I FIGLI. AD OGNI COSTO?
Udine 28 novembre 1998
La domanda «i figli: ad ogni costo?» nella sua radicalità
esprime bene la situazione spirituale dell’uomo contemporaneo di fronte
alla possibilità di porre le condizioni del concepimento umano.
Possibilità che dal punto di vista tecnico sembrano non conoscere
più quasi limiti. La situazione spirituale dell’uomo contemporaneo
è costituita dall’aver smarrito il senso della risposta data finora
dalla cultura occidentale, non solo dal cristianesimo, alla domanda sulla
procreazione e pertanto dall’essersi trovato nelle mani un enorme potere
senza sapere più se e come usarlo.
Questo semplice, ed ancora assai superficiale approccio alla domanda
ci ha indicato le tappe fondamentali della nostra riflessione. Dapprima
vedremo quale è la risposta data dalla Chiesa cattolica ed il senso
profondo di questa risposta; poi vedremo perché la cultura odierna
è in larga misura incapace di capire quella risposta, essendo incapace
di coglierne il senso; infine cercherò di dare alcuni orientamenti
per muoverci in questa situazione.
1. [La risposta ed il suo significato]. Non è stato il cristianesimo
ad elaborare la risposta, nel suo nucleo essenziale, alla domanda: quale
atto è eticamente degno di porre le condizioni del concepimento
di una persona umana? Essa appartiene all’esercito della semplice ragione.
Tenendo conto del fatto che l’umanità non conosceva altra
modalità di porre le condizioni per un concepimento umano all’infuori
del rapporto etero-sessuale, la domanda si semplificava nella forma seguente:
quali uomini e quali donne sono eticamente degne di …? E la risposta era:
quelli che sono uniti in legittimo matrimonio, e pertanto solo l’attività
sessuale coniugale è eticamente degna di porre le condizioni del
concepimento umano.
Questa risposta teneva conto in primo luogo del bene della nuova
persona: bene fisico e bene spirituale (educazione), che si riteneva essere
assicurato solo in questo modo. Il senso quindi di questa risposta era
la tutela privilegiata del più debole e del più esposto.
Attorno a questa intuizione fondamentale si costruisce, se così
posso dire, un insieme di istituti giuridici che la confermano. Si pensi,
per fare solo un esempio, all’istituto dell’adozione. Esso mira precisamente
a far, per così dire, rientrare in un ordine etico giuridicamente
tutelato chi senza sua responsabilità ne è nato fuori.
Come sempre, l’originaria intuizione etica del bene in questione,
da promuovere e da difendere, si è spesso oscurata ed anche è
stata tradita sia nell’ethos sociale sia nell’ordinamento giuridico. Ma
essa comunque è rimasta sostanzialmente intatta nella coscienza
morale dell’occidente fino agli anni ottanta, come un guadagno indiscutibilmente
acquisito.
Anche in questo caso, la fede cristiana ha sia purificato sia
arricchito in modo imprevisto l’originaria intuizione razionale. Su questo
punto vorrei fermarmi più lungamente , dal momento che l’ethos occidentale
ha vissuto di ciò che il cristianesimo ha pensato al riguardo. Non
intendo ovviamente fare il percorso storico della rilfessione cristiana,
ma solo presentare in sintesi la risposta cristiana alla domanda: quale
atto è eticamente degno di porre la condizione del concepimento
di una persona? E, soprattutto, cercherò di mostrarvi il senso di
questa risposta.
Prima di tutto, la risposta. Solo l’atto di amore coniugale che
fa dei due sposi una sola carne, è eticamente degno di porre le
condizioni del concepimento di una persona umana. E, quindi, negativamente,
ogni attività tesa a porre le condizioni del concepimento, che non
si configuri come espressione dell’amore coniugale, non è degna
di dare origine ad una persona. E ciò può accadere o perché
i due non sono uniti in legittimo matrimonio o perché l’attività
tesa a porre le condizioni del concepimento è posta in essere non
dagli sposi ma da un tecnico (procreazione artificiale).
Quale è il senso di questa risposta? Per capirlo, possiamo
partire da una domanda: la capacità di procreare è una capacità
semplicemente naturale o è una capacità della persona? In
altri termini: in che grado, in che misura la capacità procreativa
appartiene alla persona?
E’ necessario, prima di procedere, che chiarisca il senso della
distinzione. Esistono nella nostra persona attività che non sono
in senso interamente vero della nostra persona, nel senso che non
dipendono da essa, cioè dalla sua libertà: la funzione delle
reni, per esempio. Esistono nella nostra persona attività che sono
in senso interamente vero della nostra persona: l’amore con cui gli sposi
si amano. A quali di queste due classi di attività appartiene la
attività procreativa? Da un certo punto di vista alla prima: opus
naturae generatio personarum, dicevano i vecchi testi di medicina. Cioè:
la fecondazione come tale è un’attività che accade nella
persona, ma non è della persona. Ma da un altro punto di vista,
il concepimento della persona è un azione della persona, nel significato
preciso che essa intende-vuole porre le condizioni perché possa
accadere quel processo bio-chimico che è il concepimento di una
persona. Ed è qui che si pone la domanda essenziale: è eticamente
lecito (cioè rispettoso della dignità della persona) separare
la decisione di voler porre le condizioni del concepimento dal porre concretamente
le stesse condizioni, nel senso che altra è la persona che vuole
divenire padre-madre ed altra è la persona che pone le condizioni
perché la prima possa realizzare la sua volontà? In forma
più semplice: chi decide di concepire può essere diverso
da chi esegue quella decisione? Vorrei mostrarvi la logica delle due contrarie
risposte possibili.
Prima risposta: è eticamente lecito e quindi in linea
di principio qualsiasi procedura di procreazione artificiale è percorribile
dal punto di vista etico. Per dare questa risposta è logicamente
necessario pensare che l’attività che pone le condizioni del concepimento
è neutrale nei confronti di chi viene concepito: non è eticamente
rilevante. Essa non pone in essere nessun rapporto fra le persone coinvolte
(tecnico-concepito): trattasi cioè di un agire che si configura
come produzione tecnica, prestazione d’opera in ordine ad un risultato
richiesto. Trattasi si una vera e propria «produzione di persone».
Se si verifica il vocabolario usato, esso è al riguardo assai significativo.
Ma questa prima risposta costringe a pensare anche il rapporto
neo-concepito e i due richiedenti in un modo radicalmente nuovo. Cioè:
a ridefinire sostanzialmente il concetto di paternità-maternità.
Esso deve essere pensato configura come un rapporto costituito formalmente
dalla volontà di una persona: voler una persona come figlio. La
derivazione biologica non è costitutiva del concetto di paternità-maternità:
essa è solo materiale di cui fare uso, per corrispondere alla volontà-desiderio
di una persona di avere un figlio. La conseguenza logica è quindi
la non rilevanza etica che chi chiede sia una persona sola, siano due uomini
uniti in convivenza o due donne. La diversità fra paternità-maternità
va sempre più estenuandosi come diversità avente in sé
un valore, riducendosi il rapporto col concepito ad un fatto puramente
volontario. Inserendosi questa progressiva negazione della definizione
“classica” di paternità-maternità in una cultura nella quale
la critica della ragione come capacità di conoscere un bene non
riducibile all’utile e al piacevole, nella quale si stempera sempre più
la differenza fra volontà ed emozioni-desideri (fra adpetitus rationalis
ed adpetitus sensibilis), la paternità-maternità si riduce
sempre più ad essere uno dei desideri da realizzare per la propria
felicità individuale. «Desidero il figlio perché ne
ho bisogno per la mia felicità individuale»: questa è
la definizione esaustiva di paternità-maternità. Il resto
è mera tecnica procreativa.
La sessualità resta solo al servizio della propria felicità
individuale e la sua eventuale fertilità non ha alcuna attinenza
alla persona. Si sta veramente preparando una nuova visione del mondo,
nella quale il corpo non è più concepito come costituivo
della persona, segno e luogo della relazione con gli altri. E’ ridotto
ad essere un complesso di organi, funzioni ed energie da usare secondo
i propri desideri.
Seconda risposta: è eticamente illecita qualsiasi separazione
fra gli sposi che decidono di concepire e chi esegue questa decisione e
pertanto qualsiasi procedura di procreazione artificiale non è eticamente
percorribile.
Ora è più facile comprendere la logica interna
di questa risposta. Essa può essere espressa sinteticamente nel
modo seguente: solo così, ogni persona coinvolta nel processo generativo
è trattata in modo adeguato alla sua dignità.
La persona del concepito. Essa è voluta attraverso un’attività,
l’amore sessuale-coniugale, che non pone direttamente in essere la sua
persona: lo attende come dono. E’ atteso come persona.
La persona degli sposi. In essa la messa in atto della loro capacità
procreativa non può essere separata dalla loro unione d’amore «nella
carne», poiché si tratta di una capacità costitutiva
della loro persona stessa, dal momento che il corpo è costitutivo
della persona. Ogni tentativo di scindere quest’unità profonda,
significa disincarnare la persona e spersonalizzare il corpo: cioè
esporre la persona ad essere trattata come qualcosa di cui fare uso, anche
se si pensa trattasi solo di «materiale biologico».
In sostanza: la risposta della Chiesa cattolica non ha fatto
altro che portare alle ultime profondità la risposta già
data dalla ragione. Solo l’atto di amore coniugale è eticamente
degno di dare origine ad una persona, poiché solo così ogni
persona coinvolta nel processo generativo è trattata come persona.
2. [Una risposta incomprensibile]. Nella nostra cultura, questa risposta
è diventata incomprensibile, perché sono venuti meno tutti
i presupposti antropologici che la rendevano pensabile. Quali erano questi
presupposti? gli stessi che erano alla base della connessione non solo
di fatto, ma di diritto fra matrimonio - esercizio della sessualità
– significato unitivo e procreativo della sessualità - procreazione
della persona umana. Che cosa è successo e che cosa sta succedendo
nella nostra cultura occidentale? Che ognuna di quelle connessioni è
andata distrutta.
La prima separazione, di gran lunga la più grave, è
stata la separazione della sessualità dalla persona, causata dalla
separazione del corpo dalla persona. Il risultato di questa separazione
è stato che la sessualità ha perduto ogni serietà:
ha cessato di essere “un caso serio” per trasformarsi progressivamente
in gioco. La figura del Don Giovanni che a cominciare dal XVII secolo comincia
a circolare nella letteratura dei popoli europei, è significativa.
Il processo della separazione del corpo dalla persona è
stato un processo lungo e complesso. Mi devo limitare solo ad alcuni accenni.
La tesi tomista dell’unità sostanziale della persona umana, è
rimasta isolata nella cultura occidentale. Di fatto, essa non è
risultata vincente nei confronti di una visione di lontane ascendenze agostiniane,
secondo la quale il corpo manteneva pur sempre una alterità nei
confronti della persona. Un’alterità sempre ambiguamente pensata
in termine e/o metafisici e/o etici. Più semplicemente: l’innegabile
esperienza di una scissione che ciascuno vive in se stesso era interpretata
non solo in chiave diciamo congiunturale, ma anche tendenzialmente strutturale.
A causa di questa ambiguità di fondo, il principio fondamentale
dell’oggettività posto a base della scienza moderna, non trovò
alcuna resistenza ad imporsi anche nella considerazione del corpo umano.
Si innescò così un processo di oggettivazione del corpo (i
sociologi parleranno di reificazione) in forza della quale la persona ha
fondamentalmente nei confronti del corpo, la stessa relazione che ha colla
natura. La considerazione naturalistica del corpo, la sua spersonalizzazione
ha comportato la negazione che la sessualità abbia in sé
e per sé un significato proprio, possedendo solo quel significato
che le viene attribuito dalla libertà creatrice della persona.
E qui si innesta una tremenda ambiguità, che è
l’ambiguità presente nel rapporto uomo-natura, ed ormai la corporeità
appartiene alla natura quale si è venuto configurando in questa
cultura che chiamerei della disintegrazione. Potrei esprimere questa ambiguità
con una formulazione molto sintetica: o la ragione-libertà umana
è una ragione-libertà senza natura o la natura è una
natura senza ragione-libertà umana. Mi spiego.
Poiché la sessualità è un fatto insignificante,
posso fare di essa ciò che voglio. L’unica esigenza è che
se nell’esercizio della sessualità è coinvolto un altro,
questi deve liberamente consentirvi. Non è vero che solo l’etero-sessualità
è un esercizio umanamente degno: l’esercizio omosessuale ha la stessa
dignità e merita lo stesso riconoscimento. Non è vero che
esistono solo due sessualità, quella maschile e quella femminile:
esiste l’uomo, e la donna, l’uomo che è relativo alla donna, la
donna relativa all’uomo, la donna relativa alla donna, l’uomo relativo
all’uomo.
E qui si innesta una precisa corrente dell’ideologia femminista. Essa
si costruisce precisamente su due affermazioni. Il rapporto originario
fra l’uomo e la donna non è un rapporto di reciprocità nell’assoluta
uguaglianza della dignità, ma è un rapporto di conflitto
nell’affermazione dell’uno contro l’altro. E secondo: la vocazione originaria
della donna non è né la sponsalità, né la verginità,
né la maternità. La donna non deve essere né sposa,
né vergine, né madre. Ecco ciò che significa, la ragione-libertà
umana è una ragione-libertà senza natura.
Ma esiste anche una visione opposta. La sessualità è
pura natura che deve semplicemente essere seguita, pena l’infelicità
dell’uomo. In linea di principio, ogni “regola” dell’esercizio della sessualità
è da considerarsi contraria alla felicità dell’uomo, una
indebita oppressione. Il relativismo della prima posizione si abbraccia
coll’istintivismo naturalista della seconda e generano quel permissivismo
sessuale che è caratteristico della nostra cultura.
La rottura della connessione fra sessualità e persona legittima
ormai qualsiasi esercizio della sessualità, escluso quello che pensa
la sessualità come dono definitivo di sé, aperto al dono
della vita; escluso cioè l’esercizio coniugale della sessualità.
La seconda separazione ha rotto l’armonia fra eros ed amore.
E’ questa una grave malattia spirituale, come dirò dopo.
Il terreno su cui questa separazione ha potuto impiantarsi e
crescere, è stato l’ingresso nel nostro ethos occidentale di quella
visione utilitaristica dell’uomo, che formulata coerentemente e compiutamente
per la prima volta da T. Hobbes è risultata di fatto vincente. Per
visione utilitaristica intendo quella concezione dell’uomo secondo la quale,
l’uomo non dispone di una ragione egemone capace di misurare e ordinare
i suoi desideri secondo specifiche virtù. Al contrario: l’uomo
è portatore di desideri, passioni, interessi, alla cui soddisfazione
la ragione è posta al servizio. Richiamarsi ad una verità
scoperta dalla ragione e quindi ad un bene intelligibile secondo cui guidare
desideri e passioni, è di fatto una indebita ed infondata limitazione
dell’uomo.
Nonostante le apparenze, questa proposta antropologica anziché
liberare l’uomo, lo ha ridotto ad un’esistenza senza libertà che
non fosse quella di seguire i propri istinti. Lo ha cioè fatto rinunciare
alla sua inesauribile tensione alla verità, al suo desiderio di
bene, di bellezza, di giustizia. Nel campo della sessualità significò
e significa l’espulsione dalla sua comprensione di ogni riferimento alla
verità del dono, cioè dell’amore. Rimane solo la dimensione
erotica come dimensione egemone.
La separazione dell’eros dall’amore ha così legittimato una
visione edonista della sessualità. Ora non c’è dubbio che
una visione prevalentemente o esclusivamente edonista lavora nel senso
di una separazione della sessualità dal matrimonio e, quindi del
matrimonio dalla famiglia. Per quale ragione? perché una visione
edonista della sessualità de-responsabilizza profondamente la persona
nei confronti della propria sessualità medesima: è un esercizio
individualista.
La terza separazione ha rotto il rapporto fra le due capacità
insite nella sessualità, in una duplice direzione. La “nobilitazione”
della contraccezione ha separato nella coscienza (non solo nel comportamento)
la capacità unitiva dalla capacità procreativa. La “procreatica
artificiale” ha separato la capacità procreativa dalla capacità
unitiva. E così il cerchio si è chiuso. L’amore coniugale
non è più orientato al dono della vita sia perché
si è pensato possibile un amore coniugale vero e nel contempo
chiuso alla vita, sia perché esiste un modo di “produrre” la vita,
che prescinde completamente dall’amore coniugale.
Per capire la portata culturale di questa distruzione del concetto
di maternità, vorrei richiamare la vostra attenzione su due fatti
accaduti in questi anni.
Il ricorso alla procreazione artificiale era stato presentato
come rimedio ad una sterilità inguaribile, all’interno di una coppia
legittima. Esso è andato progressivamente configurandosi come la
possibilità offerta a chiunque ne sentisse il bisogno, di avere
un figlio. E’ appunto la logica del “dominio” sulla natura per il soddisfacimento
dei propri desideri.
L’altro fatto, solo all’apparenza contrario, sul quale vorrei
attirare la vostra attenzione è la nobilitazione della contraccezione.
Se non esiste, se non è inscritto nella sessualità umana
l’orientamento , la destinazione alla comunione interpersonale fra l’uomo
e la donna per il dono della vita, sarà conquista di libertà
avere la possibilità di togliere dalla sessualità umana la
capacità procreativa. Le due attitudini, “il figlio ad ogni costo”
e “il figlio come il male da evitare”, nascono dallo steso spirito: la
paternità-la maternità non sono dimensioni costitutive dell’amore
coniugale. Vale a dire: paternità-maternità, amore coniugale
e sessualità umana sono tre grandezze non connesse da alcuna unità
interna.
E’ accaduto un fatto che penso non era mai accaduto nella storia
spirituale dell’umanità: è stata mutata la definizione stessa
di matrimonio-famiglia. Ora siamo in grado di vedere tutta l’ampiezza di
questa mutazione. Se il matrimonio è “l’unione legittima di uomo
e donna per il dono della vita”, la separazione di “dono dalla vita” dalla
unione legittima e dalla sessualità umana ha distrutto l’istituzione.
E logicamente si è giunti al fatto forse più
decostruttivo del rapporto matrimonio-famiglia: la progressiva legittimazione-equiparazione
al matrimonio e alla famiglia, di qualsiasi tipo di convivenza, anche fra
omosessuali. In vari paesi sono già stati riconosciuti diritti legati
alle unioni fra omosessuali, di conseguenza si sta promuovendo anche il
diritto di quest’ultimi ad avere figli mediante precisamente procreazione
artificiale.
La sessualità non implica la definitività perché
non è dono della persona. La sessualità non implica alcuna
responsabilità dell’uomo verso se stesso e l’altro. La sessualità
è unitiva e procreativa solo di fatto, non di diritto. Dunque: ci
può essere una unione solo per gioco o piacere; ci può essere
una unione omosessuale che ha lo stesso valore di quella coniugale; sessualità
- amore - procreazione non sono connessi.
Cioè: ogni legame fra matrimonio e famiglia che non sia un legame
puramente di fatto è semplicemente negato. La naturalità
della famiglia, l’intimo legame fra matrimonio e famiglia, così
evidente ad ogni generazione della storia umana, oggi si vanno sempre più
oscurando.
La risposta della ragione e della fede alla domanda: i figli,
ad ogni costo? era stato: non ad ogni costo, poiché solo l’atto
dell’amore coniugale è degno di concepire una persona. Questa risposta
risulta oggi completamente incomprensibile dal momento che essa si reggeva
sulla percezione del bene presente nella comunione fra matrimonio – esercizio
della sessualità – presenza ed inscindibilità del significato
unitivo e procreativo in essa – procreazione della persona. Attraverso
quella triplice separazione questa comunione si è spezzata nella
coscienza occidentale.
Questa vicenda è divenuta ormai programma politico portato
avanti dalle grandi organizzazioni internazionali. Le Conferenze svoltesi
a Rio, al Cairo, a Pechino e ad Istambul sono collegate e rappresentano
diversi momenti di una strategia di insieme. E’ molto significativo il
tentativo di introdurre un nuovo vocabolario, che esprima ormai l’avvenuta
sconnessione fra matrimonio e famiglia. Faccio qualche esempio. Si preferisce
non usare più il singolare “family”, ma il plurale “families”: si
comunica così l’idea che non esiste una definizione naturale di
famiglia (“many forms of family”). Si cerca di introdurre una totale liberazione
dell’aborto parlando di “women’s reproductive rights” o “women’s reproductive
health”.
3. [Come orientarci]. Desidererei grandemente … di aver sbagliato completamente
la diagnosi. Ma non riesco a convincermi dell’errore. Che fare?
Una prima attitudine da evitare è quella di pensare che
sia vero ciò che di fatto una determinata cultura propone come vero;
ciò che il consenso sociale ritiene vero. E pertanto che sia necessario
venire a patti con questa cultura della separazione, della frammentazione
dell’uomo. Essa al contrario deve essere combattuta e superata.
Come? ed è il secondo orientamento fondamentale. E’ necessario
custodire intatta nel cuore quella certezza sulla quale è costruita
la recente Enc. Fides et Ratio: la capacità di conoscere una verità
sull’uomo, che supera il condizionamento storico. E’ questa verità
inscritta nella persona umana, che deve essere riscoperta dall’uomo di
oggi. E’ la nuova-evangelizzazione.
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