questa la manifestazione. In terzo luogo, ma non dammeno, ogni discorso sulla persona umana è sempre anche un discorso sulla sua corporeità.
Riprendo ora il filo della riflessione sul significato della differenziazione sessuale — diciamo, della sessualità — nella prima ed originaria comunione interpersonale di cui ci parlano le prime pagine bibliche.
La donna è creata “in ordine” alla comunione con l’uomo e reciprocamente; e l’uno e l’altro si scoprono collocati in questo ordine nel momento in cui si vedono come uomo, come donna. Questo atto di originaria visione è l’origine della loro comunione inter-personale. Che cosa vedono? Vedono il corpo nella loro differenziazione sessuale; in esso ed attraverso essi vedono la propria persona come chiamata alla comunione: ad uscire dalla sua solitudine. La sessualità — o meglio: il loro corpo in quanto sessualmente diversificato — è il luogo in cui la persona scopre se stessa a se stessa e all’altro. Ed il “se stesso” della persona è dono da farsi all’altro. Qui noi scopriamo la prima e fondamentale verità sulla sessualità umana.
La sessualità umana è intrinsecamente ordinata ad esprimere la vocazione della persona al dono di sé all’altra persona; è di questa donazione la possibilità stessa; è il “linguaggio corporeo” della comunione inter-personale.
1, 3. Questa comunione inter-personale è investita di una particolare benedizione: la benedizione della fecondità. La comunione inter-personale, cioè, è il luogo nel e dal quale sorgeranno le altre persone umane.
Questa inabitazione della fecondità nella donazione interpersonale costituisce uno dei punti centrali della dottrina cristiana della sessualità umana. Un punto che deve essere continuamente rimeditato e filosoficamente e teologicamente.
Che all’esercizio della sessualità sia connessa — o possa essere connessa — l’origine di una nuova vita è un dato di fatto che nessuno vorrà mettere in questione. Ci si deve, tuttavia, chiedere, subito dopo questa constatazione, se questo “dato di fatto” è meramente tale oppure se esso racchiude una esigenza di ordine etico, se esso esprime un “dover essere” fondato sulla verità stessa dell’essere. Esigere una risposta esplicita e formale a questa risposta dalle pagine bibliche sarebbe mettersi su una strada sbagliata, semplicemente perché è la domanda così posta che è assente. Tuttavia, la visione biblica della corporeità, della sessualità, alla fine della persona, porta racchiusa in sé e la domanda e la risposta.
Ripartiamo, dunque, dal dato di fatto, diciamo biologico: “la sessualità umana può essere feconda”, e dall’affermazione biblica: “la fecondità è la benedizione di Dio effusa sulla coppia umana”. Questa duplice constatazione ci porta immediatamente alla conclusione che fra l’origine di una nuova persona umana e la potenza creatrice di Dio si dà un rapporto preciso. La fede della Chiesa afferma questo rapporto quando insegna che ogni anima umana è creata immediatamente da Dio. Quale è il senso esatto di questa affermazione? poiché ogni persona deve il suo essere persona allo spirito, la creazione immediata dell’anima significa che ogni e singola persona è creata immediatamente da Dio. Ogni “io” umano, ogni soggetto personale umano esce direttamente dalle mani creatrici di Dio. A questa conclusione, per altro, giunge la ragione, anche priva della luce della Rivelazione. Se lo spirito appartiene ad un grado di essere essenzialmente altro che la materia, allora esso non può derivare dalla materia stessa. La negazione della creazione immediata dell’anima coincide filosoficamente con la riduzione completa dell’universo dell’essere alla materia. Parlare di un “auto-trascendimento” della materia, nel suo evolversi, verso lo spirito, filosoficamente ha lo stesso senso che parlare di un circolo quadrato.
D’altra parte, come abbiamo detto nel punto precedente, il corpo è elemento costitutivo della persona umana. E, pertanto, la persona umana è il termine dell’atto generativo della coppia e dell’atto creativo di Dio. L’esclamazione di Eva quando genera esprime questa visione (cfr. Gen 4,1): «Ho acquistato un uomo dal Signore!».
Dal momento, dunque, che l’attività generativa umana si inscrive, si inserisce dentro un atto creativo di Dio, è logica e giusta la domanda: come deve accadere questa “inserzione” perché sia degna del suo “contesto”? Chiamati a cooperare con il Creatore, l’uomo e la donna, per vivere degnamente questa cooperazione, dovranno assimilare — nel modo loro consentito — il loro atto all’atto divino: esprimere umanamente, nell’universo creato, ciò che Dio compie. Ora, l’atto creativo di Dio è nella sua intima essenza un atto di amore, dal momento che nessuna necessità né intrinseca né estrinseca lo costringe a creare. Per queste ragioni profonde, dunque, l’attività che può dare origine ad una nuova vita umana è nella sua intima essenza un’attività di amore. Il fatto che la sessualità umana sia in grado di dare origine ad una nuova vita umana è dovuto al fatto che la sessualità umana è in grado di porre in essere una comunione di amore.
Se l’intima natura dell’attività procreativa umana esige di essere radicata — esigenza non primariamente etica, ma ontologica — nella sessualità in quanto linguaggio della donazione, è altrettanto vero che la sessualità umana, in quanto linguaggio della donazione inter-personale, integra in se stessa la sua capacità procreativa (quando è presente). La visione che l’uomo e la donna hanno di se stessi, che li conduce, attraverso la loro corporeità alla percezione della loro persona come dono per l’altro, non può prescindere dalla capacità procreativa: ignorarla o negarla. Una simile ignoranza o negazione sarebbe una lettura falsa di quel linguaggio del corpo nel quale la persona dice se stessa.
1, 4. Siamo così giunti alla domanda più profonda sulla sessualità umana considerata nel mistero della creazione: nell’universo visibile dell’essere creato, qual è il significato ultimo della persona dell’uomo in quanto sessualmente differenziato? il significato ultimo della coppia umana?
San Tommaso si chiede se alla perfezione dell’universo creato in quanto creato sia necessaria l’esistenza anche dello spirito creato oppure se un universo creato senza spirito raggiunge ugualmente la perfezione (cfr. Contra Gentiles). La risposta è che lo spirito è necessario.
Per evitare, fin dall’inizio, possibili equivoci, è necessario precisare che non si afferma nessuna necessità condizionante la libertà dell’atto creativo di Dio. Ci si domanda solo se un universo creato privo dello spirito sia altrettanto perfetto — in quanto creato — di un universo nel quale esiste anche lo spirito creato. In altre parole: qual è il significato dell’esistenza di spiriti creati? la loro ultima, radicale ragione di esserci?
Come già abbiamo detto, l’atto creativo, considerato nella sua intima essenza, è un atto di amore. Atto di amore nel senso preciso che esso consiste nel dono che Dio fa dell’essere alla creatura. Solo Dio è lo stesso Essere sussistente e la creatura è solo perché partecipa dell’Essere: partecipazione voluta, decisa dal Creatore stesso. L’atto creativo rivela la Gloria di Dio, poiché ne manifesta il suo Amore.
Tuttavia, una donazione — come donazione — raggiunge la sua perfezione, solo quando il destinatario ne è consapevole. Un universo creato, dunque, nel quale fosse assente lo spirito, che solo possiede la consapevolezza, sarebbe un universo che non saprebbe di essere dono dell’Amore creativo di Dio. Sarebbe un universo creato, che proprio in quanto creato, rimarrebbe profondamente incompleto, imperfetto, nel suo manifestare la Gloria di Dio. La cosa trova conferma anche da un altro punto di vista. L’Amore creativo di Dio, creando, assimila la creatura a se stesso. La creatura non spirituale è costituzionalmente impossibilitata ad assimilarsi a Dio in quanto soggetto conoscente ed amante. E solo conoscendolo ed amandolo, la creatura si assimila perfettamente al Creatore.
Nel contesto di queste riflessioni, troviamo la risposta alla nostra domanda. Nell’universo visibile, l’uomo costituisce il vertice dell’universo creato, in quanto nell’uomo si esprime la verità intera della creazione come atto di Amore. E anche scopriamo la ragione ultima della creazione dell’umanità in coppia, uomo-donna. Nella loro comunione interpersonale intrinsecamente ordinata alla vita, si esprime, dentro l’universo creato, l’intima natura dell’Atto creativo: si manifesta la Gloria di Dio. Si deve notare immediatamente che in questa espressione e rivelazione è essenziale la dimensione corporea della comunione umana interpersonale. Infatti, l’uomo è collocato nell’universo materiale e la verità dell’atto creativo diviene visibile in esso, in quanto quella comunione si realizza nel e attraverso il corpo.
Possiamo, dunque, anche dire che mediante il corpo, la comunione interpersonale dell’uomo colla donna possiede una primordiale sacramentalità nell’ordine della creazione. Essa, infatti, nella sua visibilità, costituisce il segno originario dell’Amore creativo di Dio.
2. La sessualità umana nell’ordine della Redenzione
La riflessione sulla sessualità umana nell’ordine della Redenzione non istituisce un discorso estraneo o parallelo a quello precedente. In realtà, la creazione è in vista della vocazione dell’uomo a partecipare in Cristo della stessa vita divina: ad essere figli nel Figlio Unigenito. Solo, dunque, nella luce di Cristo, la creazione è intimamente comprensibile. Questa predestinazione dell’uomo, per il peccato dell’uomo, diviene predestinazione redentrice. La realizzazione dell’eterna predestinazione implica anche la guarigione, la liberazione dell’uomo dal suo peccato.
2, 1. L’intrinseca capacità della comunione coniugale ad essere “sacramento” dell’Amore creativo di Dio viene elevata a significare l’Amore del Dio dell’Alleanza con Israele. In questo, come dimostrano gli studi biblici precedenti, consiste l’apporto originale e nuovo che i Profeti fanno acquisire alla coscienza credente.
A dire il vero, tuttavia, questo apporto è presentato prevalentemente per “viam negationis”, potremmo dire. È presentato secondo questo schema: non come il matrimonio umano, fatto di tradimenti, è il “matrimonio” di Dio con Israele, fatto di amore eternamente fedele. Ma in questa contraddizione, esiste un termine “medio” comune, ed è precisamente l’amore coniugale: realizzato in modo eminente, archetipale fra Dio ed Israele, negato fra l’uomo e la donna. Ed in questo sta già inscritta la prospettiva di una redenzione dell’amore coniugale umano stesso, della sessualità umana quindi, per riportarlo alla verità originaria: “al principio”, come dirà Gesù. In questo nucleo è già racchiusa l’intera verità della sessualità umana considerata nel mistero della Redenzione. Un nucleo che ora deve essere pazientemente spiegato ed analizzato.
La prima domanda è la seguente: quale è la ferita che il peccato ha inferto alla comunione coniugale e, quindi, particolarmente alla sessualità umana?
Nello stato di giustizia originaria, l’uomo e la donna si vedevano nella loro nudità. Questo “sguardo” era qualcosa di molto profondo. Esso giungeva all’altro come persona e co-implicava anche un movimento della volontà con cui l’altro era voluto in se stesso e per se stesso.
Questo sguardo umano rendeva l’uomo e la donna partecipi dello stesso sguardo divino: quell’atto con cui il Creatore ha visto e voluto l’uomo e la donna come persone, cioè per se stessi. Era questa la base della loro comprensione interpersonale, nella quale anche la corporeità entrava pienamente, in quanto attraverso essa e in essa la persona esprimeva se stessa.
Qualcosa ha rotto tutto questo; ha minato, anzi, la base stessa della comunione interpersonale. Che cosa? è stata la disobbedienza a Dio, il peccato.
Il cammino della perdizione umana ha il suo inizio in un atto di profondo sospetto nel Dio della creazione. Egli è visto come Colui che non vuole il bene totale dell’uomo, il principale nemico della grandezza dell’uomo. Dio è creduto invidioso dell’uomo. Riflettendo attentamente su questo punto, possiamo renderci conto che in questo modo il rapporto dell’uomo a Dio è sostanzialmente mutato. Egli non vede più se stesso come dono uscito dalle mani di Dio, ma come qualcuno che appartiene a se stesso esclusivamente, qualcuno che è proprietà di se stesso. Scompare dall’orizzonte intenzionale dell’uomo l’idea di creazione come donazione per sostituirvi un’affermazione di se stesso contro il Creatore.
La mutazione del rapporto con Dio non poteva non implicare una profonda mutazione nel rapporto dell’uomo con la donna, nella comunione interpersonale. Scomparsa l’idea e l’esperienza del Dono, anche l’altra persona non è più vista in quella luce originaria che sgorga dall’atto creativo. La comunione — se ancora si può parlare di comunione — sarà possibile solo se l’uno si lascerà possedere dall’altro: la comunione potrà essere costruita solo sulla base di un rapporto di “possesso” reciproco, nella misura in cui si consente ad essere posseduti. Alla comunione nel dono subentra il reciproco possesso.
In questo contesto, che ne è della corporeità, più precisamente della sessualità umana? La persona, come abbiamo più volte ripetuto, si rivela nel ed attraverso il suo corpo. Poiché l’altro non è più visto come dono, ma come oggetto da possedere, anche la sua corporeità e la sua sessualità subisce una caduta. Il corpo e la sessualità dell’altro non è più vista come segno espressivo della sua soggettività personale. È vista e voluta “con desiderio”: cioè con la “fame” di chi vuole possedere l’altro. Questa caduta della corporeità e della sessualità travolge con sé anche la persona come tale. È questa che decade dal suo grado di “soggetto”, che deve essere voluto in se stesso e per se stesso, al grado di “oggetto”, che può essere usato. Nella predicazione di Gesù, questa è l’essenza dell’adulterio: un evento che accade nel cuore, dunque, prima che nell’atto esterno. Ed in questo consiste la distruzione della comunione coniugale.
Si ha, quindi, una dis-integrazione della persona umana che perde la sua interiore unità. Infatti, in questa situazione il corpo umano non rivela più la persona, il suo “linguaggio” non parla più della persona: o, quanto meno, non è più letto come significativo della persona come tale. Della propria e di quella altrui. È visto in se stesso, come corpo non personale e, quindi, come qualcosa (non qualcuno) di cui fare uso.
Da questa radice profonda, da questo modo di considerare se stesso e l’altro in ordine a Dio, da questa divisione dell’uomo da Dio che genera divisione nell’uomo, nascono tutti i “frutti della carne” o della concupiscenza: adulteri, fornicazioni, divorzio. Ed ha origine quel mondo che si contrappone al mondo come è pensato ed uscito dal Creatore. E se la sessualità caduta nel peccato non perde la benedizione della fecondità, tuttavia anche questa non rimane immune. Da una parte, infatti, la generazione umana non è più in grado di generare l’uomo nella giustizia, ma lo genera nel peccato e, dall’altra, come dimostra il fatto di Onan, l’uomo la rifiuta colpevolmente.
2, 2. Il cammino della “redenzione del corpo”, della redenzione della sessualità umana, della redenzione della comunità coniugale è lungo e difficile e la Rivelazione biblica, analizzata nei contributi precedenti, ne descrive lo svolgimento.
Il primo momento di questo cammino è costituito dal dono che il Signore fa della Legge: le tavole dell’Alleanza contengono anche precetti riguardanti l’esercizio della sessualità e la vita coniugale. In realtà, l’uomo col suo peccato non ha distrutto in sé la verità originaria del suo essere personale, il suo essere “ad immagine e somiglianza di Dio”. Nella sua intima essenza, infatti, il peccato è un atto della libertà che non vuole riconoscere la verità né subordinarsi ad essa: la verità di Dio, la verità dell’uomo, la verità delle cose. Ma questa insubordinazione non muta la verità stessa, per la semplice ragione che questa non è costituita, non è creata dalla libertà umana. Questa insubordinazione ha come effetto di dare origine nell’uomo e dentro l’universo ad una profonda contraddizione fra ciò che la persona umana fa di se stessa col e nel suo agire e ciò che essa è in realtà: una contraddizione che è sentita dal peccatore nella sua coscienza stessa, nel cuore.
La Legge che Dio gli insegna lo richiama continuamente al suo cuore, come è continuamente detto nell’opera deuteronomistica, alle esigenze della verità del suo essere posto nell’Alleanza con Dio creatore e redentore e gli impedisce di rendere le sue orecchie sorde a queste esigenze. È, dunque, una legge che sia pure scritta ed intimata dall’esterno, è già presente e scritta nella coscienza morale dell’uomo come tale. Essa, dunque, non è conosciuta solo da Israele, come insegna san Paolo, ma anche dai pagani.
A dire il vero, tuttavia, la legge da sé sola non può redimere la comunità coniugale, come non può redimere l’uomo. Il suo ruolo, infatti, si riduce, da una parte, a richiamare continuamente l’uomo alla verità originaria del suo essere e, dall’altra, ad accusarlo nella contraddizione e nella menzogna in cui l’uomo medesimo, col suo peccato, si è cacciato. Nulla di più di questo, da sé sola la legge può compiere. Non offre all’uomo la possibilità di farlo uscire da questa situazione.
Si deve, tuttavia, notare che l’accusa della legge di Dio è ben diversa da quella di qualsiasi altra autorità, da qualsiasi altra accusa. Essa, infatti, conduce l’uomo — che vi si sottomette — ad un giudizio negativo su se stesso, ma alla luce di una verità da cui l’uomo si è allontanato, senza avere potuto distruggerla: che permane, dunque, nel suo cuore. E, pertanto, mostra sempre all’uomo a che cosa egli è realmente chiamato.
Ma, incapace di cambiare, di convertire la libertà umana, la legge viene a patti colla malizia di questa: con la durezza del cuore umano. Se Mosè, esigendo nella sua legislazione precise garanzie per lo scioglimento del vincolo coniugale ha, da una parte, posto il freno al male, però, dall’altra parte, ha accettato di introdurre nella comunità dell’Alleanza qualcosa che non esisteva “al principio”.
Quando Gesù enuncia il suo comandamento sulla sessualità umana nel discorso sul monte, Egli si richiama subito al cuore dell’uomo, al soggetto ultimo del desiderio concupiscente, vedendo in questo, prima ancora che nell’atto esterno, la sorgente ultima della distruzione della comunità coniugale. E quando è chiamato a pronunciarsi sulla legislazione mosaica, Egli la giudica non conforme “al principio”, attribuendo la responsabilità di questa difformità alla “durezza del cuore”. Con questo duplice intervento, Gesù rivela di essere venuto a riportare l’uomo e la donna, la loro comunione coniugale, alla santità della prima origine: a redimere interamente il corpo e la sessualità umana. Poiché “la legge fu data per mezzo di Mosè, la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo” (Gv. 1, 17). È in questa “grazia e verità”, venute solo per mezzo di Cristo, che la corporeità e la sessualità umana sono redente e possono, pertanto, essere riportate all’obbedienza della legge che era “al principio”.
Come ci attesta l’autore della lettera agli Ebrei (10, 5-10), il Verbo assume un corpo perché possa fare di se stesso un sacrificio, una donazione che sia accetta al Padre. Ed è per questo sacrificio del corpo di Cristo che anche i suoi discepoli possono offrire i loro corpi come sacrificio vivente a Dio gradito: e sono invitati a farlo, avendo conosciuto la misericordia di Dio (cfr. Rom. 12, 1-2). E, infatti, mangiando il corpo eucaristico del Signore, il cristiano diviene partecipe della stessa carità che è all’origine del sacrificio della Croce. Come confermano anche tutte le ricerche bibliche precedenti, il corpo nel linguaggio biblico non connota una parte della persona, staccata dalla persona stessa: connota questa stessa nella sua visibile concretezza. Nel corpo e per il corpo di Cristo, la corporeità umana è pienamente redenta poiché in essa e per essa Cristo (e l’uomo che lo segue) può far accadere in questo universo creato, quell’atto di glorificazione del Padre, che è la ragione stessa dell’esistenza di tutta la creazione. Il corpo è reintegrato pienamente, nella vita della persona che fa di se stessa dono. E la Chiesa è lo stesso corpo di Cristo, una sola carne con Lui (cfr. Ef. 5, 23), nel quale effonde la sua grazia e la sua verità. In questo evento cristologico-eucaristico-ecclesiale è posta, per sempre, la redenzione del corpo e, dunque, anche della sessualità umana. Una redenzione sulla quale ora dobbiamo riflettere brevemente.
Come abbiamo già detto, il male causato dal peccato nel corpo umano e nella sessualità consiste nella dis-integrazione di questi dalla persona umana come tale, nella loro “degradazione” ad oggetti possibili di uso: una degradazione — sia detto contro ogni forma di possibile encratismo — ovviamente non di carattere ontologico, ma etico, voluta dalla libertà dell’uomo peccatore. La radice di questa volontà sta, come abbiamo visto, nella decisione dell’uomo di non rimanere più nella verità del suo rapporto con Dio creatore. La redenzione del corpo e della sessualità ha il suo principio nel riportare l’uomo in questa verità. E ciò può accadere in un solo modo: nel rivelare all’uomo l’Amore di Dio, il Suo Volto di Padre. Una rivelazione che non percuota solo le orecchie di chi l’ascolta, ma penetri nel cuore dell’uomo: dia all’uomo quell’esperienza dell’Amore del Padre che lo attragga (cfr. Gv. 6, 44) interiormente verso di Lui. Questa esperienza è prodotta nel cuore dell’uomo dal dono dello Spirito nel quale l’uomo può gridare “Abbà, Padre” (cfr. Rom. 8, 15). La Nuova Alleanza fra l’uomo e Dio può essere costituita solamente da questa presenza; in essa, infatti, e per essa l’uomo rivede il volto di Dio e vede se stesso nella sua verità intera.
La conseguenza di questa inabitazione è che il corpo diventa il tempio dello Spirito Santo e che, pertanto, l’uomo viene liberato da quella appartenenza a se stesso che gli impedisce di costituire una comunione vera con l’altro (cfr. I Cor. 6, 19-20).
La comunione fra l’uomo e la donna, come abbiamo visto, è il luogo originario nel quale si rivela — nell’universo visibile della creazione — il mistero originario dell’Amore di Dio: il luogo in cui Dio pone la sua presenza, il suo tempio originario. Nel corpo di Cristo è stato ricostruito il tempio di Dio e lo Spirito rende l’uomo membro di Cristo. Solo l’amore coniugale pone in essere quell’unità nel corpo che fa di questo il luogo nel quale rifulge la gloria di Dio (cfr. 1 Cor. 6, ibid.): diversamente si renderebbero le membra di Cristo membra di una prostituta. L’uomo e la donna, giustificati dalla presenza dello Spirito, sono in grado di reintegrare nella sua originaria verità e significato la loro corporeità e sessualità, poiché sono resi capaci di fare di se stessi un dono totale, nell’amore. Ed in questo avviene la santificazione del loro corpo e della loro sessualità. La legge di Dio è compiuta, senza compromessi, poiché la persona umana è liberata dalla sua concupiscenza.
In breve: la “redenzione del corpo” è compiuta, in quanto esso ridiventa l’espressione della persona ritornata nella verità del suo essere dono.
2, 3. Ma la redenzione del corpo e della sessualità si inscrive in un progetto divino che si propone, come suo unico scopo, la divinizzazione dell’uomo in Cristo. Un progetto in cui l’atto creativo è il primo momento. È nella luce di questa unitaria progettazione divina che il corpo e la sessualità umana, in quanto vissuti nella comunione coniugale, raggiungono la loro pienezza. Realizzano quell’intimo significato, quel “telos” nativo, già inscritti in esso dallo stesso atto creativo.
La comunione che rende l’uomo e la donna una sola carne è in vista di quell’unità fra Cristo e l’umanità che costituisce la Chiesa nel suo mistero più profondo: l’intenzione ultima del Creatore della coppia originaria era quell’unità. Ciò che era impossibile al matrimonio della Vecchia Alleanza, significare il legame di Dio con Israele, diviene ora possibile al matrimonio della Nuova Alleanza, poiché esso si inscrive nel mistero della Chiesa, e da esso riceve la possibilità stessa di esistere. Cristo dona il suo corpo ed il suo sangue sulla Croce ed in questo dono diviene una sola carne con l’umanità-Chiesa. Da questo dono ed in questa unità, l’uomo e la donna possono diventare una sola carne, nel modo voluto da Dio fin dal principio. Nel modo, cioè, che consente loro di essere “sacramento” dell’unità di Cristo col Suo corpo che è la Chiesa.
3. La sessualità umana nel mistero della glorificazione finale
L’avvenimento della salvezza cristiana ha, tuttavia, rivelato all’uomo e alla donna un altro modo di vivere la sessualità umana, donando loro la possibilità di viverlo: la verginità cristiana. Una riflessione, dunque, sulla sessualità, che non comprendesse questo fatto, sarebbe sostanzialmente lacunosa.
3, 1. Che l’uomo possa rinunciare al matrimonio e, quindi, ad un legittimo esercizio della propria sessualità e che di fatto ciò sia accaduto e accada anche fuori dell’esperienza cristiana è un dato incontrovertibile. Ma la novità della verginità cristiana sta altrove: sta nella relazione che Cristo stesso pone fra quella decisione, il “Regno dei cieli” e la risurrezione finale della carne. Se pensiamo alla centralità che ha, nella predicazione di Gesù, il tema del Regno di Dio alla novità di questa verità cristiana della resurrezione dei corpi, ci rendiamo conto immediatamente che il tema della verginità è qualcosa di centrale nel discorso cristiano sulla sessualità umana.
Tutte le ricerche bibliche sul tema del Regno di Dio hanno portato ad alcune acquisizioni che possiamo ritenere sicure. Il Regno di Dio connota l’intervento salvifico definitivo da parte del Signore che ristabilisce l’uomo e tutta la creazione nella sua santità: un intervento, dunque, che in primo luogo si rivolge al peccatore. Questo intervento raggiungerà la sua pienezza definitiva quando questo mondo, questa storia sarà condotta al suo termine: un termine che coincide colla vittoria sull’ultimo nemico, la morte stessa. Solo allora il Regno di Dio sarà pienamente venuto.
Per questa ragione, colla risurrezione di Cristo, il Regno è già sostanzialmente realizzato e il tempo che scorre dopo di essa non ha altra ragione d’essere se non quello di manifestare la potenza salvifica.
Si dà così un’obiettiva connessione fra Regno di Dio, risurrezione di Cristo e risurrezione della carne ed è in questa connessione che si colloca precisamente il mistero della verginità cristiana, la quale svela la verità più profonda della sessualità umana.
3, 2. Il matrimonio appartiene al presente ordine: è l’istituzione di questo tempo e, pertanto, esso è destinato ad avere un termine (cfr. Lc 20, 34-36). D’altra parte, la risurrezione della carne costituisce la perfetta redenzione del corpo. In che cosa consiste questa perfezione? Benché la Rivelazione sia molto parca nel fornirci una risposta a questa domanda, tuttavia da alcuni dati essenziali è possibile avere preziose indicazioni al riguardo.
La perfezione del corpo umano consiste nella sua personalizzazione, in una completa integrazione nel soggetto personale. Se teniamo presente che, come abbiamo già detto, l’essere personale è proprio dello spirito, si può dire che la perfezione del corpo consiste in una sua perfetta spiritualizzazione. Il che equivale a dire: in una perfetta sottomissione alle esigenze della persona. L’intrinseca ordinazione del corpo ad esprimere e realizzare la persona umana trova la sua perfetta attuazione solo nella risurrezione: ed in questo sta la sua completa redenzione.
La vita della persona, come abbiamo visto all’inizio di questa riflessione, consiste in una soggettività che si fa dono all’altro, e la corporeità, la sessualità umana — in quanto informata dallo spirito — è precisamente ordinata a questo. Essa porta inscritta in se stessa questa capacità di dono, questo significato. La perfetta redenzione del corpo, quale si ha nella risurrezione della carne, restituisce integralmente questo significato al corpo e alla sessualità.
Resta, tuttavia, il fatto che il matrimonio non appartiene al tempo della definitiva redenzione del corpo. Da ciò consegue che fra l’intrinseca ordinazione del corpo e della sessualità ad esprimere il dono della comunione interpersonale e il matrimonio non si dà un rapporto così necessario che al di fuori di esso quel significato non trovi nessuna possibilità di realizzazione. In ciò sta precisamente la scoperta antropologica, la verità più profonda sull’uomo apportata dal dono della Verginità cristiana. Questa svela che il significato unitivo della corporeità-sessualità umana appartiene all’uomo come tale, non all’uomo del presente: è costitutivo della persona umana come tale, non della persona in quanto chiamata al matrimonio. Non solo. Perché questa rivelazione fosse possibile, era necessario che in un qualche modo la definitiva redenzione del corpo fosse già presente ora, così che l’uomo e la donna potessero realizzare la verità del significato di dono, inscritto nel loro corpo, nel modo nuovo, non coniugale. La presenza già ora è costituita dalla risurrezione del corpo di Cristo che unisce a sé la sua Chiesa e le dona, pertanto, il carisma della verginità. In questo modo, il vergine anticipa fin da ora questa situazione definitiva in cui verrà a trovarsi il corpo e la sessualità umana. I due “stati di vita”, dunque, da una parte si radicano nella stessa radice antropologica e nello stesso evento cristologico-ecclesiologcio e, dall’altra, si richiamano a vicenda in una dialettica di complementarità.
La radice antropologica comune è costituita dalla verità della corporeità-sessualità umana, redenta nel e dal Corpo di Cristo che unisce a sé la Chiesa. La complementarità dialettica è costituita dal fatto che la verginità cristiana relativizza lo stato coniugale dentro la “scena di questo mondo” (cfr. 1 Cor 7, 29) e lo richiama continuamente alla sua verità permanente, la comunione interpersonale. Ed è, reciprocamente, costituita dal fatto che il matrimonio richiama continuamente la verginità ad essere dentro al tempo presente quel segno anticipatore della comunione definitiva ed eterna. Solo nell’archetipo della Chiesa, nella Madre-Vergine, in Maria, questa dialettica si è pienamente placata e la redenzione definitiva del suo corpo non dovette attendere la fine della storia.
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