DISCORSO IN TRIBUNALE
15 dicembre 1995
Consentitemi di iniziare la mia riflessione con una citazione poetica
desunta da “I Sepolcri” di U. Foscolo: “Dal dì che nozze e
tribunali ed are diero alle umane belve esser pietose”. Dunque secondo
il poeta il passaggio dal regno animale al regno umano avviene attraverso
l’istituto matrimoniale, l’amministrazione della giustizia ed il culto
di Dio: gli animali non si sposano (al massimo convivono), non hanno tribunali,
non costruiscono chiese. Il luogo in cui mi trovo, le persone alle quali
mi rivolgo e l’intenzione di chi mi ha benevolmente invitato, mi inducono
a parlare solo della seconda tappa, i tribunali, del cammino che, secondo
il poeta, l’uomo ha percorso per esser “pietoso”. E l’inizio, o primo punto
della mia riflessione non può allora non essere che la seguente
domanda: che rapporto esiste fra amministrazione della giustizia e dignità
della persona umana? o più precisamente: perché la persona
umana “nasce” come persona umana anche attraverso l’amministrazione della
giustizia? Nel primo punto della mia riflessione, cercherò di rispondere
a questa domanda.
1. PERSONA UMANA E GIUSTIZIA
Penso che uno dei guadagni più consistenti dal punto di vista
della civiltà umana, ricevuti definitivamente dalla cultura greca,
sia la distinzione fra una ragionevolezza puramente speculativa e una ragionevolezza
pratica e, come sottodistinzione di quest’ultima, fra ragionevolezza pratica
di carattere tecnico e ragionevolezza di carattere etico. Al di sotto di
una terminologia ben lontana dal nostro linguaggio quotidiano, si trova
una profonda intuizione. Quale?
L’affermazione dell’esistenza di una ragionevolezza pratica distinta
da quella speculativa, denota la presenza nell’uomo di una capacità
non solo di capire, di sapere “come stanno le cose”, ma anche di proporsi
obiettivi non ancora esistenti e di “produrli”. Non solo di conoscere un
“ordine” già esistente, ma anche di “fare ordine”. Così detta,
la prima distinzione non sembra dire molto. La sua portata credo che verrà
meglio colta, mostrando come due siano i tipi di ragionevolezza pratica
insiti nell’uomo. Infatti, una semplice osservazione su noi stessi, ci
fa immediatamente vedere che due sono i tipi di attività umana,
l’uno è costituito dall’attività che produce qualcosa (costruire
una casa, riparare un paio di scarpe, coltivare un campo...), l’altro costituito
dall’attività che non produce nulla, ma cambia semplicemente colui
che agisce (capire un teorema di matematica, gustare una pagina musicale,
godere della compagnia di amici, adorare Dio...). Chiamiamo la prima, attività
transitiva, nel senso che il loro risultato sta “al di fuori” del fare;
chiamiamo la seconda, attività immanente, nel senso che il “risultato”
sta “dentro al soggetto che agisce”. Consentitemi un esempio molto
semplice.
Osservo un medico che cura un ammalato. E mi chiedo: che cosa
sta facendo il dottore x? Rispondo: sta mettendo in atto tutta una serie
di operazioni fra loro ordinate, secondo un modello già verificato,
atte a produrre nel paziente un effetto, la salute. Sta, appunto, curando
un ammalato. L’effetto ottenuto è, alla fine, indipendente da chi
lo ha prodotto. Così indipendente che, se anche il medico morisse,
il prodotto della sua attività, la salute del malato non ne rimarrebbe
compromessa. Tuttavia, la mia domanda: “che cosa sta facendo il dottore
x?” può anche avere un altro significato. Ed infatti, io potrei
rispondere anche nel modo seguente: sta guadagnandosi da vivere col suo
lavoro, oppure, sta facendo un atto di carità verso il povero; oppure,
sta verificando una sua ipotesi di ricerca. Nel primo senso, ho considerato
l’agire del medico in quanto orientato a produrre un effetto che resta
indipendente ed estraneo a chi lo ha prodotto: attività transeuente.
Nel secondo caso, ho considerato l’attività del medico in quanto
inerisce al medico stesso e lo fa essere in un modo e nell’altro: attività
immanente. Su questa base, scopriamo un’altra distinzione di importanza
fondamentale per tutto il nostro discorso. Se, infatti, mi chiedo: “il
dottore x è un buon medico?”, la domanda può avere due significati.
E’ un buon medico, perché, avendo scienza ed esperienza, guarisce
gli ammalati; è un buon medico, perché, si guadagna onestamente
da vivere col suo lavoro, perché col suo lavoro aiuta i poveri.
Due significati, vedete, di bontà: nel primo caso, si riferisce
alla produzione e dunque all’effetto prodotto; nel secondo caso, si riferisce
al soggetto che agisce e dunque alla realizzazione del suo modo di essere.
Chiamo bontà in senso tecnico il primo significato; chiamo bontà
in senso morale il secondo significato. E quindi c’è una ragionevolezza
pratica di carattere tecnico, nel primo caso (per brevità la chiameremo
d’ora in poi, ragione tecnica); c’è una ragionevolezza pratica di
carattere morale, nel secondo caso (per brevità la chiameremo d’ora
in poi, ragione morale). La ragione tecnica è profondamente diversa
dalla ragione morale. Mi limito solo al punto più importante.
La ragionevolezza tecnica riguarda e si fonda sulla qualità
del prodotto, poiché la tecnica è “realizzare qualcosa fuori
di noi”. La ragionevolezza morale riguarda la e si fonda sulla qualità
della persona in quanto è il risultato del proprio agire, poiché
la morale è “realizzazione di ciò che possiamo essere, del
proprio essere umano”. Rubando, divento un ladro, costruendo un ponte,
non divento un ponte.
Voglio soffermarmi ancora un poco su questo punto che è la base
di tutta la riflessione seguente. La prospettiva della ragione morale è
quella della realizzazione del bene nel soggetto che agisce. Si tratta
di ciò che i Greci e poi il cristianesimo chiama la vita buona.
Essa non è semplicemente una vita riuscita in modo soddisfacente
e neppure uno stato della società, ma quel modo di condurre la vita
che rende l’uomo veramente buono, anche se dovesse rimetterci la vita.
Ciò posto (vedete come queste distinzioni siano importanti),
possiamo e dobbiamo chiederci: l’amministrazione della giustizia a quale
tipo di attività appartiene e quindi, quale ragionevolezza è
in atto quando si amministra giustizia? Si tratta di una “tecnica” oppure
di un agire morale?
Mi rendo conto che formulata in questo momento, la domanda possa sembrare
talmente generica e grezza da non consentire se non risposte altrettanto
generiche e grezze. Ed allora cercherò di rigorizzarla all’estremo.
Ed il punto di partenza di questa rigorizzazione è la definizione
del concetto di giustizia. Poiché giustizia connota una attitudine
permanente della nostra volontà a fare il giusto, devo prima definire
il concetto di giusto. Ritengo che dal modo con cui si definisce “ciò
che è giusto” dipende il destino di ogni società umana. Dunque
non stiamo discutendo del sesso degli angeli.
Già Platone aveva individuato due modi fondamentali di definire
ciò che è giusto e quindi la giustizia, a seconda che si
ammetta o non si ammetta la possibilità per l’uomo di concepire
il bene (in senso morale, come ho spiegato) che non sia semplicemente e
necessariamente il mio proprio bene. Agostino mediterà lungamente
e profondamente su questa visione platonica e ne trasmetterà definitivamente
l’eredità alla nostra cultura giuridica. Dunque: esiste un bene
che è tale (cioè bene) non perché è il mio
bene (è bene per me), ma perché è bene in sé
e per sé e quindi per ogni persona ragionevole? in una formulazione
più moderna (e più agostiniana): il bene si riduce al mio
interesse o utile oppure prescinde dal mio interesse ed utile? Se
è vera la riduzione del bene all’interesse la giustizia è
il compromesso fra opposti interessi; la ragione giuridica consiste nella
ricerca tecnica di far convergere il più possibile opposti interessi;
l’amministrazione della giustizia nel tutelare un interesse ritenuto prevalente,
sull’interesse di un altro. Se la riduzione del bene all’interesse o all’utile
è falsa, la giustizia consiste nel riconoscere ciò che appartiene
all’uomo in quanto uomo; la ragione giuridica consiste nell’ordinarsi all’altro
come a se stesso; l’amministrazione della giustizia nel riportare ciascuno
nel suo ordine.
Le due alternative riguardanti la definizione di giustizia in realtà
si radicano in due visioni contrarie della persona umana. Quali? Per individuarle,
vorrei partire da un testo di S. Tommaso (cfr. 1,2, q.56, a.6) nel quale
egli si chiede se l’uomo ha bisogno di un perfezionamento morale spirituale.
La sua risposta affermativa è motivata nel modo seguente. Il bene
dell’altro è solo oggetto della ragione; i sensi non possono cogliere
e desiderare un bene per un altro, ma solo un bene per lo stesso soggetto.
La pagina tomista offre molta materia di riflessione. Un vero e proprio
concetto di giustizia non può trovar posto in una definizione dell’uomo
puramente sensista o materialista. La riduzione della persona umana ad
un “fascio” di meccanismi psichici e/o sensitivi conduce inevitabilmente
alla riduzione del concetto di giustizia al concetto di utilità;
lo psichismo e la sensibilità non sanno andare oltre alla ricerca
del “bene per me” e giungere a ciò che è “bene in sé
e per se”. E quindi si rischia continuamente di chiamare giustizia,
l’utilità di una parte (di alcuni o di molti) socialmente vincente.
Ciò che voglio dire in sostanza è che se si parte da una
visione materialista dell’uomo si riduce il concetto di giustizia al concetto
di utilità; se si parte da una visione adeguata della persona umana
si può affermare l’esistenza di una giustizia non riducibile ad
utilità. Vorrei soffermarmi un poco su questo punto, data la sua
importanza centrale.
In che cosa essenzialmente si distingue la giustizia dalla utilità?
l’utilità è per definizione il bene di qualcuno come tale.
Pertanto l’affermazione e la ricerca di ciò che è utile per
me non esclude, in linea di principio, un conflitto con ciò che
è utile per l’altro. Al contrario, ciò avviene molto spesso.
Di qui deriva che la ricerca dell’utile ti colloca potenzialmente in una
relazione con l’altro di contra-posizione: l’altro non è come te
stesso. Di qui deriva ancora che una socialità dominata dalla ricerca
dell’utile, è una società fortemente conflittuale: non è
una società di uguali, poiché l’altro non è come te
stesso. Di qui, infine, in una società così vissuta, l’amministrazione
della giustizia rischia di essere asservita ad una delle parti in conflitto
per raggiungere la propria utilità o di limitarsi ad essere una
sorta di “amministrazione degli urti”.
Ben diversa è la giustizia. Essa infatti aspira al bene dell’altro
nella stessa misura in cui aspira al suo bene: l’altro è come se
stesso. “Apprehendit eum - dice S. Tommaso - ut alterum se, inquantum scilicet
vult ei bonum sicut et sibi ipsi” (1,2,q.28,a.1). Come è possibile
questa “apprehensio” di cui parla Tommaso (...ut alterum se)? Cioè:
come nasce nell’uomo questo riconoscimento dell’altro come un “altro se
stesso”? e quindi, come nasce il “senso di giustizia”? Si tratta di una
evidenza originaria, cioè non motivabile, non ricostruibile. Nello
stesso momento in cui vedo me stesso come soggetto degno di un rispetto
assoluto perché persona, come soggetto che non ha prezzo perché
ha dignità, ogni altro uomo non può non apparirmi dotato
della stessa dignità. Nel famoso capitolo su “Signoria e servitù”,
Hegel nella Fenomenologia dello Spirito, ha tentato di ricostruire la genesi
di questo riconoscimento, facendolo dipendere dal lavoro e dalle prestazioni,
attraverso le quali chi le compie (lo schiavo) si emancipa a soggetto degno
di riconoscimento. Sappiamo che quelle pagine stanno all’origine della
teoria e tragedia marxista. Dunque: giustizia è riconoscimento dell’altro
come sé, per cui, in fondo, il “principio-giustizia” è: “non
fare ad un altro quello che non vuoi sia fatto a te”. Mentre il principio-utilità
crea conflitti, il principio-giustizia crea ordine nella pace, poiché
l’altro non è il potenziale avversario del proprio bene, ma è
come te stesso. Il principio-utilità crea disuguaglianza poiché
nasce dall’affermazione che l’altro non è come te, il principio-giustizia
crea la vera uguaglianza, poiché consiste precisamente nell’affermazione
di questa uguaglianza. E qui scopriamo la vera definizione di amministrazione
della giustizia: rendere a ciascuno il suo che era stato tolto o nel pericolo
di essere tolto. E’ cioè l’affermazione dell’uguale dignità
di ogni persona: essere asserviti solo ed esclusivamente all’uomo,
senza ulteriori aggiunte. Non essere asserviti a nessun potere, soprattutto
neppure a quello politico.
Ora possiamo capire in che senso profondo la giustizia e la sua amministrazione
pertiene all’essenza umana come tale e come il male sociale per eccellenza
sia la malvagità della volontà.
2. GIUSTIZIA ED EDUCAZIONE
Nel primo punto ho cercato di mostrarvi come la nascita del concetto
di giustizia coincida colla nascita della coscienza che l’uomo ha della
sua dignità. In questo secondo punto vorrei, più brevemente,
svolgere alcune riflessioni su come questa “nascita” possa essere impedita
o aiutata. Non sarà ovviamente un discorso completo, mi limito ai
punti più importanti.
2.1 La formazione concreta del principio-giustizia è strettamente
correlata all’organizzazione concreta di una società, al suo ethos
e a ciò che in essa è determinato come giusto e ingiusto
attraverso una fondazione positiva. Insomma, la legge civile è un
fattore di fondamentale importanza per la formazione concreta del principio-giustizia.
Eraclito scrisse che bisogna lottare di più per avere buone leggi
che per costruire solide mura. Ci sono leggi che educano al senso della
giustizia e ci sono leggi che diseducano ed inducono una mentalità,
un costume ingiusto. A me sembra che oggi questo sia un problema di una
urgenza drammatica. Non credo di esagerare. per le seguenti ragioni.
La prima. Si può legiferare sulla base del principio che non
esiste una giustizia, ma solo l’utilità. Sto facendo, per il momento,
ipotesi di lavoro. Se così legifero, inevitabilmente privilegio
una parte contro l’altra e genero un costume di permanente, strutturale
conflittualità sociale. Ho creato cioè un ethos sociale in
cui pretendere che il cittadino abbia un senso di giustizia è come
... pretendere che un uccello voli dopo avergli tagliato le ali.
La seconda. L’adozione del principio-utilità o del principio-giustizia
come principio base della nostra convivenza sociale, dipende, come ho già
detto, dalla nostra visione dell’uomo. Il che equivale a dire che non c’è
giustizia dove non c’è verità, che l’accettazione di un relativismo
antropologico porta diritto all’affermazione dell’utilità come unico
movente dell’uomo e base della società. Le pagine della Repubblica
di Platone contro i Sofisti dimostrano ampiamente questa connessione fra
relativismo scettico e utilitarismo sociale. Ma qui si pone oggi forse
il problema più serio. Si afferma un legame inscindibile fra relativismo
teorico e democrazia: credo che questo sia uno degli errori più
gravi di oggi. Questa connessione, infatti, toglie alla convivenza civile
ogni sicuro punto di riferimento a ciò che è giusto, privandola
di ogni riconoscimento di ciò che è giusto. E si instaura,
di fatto, un regime di anti-democrazia subdolo, ma reale, poiché
non esiste più nessuna verità ultima che guidi ed orienti
l’agire politico.
La terza. Rifiutare il legame fra relativismo e democrazia, non significa
rifiutare il pluralismo delle concezioni dell’uomo, del mondo, che prendono
corpo in varie tradizioni e comunità. La legge educa veramente al
principio-giustizia quando sa garantire questo pluralismo: una libera,
pacifica, convivenza nella quale ogni soggetto possa veramente esprimersi
nella sua proposta educativa.
2.2. Mi chiedo, e concludo, se è possibile un concetto
di giustizia, fondare la società sul principio-giustizia, amministrare
la giustizia e non l’utilità, senza una coscienza profonda e vissuta
della dignità della persona umana. Tutta la riflessione precedente,
se ha un senso, è proprio questo : non ci può essere giustizia
né amministrazione della giustizia, se non si afferma la dignità
incondizionata di ogni persona umana. In fondo, è questa affermazione
il principio di tutta l’architettura giuridica di una società. Per
questa ragione, sono convinto che il cristianesimo abbia dato un decisivo
apporto all’amministrazione della giustizia. Fu il cristianesimo ad affermare
che ogni uomo possiede una dignità infinita: nessuno prima o fuori
di esso aveva detto una tale sconvolgente verità. Ed il cristianesimo
fonda questa verità sul rapporto unico, singolare, immediato di
appartenenza che ogni persona umana ha con Dio creatore. Ed allora mi chiedo:
l’ateismo non è anti-umanismo? Certo: può esistere uno Stato
non cristiano, ma non credo che possa esistere uno Stato ateo.
CONCLUSIONE
Ho finito. Vorrei solo lasciarvi con la presunzione di avervi aiutato
a condurre una riflessione seria sui fondamenti stessi della amministrazione
della giustizia e dunque della società. per il bene dell’uomo e
per la difesa della sua dignità. Poichè l’uomo oggi è
esposto ad essere sempre più trattato come uno che deve limitarsi
a cercare esclusivamente la propria utilità, e così gli viene
tolta la sua più preziosa dote: la libertà di essere giusti.
|