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Comitato "Cardinale Carlo Caffarra"


C’È ANCORA BISOGNO DI MAESTRI?
Incontro all’Università di Ferrara
12 febbraio 1998


Magnifico Rettore,
Chiar.mi Professori,
Carissimi Studenti,
è un grande momento quello che mi è stato consentito di vivere questa sera: un incontro sui grandi temi del destino umano, nel luogo in cui dimora la passione per la verità.

 Consentitemi di iniziare con una lunga citazione che narra l’incontro di due persone, di un grande maestro con un giovane:
“Egli ci accolse fin dal primo giorno: il primo, effettivamente, e devo dirlo, il più prezioso di tutti. Infatti, allora, per la prima volta cominciò per me a risplendere il vero sole. Noi, da principio, alla maniera di bestie selvatiche, pesci, uccelli, che caduti nei lacci, nelle reti, tentano di sgusciarne fuori, fuggire via, desideravamo allontanarci … Egli, pertanto, si adoperò con tutti i mezzi a legarci a sé … Soprattutto egli con grande abilità trattava argomenti che valessero a scuoterci nell’intimo, giacché mostravamo di trascurare quello che, come egli afferma, è il più importante dei nostri beni, la ragione” (Gregorio il Taumaturgo, Discorso a Origene, ed. Città Nuova, Roma 1983, pag. 64-65).

 Di che si tratta? Un giovane di nome Gregorio al termine dei suoi studi superiori, oggi si direbbe terminata l’Università, vuole fare una descrizione dell’esperienza vissuta negli anni della sua formazione accademica, parlando del rapporto vissuto col suo maestro, Origene. Siamo negli anni 232/233 – 238 d.C.. E’ possibile oggi che un giovane possa ancora rivivere l’esperienza di Gregorio? Dire con tutta verità che “effettivamente (il giorno) più prezioso di tutti” è stato l’incontro con i propri maestri, cominciando in quell’incontro “a risplendere il vero sole”? e che ciò accade perché si vive come uno “scuotimento nell’intimo”, poiché si “cessa di trascurare quello che … è il più importante dei nostri beni, la ragione”? O forse non è neppure più necessario vivere nella vita una tale esperienza? Ecco: vorrei tentare di rispondere a queste grandi domande. Verificare se la pagina del giovane Gregorio può essere scritta anche oggi.

1. Vorrei cominciare coll’attirare la vostra attenzione su una parola posta nel titolo di questa riflessione: bisogno. E’ una parola grande, dal significato immenso, perché connota la dimensione costitutiva del nostro essere-persona.
 Essa immediatamente significa una carenza, un vuoto: l’uomo è bisognoso perché è carente, perché “manca di qualcosa”. Ma nello stesso tempo non sentiamo bisogno se non di ciò che ci è necessario. Il bisogno, ogni bisogno è sempre rivelatore di una necessità. Chiederci se oggi c’è ancora bisogno di maestri equivale a chiederci se incontrare un maestro nella vita è per l’uomo necessario, oppure se può farne anche senza.
 Consentitemi ancora una volta di richiamarmi all’esperienza del giovane Gregorio. Egli parla di un “vero sole” che comincia a risplendere nella sua vita per la prima volta; parla di uno scuotimento interiore; nello stesso tempo vive questa esperienza come un apparente imbrigliamento dentro ad una rete da cui cerca di sfuggire. Che cosa, alla fine, è successo? È finita la disistima, la trascurataggine del “più importante dei nostri beni, la ragione”. Che non sia proprio questo il bisogno più intimo dell’uomo, la sua necessità più imprescindibile, cioè il bisogno, la necessità di “ragione, cioè di darsi ragione”?
 Nessuno forse ha espresso questa fondamentale verità sull’uomo con più forza di Dante, parlando di Ulisse: “Né dolcezza di figlio, né la pieta/ del vecchio Padre, né ‘l debito amore/ lo qual dovea Penelopè far lieta,/ vincer poter dentra a me l’ardore/ ch’ì ebbi a divenir del mondo esperto (Inferno XXVI, 94-98)”. Certo, l’uomo vive, sente grandi e numerosi bisogni; ma di tutti il più imperioso è veramente di “divenir del mondo esperto”? E’ pur vero che la posizione di Ulisse nel dar corso a “l’ardore” è ambigua, ed alla fine lo porterà all’auto-distruzione. Ma questa “ambiguità” è insita nell’ardore “a divenir del mondo esperto” oppure nel modo con cui egli ha voluto darvi corso? Non voglio per il momento rispondere a questa domanda, che è la domanda radicale che dovremmo porre alla modernità, ma seguire un discorso più semplice. Che cosa significa “divenir nel mondo esperti”? Ascoltiamo per un momento una pagina meritatamente famosa:
“Gli uomini hanno cominciato a filosofare, ora come in origine, a causa della meraviglia: mentre da principio restavano meravigliati di fronte alle difficoltà più semplici, in seguito, progredendo a poco a poco, giunsero a porsi problemi sempre maggiori … i problemi riguardanti la generazione dell’intero universo” (Aristotele, Metafisica 1982b,12-17; trad. Reale).

 Vorrei che nessuno fosse tratto in inganno interpretando il “filosofare” di cui parla Aristotele nel senso tecnico e specialistico che ha assunto per noi oggi: egli esemplifica infatti sia con esempi desunti dall’astronomia, sia dalla geometria. Qui il pensiero è assai più profondo e suggestivo: filosofare è meravigliarsi, è stupirsi, è non dare nulla (assolutamente nulla) per scontato; filosofare è ancora una volta, non fermarsi alla constatazione di ciò che è, ma chiedersi la ragione di ciò che è: svelarne l’intima intelligibilità. Ora è chiaro che solo chi ha custodito intatta la capacità di stupirsi, sa chiedersi e non può non chiedersi la causa di ciò che è: la ragione dell’intero. “Admiratur et admirando inquirit” (S. Tommaso d’Aquino, 1,2.q.3,a.8). Inquirit: ma fino a quando? ma per quanto tempo? “Nec ista inquisitio quiescit, quousque perveniat ad cognoscendum essentiam causae” (ibid.). Notate bene: non c’è fine se non quando si conosce “l’ultima ragione” di ciò che ci stupisce.
 Ma è proprio vero che – come riconobbe il giovane Gregorio – “il più importante dei nostri beni (è) la ragione”? che il più urgente dei nostri “ardori” è l’ardore a “divenir del mondo esperto”? che il nostro naturale desiderio di beatitudine non si acquieta fino a quando non si conosce “l’intima ragione del tutto”? è solo frutto di ingenuità dare il proprio ammirato assenso all’evidenza dantesca: “Ciascun confusamente un bene apprende/ nel qual si quieti l’animo e disira/ per che di giugner lui ciascun contende”? è solo immaturità adolescenziale commuoversi ancora profondamente quando sentiamo vera la definizione della meta ultima della nostra inquisitio, data ancora da Dante, come “luce intelletual, piena d’amore amor di vero ben, pien di letizia;/ letizia che trascende ogni dolzore” (Paradiso XXX, 40-42)? La cascata quasi inarrestabile delle domande vi dice che siamo arrivati ad un punto, ad una svolta decisiva nella nostra riflessione: la domanda sulla verità dell’uomo, sul suo più profondo bisogno.

2. Vorrei invitarvi allora, in questo momento, a rivivere in voi con verità ed intensità la prima nostra esperienza originaria: originaria in tutti i sensi. E’ l’ingresso della nostra persona nell’universo dell’essere. Non a caso ogni lingua esprime questo ingresso, la nostra nascita, dicendo: venire alla luce. Ma come è possibile rivivere una tale esperienza? Volgiate perdonarmi se mi servo di un esempio un po’ banale.
 Immaginate fortemente di essere su un aereo e che a causa di un guasto tecnico, esso sia costretto ad atterrare in un territorio sconosciuto, in un’isola – poniamo -  dell’Oceano assolutamente sconosciuta, non disegnata neppure sulle carte geografiche. Scesi dall’aereo, che cosa viene subito da chiedersi? Non si può non domandare: dove sono arrivato? La domanda sul luogo è inevitabile. Ma una seconda domanda urge dentro immediatamente: siamo soli oppure ci sono altri abitanti? Saranno amici od ostili? La domanda sulle condizioni del luogo. Ma una terza domanda non può non sorgere: fino a quando mi dovrò fermare in questo luogo? L’organizzazione della vita cambia completamente a seconda che questo sia per me un “luogo di passaggio” o una “stabile dimora”. Che cosa questa immagine voleva farci in un qualche modo rivivere? L’impatto colla realtà. Non conosco altra strada per riconoscere quali domande ultime e penultime dimorano nel mio cuore, di quali desideri ultimi e penultimi esso pulsa quotidianamente, da quali bisogni ultimi e penultimi è scosso, che quella di “vivere il reale senza preclusioni, cioè senza rinnegare e dimenticare nulla” (L. Giussani, Il senso religioso, Ed. Rizzoli, Milano 1997, pag. 150-151). Le domande cominciano  a spegnersi, i desideri ad estinguersi, i bisogni a raccorciarsi quando si comincia a restringere la nostra apertura alla realtà. Aristotele scrisse che proprio dello spirito è di essere in un qualche modo tutto, di essere aperto alla realtà nella sua interezza. Niente di tutto ciò che esiste gli è estraneo. Essere ragionevoli equivale veramente venire alla luce: cercare la spiegazione ultima di ogni realtà. C’è una reciproca dimora di uno nell’altro: l’itinerario verso il significato ultimo della realtà è vivere la realtà, e reciprocamente vivere la realtà in seno pieno (la beatitudo di Tommaso) significa vedere il significato ultimo della realtà. Questa reciproca immanenza o dimora dell’essere nella ragione e della ragione nell’essere ha un nome: è la verità. Essere veri significa vivere la realtà, conoscendone il significato ultimo; oppure (il che equivale) conoscere il significato ultimo della realtà, vivendola interamente senza negazioni e dimenticanze. E questa è la nostra beatitudine, poiché “sola veritas facit beatos” (Agostino, En. in PS. 4,3; NBA XXV,36). Penso che nessuno che voglia parlare seriamente, possa dire che questo non è il suo bisogno più grande. “Come è evidente che vogliamo essere beati, è evidente anche che vogliamo essere sapienti, poiché beati non si può essere senza sapienza” così Agostino (De libero arbitrio 2,9,26; NBA III/2,243). Sapienza qui significa ciò che noi abbiamo indicato come «essere veri».

3. Ma che cosa è successo, che cosa sta succedendo fra noi, che cosa sta succedendo nel cuore di tanti giovani da non sentirsi più capaci di sottoscrivere l’esperienza del loro giovane amico dell’antichità, del giovane Gregorio? Donde questa sorte di anoressia spirituale che sembra aver spento dentro alle persone quell’appetito spirituale che muove l’uomo verso la totalità del reale, verso la piena intelligibilità dell’essere? perché, alla fine, si accetta come cosa normale di bloccare l’inesausta capacità di domandare che abita dentro al nostro cuore? Non possiamo lasciare inevase queste domande, indicando esse una condizione storica obiettiva nella quale tanti oggi vivono, col rischio di perdere il loro tesoro più prezioso, cioè la libertà. Una condizione storica che non può non essere sentita come contraria al vero bisogno dell’uomo. E di fatto sono ormai tanti i segnali, alcuni dei quali tragici, che rivelano quanto sia insopportabile per l’uomo una tale contraddizione.
 Non è certo ora il momento di affrontare compiutamente tutta la problematica posta da questa situazione. Preferisco limitarmi ad indicarvi alcuni percorsi attraverso i quali uscirne, chiedendovi di verificare la validità di questi medesimi percorsi sulla base di quell’essere veri, di quel desiderio di essere nella verità nel senso che ho già spiegato.
 La prima cosa che vi chiedo è di verificare la “ragionevolezza di una ragione” che ponga se stessa come misura della realtà: che imponga a se stessa dei limiti oltre i quali giudica, anzi pre-giudica non dimorare il senso, non esservi il reale. Questa riduzione della ragionevolezza umana è stato il disastro più grande della nostra epoca. Credo che una delle espressioni più intense di questa situazione sia la Considerazione 13 di Kafka:
“Uno dei primi segni che cominciamo a capire è il desiderio della morte. Questa vita ci sembra insopportabile, un’altra irraggiungibile. Non ci si vergogna più di voler morire. Si prega di venir trasferiti dalla vecchia cella che odiamo in una nuova che dobbiamo ancora imparare ad odiare. C’entra anche un briciolo di fede che, durante il trasferimento, il Signore passi per caso nel corridoio, guardi in faccia il prigioniero e dica: costui non rinchiudetelo più. Ora viene con me” (F. Kafka, Considerazioni sul peccato, il dolore, la speranza e la vera vita, in Confessioni e diari, ed. Mondadori, Milano 1972, pag. 794).

Leggendo questo testo di Kafka mi sono ricordato di un meeting filosofico tenuto a Cattolica nel 1982 dove otto filosofi “riconosciuti” si sono “confessati” davanti a una platea di mille giovani. Soprattutto di due che ancora oggi vanno per la maggiore: Eco e Vattimo. Eco: “sarò sempre prigioniero delle mappe” e quindi non saprò mai distinguere di essere nel vero o nel falso; Vattimo parla pure di «reti» o «gabbie» o «griglie» cioè di linguaggi che si costituiscono o si impongono di età in età, senza vie di uscita.(cfr. anche l’ultimo suo articolo in  Avvenire 7-2-1998, 22). La «cella» di Kafka, la «mappa» di Eco, la «gabbia» di Vattimo: ma chi di questi tre è più ragionevole? Sono le profezie assolute degli ultimi due? chi dà loro diritto di profetizzare con tanta assolutezza? Oppure non è forse più ragionevole il «briciolo di fede» di Kafka che non esclude la possibilità che accada qualcosa di imprevisto, “che il Signore passi per caso nel corridoio”? Una non esclusione che troviamo nel Leopardi dell’inno Alla sua donna. Come Kafka anche Pirandello aveva un sospetto: chissà, forse oltre l’ultima porta … è possibile! (cfr. G. Sommavilla, Il bello e il vero, ed. Jaca Book, Milano 1996, pag. 199-200).
 La verifica della ragionevolezza di una ragione che nega l’incommensurabilità di ciò che io sono con ciò che io so, ci ha portato ad individuare un secondo percorso che chiamerei il percorso di verifica della possibilità. Lo descrivo negativamente per il momento. L’esistenza di un tale percorso è negato da una cultura e in una cultura che pone come sua premessa “l’abolizione della categoria della possibilità, ossia della possibilità che esista nella realtà … qualcosa che risponda, corrisponda alla natura dell’esperienza dell’io: una totalità di risposta” (L. Giussani, Il rischio educativo, ed. CEUR, Bologna 1997, pag. 16). E’ affermato quando si propone come ipotesi ragionevole l’esistenza di questa risposta; quando ci si chiede seriamente se l’uomo possa ragionevolmente attendere che gli si dica: “costui non rinchiudetelo più; ora viene con me”. Non rinchiudetelo più: chiudere il percorso di verifica della possibilità significa distruggere la radice della libertà. Quella chiusura infatti impedisce ogni sporgere della persona, ogni sporgere critico sopra qualsiasi proposta che voglia essere imposta dal potere del momento.
 Forse è necessario fare a questo punto una sosta nella nostra riflessione e riprendere in sintesi tutte le fila del discorso fin qui condotto. Interrogandoci se oggi abbiano ancora bisogno di maestri, siamo stati portati a chiederci di quale bisogno si parli; siamo stati condotti a “scavare” nel cuore umano, per individuare il suo bisogno fondamentale. Questo scavo, condotto sotto la guida di tre grandi maestri dell’antichità, Aristotele, Agostino e Tommaso e delle voci più inquietanti della modernità, Kafka, Leopardi e Pirandello ci ha portato alla seguente scoperta: il bisogno più grande, più urgente nell’uomo è quello di “venire alla luce”, di darsi ragione dell’intero dell’essere.
Ma con grande stupore abbiamo constatato che proprio questo bisogno oggi è criticato, che la cultura nella quale viviamo ha cercato in tutti i modi di estinguere questo bisogno sia negando alla ragione ogni diritto di chiedersi se “qualcosa/qualcuno” risponda-corrisponda a questo bisogno del cuore sia ponendo come premessa l’abolizione stessa della categoria della possibilità che questa risposta esista. Siamo arrivati a questo punto.
Ed allora, che risposta diamo alla domanda: c’è ancora bisogno di maestri? La seguente: se il più profondo bisogno, se il bisogno ultimamente costitutivo della persona è di darsi ragione dell’intero, allora abbiamo bisogno di maestri; se quel bisogno deve essere estinto, allora non abbiamo bisogno di maestri. Nell’ultimo punto della mia riflessione vorrei precisamente mostrarvi che il bisogno di maestri è correlato al bisogno del cuore di verificare se esiste qualcosa che gli risponda-corrisponda interamente.

4. Proviamo ad immaginare, ad ipotizzare come possibilmente vera sia l’ipotesi della non–esistenza della Risposta al bisogno del cuore sia l’ipotesi della sua esistenza. Che cosa è chiesto all’uomo? In apparenza è richiesto all’uomo lo stesso sia che ritenga possibilmente vera la prima ipotesi sia che ritenga possibilmente vera la seconda: nascere, studiare, lavorare, amarsi, sposarsi, far figli, divertirsi, soffrire, morire. Ma in realtà si chiedono all’uomo due cose completamente diverse, perché nel secondo caso l’uomo non può non chiedersi se valga la pena di nascere, studiare … e quindi se il tutto ha un significato ultimo; nel primo caso all’uomo è chiesto solo di nascere, studiare …senza – al massimo – farsi troppo male, se è possibile.
 Per insegnare all’uomo semplicemente a lavorare (a produrre), ad amare e a far/non fare figli … chiunque può sostituire chiunque: si trasmettono delle regole. Oggi si usa una parola più rispettabile: si trasmettono dei valori. Ed in fondo è ciò che oggi lo studente si accontenta di chiedere all’Università: apprendere cose che gli consentano di inserirsi in modo vantaggioso nella generale organizzazione del lavoro. La società si aspetta di ricevere dall’Università persone preparate a svolgere funzioni utili alla riproduzione della società stessa. Ma il problema ultimo dell’uomo non è questo!
 La domanda ultima è di sapere se quanto è prospettato come possibile, se quanto è insegnato, è vero: cioè che nesso ha colla vita, se esista un modo di studiare, lavorare … per cui vale la pena studiare , lavorare … anche oggi. Se esista un significato ultimo. Se l’uomo anche oggi ha bisogno di sapere questo, non gli basta più un insegnante: ha bisogno di un maestro. Quale è la diversità? la diversità consiste in questo. L’insegnante trasmette un sapere; il maestro trasmette un senso. L’insegnante trasmette regole; il maestro mostra una verità: il primo chiede di imparare, il secondo sollecita a verificare. Platone che aveva incontrato uno dei più grandi maestri, Socrate, ha descritto stupendamente quanto sto dicendo:
“Su queste cose (le più grandi) non c’è un mio scritto, né ci sarà mai. La conoscenza di queste cose non è affatto comunicabile come le altre conoscenze, ma dopo molte discussioni fatte su queste cose, e dopo una comunanza di vita, improvvisamente, come luce che si accende da una scintilla che si sprigiona, essa nasce nell’anima e da se stessa si alimenta”. (Platone, Lettera VII, 341c).

L’uomo ha solo bisogno di imparare regole da applicare oppure di verificare l’ipotesi della possibilità di un Imprevisto? Se è vera la prima, l’uomo non ha bisogno di maestri; se è vera la seconda l’uomo non può fare senza  maestri. L’Università deriva il suo nome dall’essere nata come comunità umana (universitas), composta di maestri (magistri) e di discepoli (scholares), uniti dalla comune passione della ricerca della verità ultima di tutto ciò che esiste. Le materie sono occasione, indubbiamente ben studiata ma in sé insufficiente, perché questa comunità nasca. Certo: la filosofia dà qualcosa che la geometria analitica non dà. Ma l’insegnante della seconda potrebbe insegnare a pensare molto più di quello della filosofia. La difficoltà è che il maestro alla fine deve mettere in gioco se stesso: e questo è assai più difficile che fare l’intellettuale.

Magnifico Rettore,
Chiar.mi Professori,
Carissimi studenti, è stato un dono singolare fatto a me di venire a parlare anche in Università durante questa Grande Missione Cittadina. In un certo senso, era il luogo più importante di tutti. Che cosa si propone infatti la nostra Chiesa ponendosi in missione? Di rendere interamente vero cioè pienamente vivo il rapporto di ogni persona che vive in questa città, con se stessa, con gli altri, con il mondo delle cose, con l’intero dell’essere: nella luce di Cristo, verità intera di tutto l’umano. In una poesia giovanile, K Woityla ha scritto alcuni versi che forse sono la sintesi di tutto ciò che questa sera ho cercato di dirvi: “Io ti invoco e ti cerco, Uomo/ in cui la storia umana piò trovare il suo Corpo./ Mi muovo incontro a Te, non dico «Vieni»/ semplicemente dico «Sii». (cit. da G. Leopardi, Cara beltà …poesie, BUR, Milano 1996, pag. 24). Ed è questo il luogo dove si insegna “come l’uom s’etterna”. Grazie.