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Comitato "Cardinale Carlo Caffarra"


Tre interviste rilasciate nei primi mesi dell’anno 1985

 

 

Intervista sul “dissenso teologico” pubblicata sulla rivista 30Giorni

 

1. Il fenomeno del dissenso teologico all’interno della Chiesa cattolica, esploso negli anni 60-70, appare oggi, ad un osservatore esterno, in declino. Lei concorda con questa impressione? Si tratta di un declino apparente o reale, quell’esperienza può considerarsi conclusa o ha assunto oggi altre forme?

Devo, anzitutto, premettere che le mie risposte tengono presente soprattutto un ambito molto preciso della riflessione teologica: quello etico. E vengo subito alla prima domanda, prendendo precisamente in esame un caso di “dissenso” clamoroso degli anni settanta: il caso Humanae Vitae. Posso precisare subito che è cessata la contestazione di un certo tipo, ma si ha un fenomeno molto più grave. Si insegna nei Seminari e nelle Facoltà teologiche il contrario di quanto insegnato da Humanae Vitae. Sia direttamente sia — soprattutto — ponendo dei principi generali di etica, dai quali discende come conseguenza logica non solo che quanto è insegnato da Humanae Vitae e Familiaris consortio è falso, ma anche molti altri punti fondamentali dell’insegnamento etico della Chiesa.
La situazione della fede — che, non lo si dimentichi, è il tesoro più prezioso della Chiesa — è gravissima. Esistono ormai due magisteri paralleli nella Chiesa cattolica: uno è quello dei Concili ecumenici e dei Papi, l’altro è quello dei teologi. Non c’è bisogno che questi ultimi dissentano pubblicamente, clamorosamente. Essi possono normalmente e quotidianamente costruire il loro “magistero parallelo”. Riprenderò più avanti questo punto.

 

2. Nella storia della Chiesa è vivo il ricordo delle grandi dispute teologiche (soprattutto in epoca medievale) che coinvolsero maestri della fede successivamente canonizzati. Secondo Lei, quel fenomeno presenta delle analogie con quello del “dissenso” degli anni 60-70? Se sì, quali? Se no, quali le differenze?

La domanda tocca un punto essenziale della nostra conversazione. A mio umile giudizio, non esiste, al fondo, nessuna analogia. Per la seguente ragione. Le scuole teologiche medievali, che fra loro disputavano con una grande libertà, partivano da alcune fondamentali convinzioni filosofiche e teologiche che tutte condividevano, su cui consentivano. Ora, invece, il dissenso ha intaccato i presupposti fondamentali del pensare teologico, anzi del pensare credente. In una parola: le dispute medievali accadevano nell’ambito di un’unità; le dispute attuali, quelle serie, nascono dalla divisione teoretica spesso più radicale. Faccio una sola esemplificazione. Tutti i teologi medievali affermavano la trascendenza della verità nei confronti della intelligenza creata; che, cioè, la verità non è una creazione della nostra intelligenza; che, cioè, la nostra intelligenza non è la misura della realtà. Su questo non ci poteva essere dubbio, diversamente non un punto della Rivelazione, ma tutta la Rivelazione ne esce completamente distrutta.
Orbene in questo contesto una “disputa” sul valore di un giudizio falso della coscienza morale poteva sorgere, e sorse di fatto, fra san Tommaso e san Bonaventura. Ma se oggi sorge una simile questione, la disputa avviene in un contesto teoretico completamente differente, poiché è il rapporto coscienza-verità che non è più pensato, mettendo al sicuro teoreticamente il subordinarsi della coscienza all’essere. Questo non è un esempio scelto a caso. Esso ci introduce nel cuore della situazione che potrei indicare con questa domanda: quale ragione, quale modello di razionalità è messo in atto nella teologia contemporanea? È esso in sintonia, in accordo colla razionalità implicata nel credere? Personalmente, se si escludono alcuni grandi maestri della teologia moderna e contemporanea, ritengo di no. Nei suoi Critical and Historical Essays I (London 1907, pag. 30-99), J.H. Newman parla di una “introduction of rationalistic principles into revealed Religion”; la situazione di dissenso è esattamente questa, a mio giudizio. Se si vuole trovare un precedente, dunque, lo si trova molto prima del Medioevo: nella crisi ariana, col suo esito più coerente, l’esito eunomiano. Alcune pagine di san Basilio (per es. le finali dell’opera sullo Spirito Santo) sono di una sconcertante attualità.

 

3. Secondo Lei è possibile tracciare una linea netta di demarcazione tra una legittima dialettica teologica all’interno della Chiesa e il cosiddetto “dissenso”? Se sì, dove?

Non solo è possibile, ma credo sia ormai urgentemente doveroso. Come? Dove? Forse, anche con l’uso di uno dei più grandi atti di carità che si possa usare verso la Chiesa: l’anathema sit, che fissi rigorosamente i confini fra la verità della fede da credere e da vivere e ciò che la contraddice. Ripeto: è un atto di carità, di vero amore.
Il confine può essere colto solo se si accetta, ma non solo a parole, che la Rivelazione è un, anzi il Dono di Dio, di cui noi non possiamo disporre, mai, poiché non ci appartiene. Il credente appartiene ad Essa. “Nessun uomo è la stessa verità; egli mantiene una certa distanza nei suoi riguardi, deve lasciarsi dire che cos’è la verità. Deve aprirsi alla verità, spostare al di fuori di sé il proprio principio e la propria fine, riporli nel Signore, che è principio e fine. E quanto più grande è la verità che un uomo ottiene, tanto più essa è una verità donata e tanto più l’uomo deve spingersi al di là di sé per accoglierla” (A. von Speyr, Apocalisse, vol. 1, Jaka Book, Milano 1983, pag. 53). Ecco dove passa il confine, la linea di demarcazione: nel cuore del teologo che accetta o non accetta che la Verità sia il Dono del Padre. E ormai andiamo verso la situazione nella quale si stanno svelando “i pensieri del cuore” di ciascuno, in conseguenza della grande chiarezza del Magistero del Santo Padre. Solo dopo — non prima — si possono richiamare i criteri di discernimento o di demarcazione che anche il Vaticano II ha richiamato e che si possono ritrovare in ogni buon manuale di teologia.

 

4. Una vicenda che ha lasciato sorgere delle domande è quella del teologo de Lubac. Nel 1950 Pio XII condannò la “theologie nouvelle” (di cui de Lubac era autorevole esponente) con la Humani generis. 33 anni dopo lo stesso de Lubac, che nel frattempo non ha mutato il suo indirizzo teologico, riceve la berretta cardinalizia da Giovanni Paolo II. La Chiesa può incorrere in errore nel condannare il dissenso teologico?

Anche questa domanda, presupposto tutto ciò che fino ad ora abbiamo detto, non è molto difficile. La possibilità dell’errore in un giudizio del Magistero su una proposizione teologica dissenziente va verificata in base ai criteri mediante i quali posso conoscere il grado di autorevolezza della proposizione magisteriale stessa. Ma vorrei fare, al riguardo, alcune osservazioni più semplici, ma, credo, non meno importanti.
La prima. La “presunzione di verità” appartiene alla proposizione magisteriale non alla proposizione teologica; donde l’onere della prova è del teologo, per la semplice ragione che il Magistero, e non il teologo, ha ricevuto dal Signore una particolare assistenza che lo di fende dall’errore. Ora siamo arrivati, per la situazione descritta in negativo nel citato saggio di Newman (in positivo dalla Von Speyr), al punto che è sufficiente che una proposizione sia insegnata dal Magistero, perché sia messa in discussione. Siamo giunti all’affermazione pratica della “infallibilità” di certi teologi, che non è assolutamente ammesso neppure discutere, una sorta di “ipse dixit”. Mentre si è commiserati e spesso ridicolizzati come non scientifici, se si afferma quella presunzione di verità di cui parlavo.
La seconda osservazione riguarda più direttamente l’etica e, dunque, la vita cristiana. Dalla possibilità teorica dell’errore si passa subito all’affermazione che la proposizione del Magistero è quindi senz’altro dubbia e, quindi, la si può tralasciare, seguendo i teologi dissenzienti. In questo modo si introduce nella Chiesa non solo una dottrina, ma un ethos contrario al Magistero, rendendo sempre più difficile così la illuminazione della coscienza morale dei fedeli.

 

5. Molti teologi del dissenso si appellano al sensus fidelium per legittimare le loro tesi (vedi etica sessuale). Ma il sensus fidelium ha un suo status teologico definito? Non si corre il rischio di affidare le verità di fede al sondaggi di Mr. Gallup?

È questa una domanda di fondamentale importanza. La risposta esigerà un certo spazio.
In primo luogo, come molto bene ha insegnato l’Esortazione Apostolica Familiaris consortio, il senso della fede non si identifica col consenso maggioritario dei fedeli. Questa identificazione è falsa dal punto di vista filosofico e teologico: una falsità che anche storicamente si è mostrata varie volte. Dal punto di vista filosofico, porre il criterio veritativo nel consenso è in se stesso contraddittorio. Infatti, in base a che cosa si afferma che “il consenso è criterio di verità”? O perché così si è consentito, cadendo in una evidente sofisma (di petizione di principio); o perché così si vuole e si decide, negando con ciò stesso che ci sia una verità oggettiva, affermando che è vero ciò che si decide sia vero; ma, in questo caso, non ha neppure più senso parlare di verità, ma solo di potere (di creare un consenso); o perché cosi stanno le cose (cioè che il consenso è il criterio di verità) obiettivamente: ma allora, ci si può chiedere: in base a che cosa si dice che così stanno le cose? Non si può rispondere, richiamandoci al consenso (che così stanno le cose), come ho già detto; ed allora, nel momento in cui ci si richiama ad uno “stato obiettivo”, si è già contraddetto il criterio veritativo posto. Solo nel contesto di una cultura che ha perso ogni passione per la verità, poteva affermarsi un simile criterio.
Ma è falso anche da un punto di vista teologico. “Senso della fede” ha un significato molto preciso. La fede è, formalmente, un’attitudine della ragione, mediante la quale discerniamo il vero dal falso alla luce del soprannaturale criterio della Verità stessa di Dio, che ci è partecipata. Quando un credente agisce sotto le mozioni dello Spirito, egli possiede una sorta di soprannaturale “istinto” di discernimento, di “intuizione”, non discorsiva, ma immediata. Per questa ragione, il senso della fede è degli “spirituali”, nel senso forte della parola, di quei semplici e poveri cui sono rivelati i Misteri. E, sinceramente, questa categoria di persone sono molto diverse da quelle che si attribuiscono oggi comunemente il “senso della fede”.
Ma ci sono anche considerazioni di carattere storico, direi. Chi possedeva il “senso della fede”, al tempo della crisi ariana? Atanasio e i pochissimi altri o la stragrande maggioranza? Ma, oggi, poi si dà, al riguardo, una serie di fenomeni che devono essere smascherati. Si crea una maggioranza intervistando solo chi pensa in questo modo e tacendo su chi contesta il dissenso. E poi si parla di “consenso”, veicolato surrettiziamente come “senso della fede“. Come è facile vedere, i potenti di questo mondo impongono le loro idee, creano una mentalità: e questo sarebbe il “senso della fede”? Il rischio di cui si parla nella domanda è oggi più che mai reale. Secondo l’Apocalisse, in Babilonia resteranno solo due profeti ed anche questi verranno uccisi. Siamo incamminati verso questa situazione? Ma, alla fine, la potenza della menzogna è la più debole di tutte. Per sconfiggerla è sufficiente una sola cosa: dire la verità.

 

 

Intervista rilasciata alla rivista PROSPETTIVE nel MONDO

 

1. Da una recente indagine statistica emerge che le nuove generazioni dimostrano una maggiore moralità riguardo all’amore. Eppure due realtà come il divorzio e l’aborto hanno profondamente inciso sulla loro mentalità. In che modo crede siano cambiati i giovani d’oggi?

Credo che la coscienza dei giovani sia più attenta alla domanda etica e quindi più disponibile alla riflessione morale. Intendo per domanda etica quella sulla verità di se stessi, sul come vivere in modo da non vivere invano, e dunque anche, nel contesto di questa domanda, anche quella sulla sessualità umana. Nella realtà di oggi fenomeni come il divorzio, l’aborto e la convivenza libera sono tuttavia molto diffusi e dimostrano come la coscienza morale dell’uomo abbia spesso delle “zone d’ombra” accanto alla percezione viva di valori fondamentali.

 

2. Lei ha sottolineato il fenomeno della convivenza libera: quanto è esteso a suo parere?

Il rilevamento delle situazioni di questo genere è naturalmente molto difficile ma, parlando con i nostri professori che provengono da diverse aree culturali, ho potuto constatare che tutti notano la presenza più o meno massiccia di questo fenomeno. Esso non è più limitato, come un tempo, a certi paesi del Terzo Mondo e in particolare all’America Latina, ma si estende a tutte le aree culturali.

 

3. Quali sono i valori fondamentali di cui prima parlava che resistono nell’animo del giovane dei nostri tempi?

Il più importante, a mio parere, è il desiderio di conoscere la verità sul bene: un bisogno di fare chiarezza. Nella coscienza dei giovani sono crollati tanti “miti” nei quali aveva creduto la generazione precedente: per esempio quello della rivoluzione violenta, innanzitutto, e quello della possibilità di avere tutto e subito. C’è una percezione più chiara del maggior valore dell’essere che dell’avere. Il giovane, però, si trova a vivere in una cultura fondamentalmente relativistica e pertanto incapace di rispondere alle sue domande. Questo stato di cose investe la Chiesa di una grande responsabilità perché verso di Lei si rivolgono le aspettative dei giovani come luogo in cui il linguaggio mantiene la sua verità, luogo in cui “sentono” che non saranno ingannati. Il fatto che sia stato indetto il Giubileo internazionale dei giovani e che Giovanni Paolo II abbia riconvocato tutta la gioventù del mondo per la fine di marzo prossimo conferma la volontà della Chiesa di dare quelle risposte che le nuove generazioni attendono.

 

4. Come interpreta, in particolare, l’atteggiamento dei giovani verso l’amore?

Ho l’impressione che la percezione della necessaria integrazione fra i tre elementi della sessualità umana: quello fisico, quello psicologico e quello spirituale non sia ancora lucida. Nell’animo di molti giovani manca la percezione della terza dimensione e, in alcuni casi, anche della seconda. Alla base di quest’atteggiamento mentale c’è una visione molto riduttiva di se stessi, quasi dualistica e, in secondo luogo, un concetto sbagliato di libertà, intesa come capacità di dominare, di possedere e non come capacità di dono.

 

5. Nell’inchiesta già citata si rileva che la maggioranza dei giovani concepisce la sessualità strettamente legata all’affettività. Ma i progressi dell’ingegneria genetica, la fecondazione in vitro, la manipolazione della vita attentano pericolosamente a questa concezione.

Per il momento l’atteggiamento dei giovani verso questi fenomeni è i sospetto, solo emotivo quindi incapace di un giudizio critico profondo. Ciò è molto pericoloso, perché dimostra che non si è compreso pienamente che ci troviamo di fronte alla più grande rivoluzione dell’umanità al cui confronto scompaiono quelle precedenti, anche l’avvento della scienza moderna con Galilei. Per la prima volta l’uomo ha nelle mani il potere di cambiare l’identità dell’uomo e quindi di influire sulle generazioni future. Tutto questo avviene in un contesto culturale  in cui egli è già incerto sulla verità di se stesso e quindi più vulnerabile.

 

6. Recentemente lei ha ribadito la condanna della Chiesa verso ogni tipo di fecondazione artificiale. Molti hanno giudicato eccessivamente severa questa presa di posizione.

Su questo delicato argomento non esiste, in realtà, un pronunciamento ufficiale della Chiesa, ma solo un’affermazione di Giovanni Paolo II del 29 settembre 1983 e l’insegnamento di Pio XII, nel cui un periodo non si poteva neppure immaginare ciò che sarebbe poi accaduto. Io ritengo, però, che l’affermazione dell’illiceità della fecondazione in vitro, anche omologa, sia la sola coerente con i principi stabiliti precedentemente dal Magistero e con quelli ribaditi dall’Humanae Vitae.
Data la gravità del problema credo, comunque, sia necessario al più presto un intervento magisteriale, desiderato e atteso anche dagli ambienti scientifici e laici.

 

7. Crede che l’opinione dei vertici della Chiesa in questa materia sia largamente condivisa dalla base ecclesiastica e laica? Non esiste il rischio di lacerazioni interne?

Anche e soprattutto per questo è necessario un pronunciamento ufficiale.

 

8. Sul problema dei metodi anticoncezionali la condanna della Chiesa è sempre stata estremamente rigida. In che percentuale crede che la popolazione giovanile cattolica si adegui a questa direttiva?

Penso che l’insegnamento cattolico riguardo alla procreazione responsabile non sia stato presentato ai giovani, in questi anni, nel suo contenuto profondo. Al contrario, la pubblicizzazione dei metodi anticoncezionali è stata massiccia e martellante. Non si deve, dunque, pensare che la maggioranza dei giovani conosca e poi rifiuti la direttiva della Chiesa.
Molto spesso prevale l’ignoranza ed essi si lasciano condizionare verso la scelta più facile. Una delle esigenze primarie che la Chiesa avverte a questo riguardo è proprio quella di far conoscere nella scuola, nelle catechesi ai giovani, attraverso gli organi di informazione, il suo pensiero al riguardo e, concretamente, anche i metodi naturali che sono “efficaci” come quelli artificiali senza essere nocivi all’organismo. Ma, a partie efficacità e innocuità, la cosa più importante è che solo il ricorso ai metodi naturali è rispettoso della verità intera dell’amore coniugale.
Tutto questo dev’essere fatto senza la paura di essere messi in ridicolo, di non essere moderni: altrimenti sarebbe favorire, come per lungo tempo è stato fatto, un vero e proprio terrorismo intellettuale.

 

9. Quale è il pensiero espresso dal Papa sul tema “i giovani e l’amore”?

Spesso — nei suoi viaggi apostolici e qui a Roma — il S. Padre si è rivolto a uditori giovanili. In questo suo Magistero c’è il richiamo fatto ai giovani a non lasciarsi ingannare da proposte che mascherano, sotto parole come “libertà” e “amore”, progetti di vita che rendono schiava la persona umana. In una parola: si aprano interamente a Cristo che è la verità piena dell’uomo, e sarà loro donata la capacità di amare con verità e nella verità.

 

 

Altra breve intervista

 

1. In primo luogo e globalmente parlando, che cosa — lei pensa — la Chiesa intera può aspettarsi dal prossimo Sinodo?

Il Concilio Vaticano II, come ogni Concilio ecumenico, è stato un dono straordinario che lo Spirito ha fatto alla Chiesa. Esso deve penetrare sempre più profondamente nella coscienza dei fedeli tutti: deve essere sempre più intimamente interiorizzato per poter dare quei frutti di santità per cui è stato voluto. Penso che il Sinodo deve essere in primo luogo una occasione perché ciascuno si converta più profondamente a Cristo.

 

2. In queste settimane si cono stati scontri, polemiche: è forse necessario richiamare richiarire alcuni punti della dottrina conciliare?

Ho già scritto altrove che la situazione della Chiesa attuale ha impressionanti somiglianze con la situazione descritta da san Basilio Magno alla fine della sua opera sullo Spirito Santo: non posso purtroppo — data la lunghezza — citare la pagina. Riflettendo su questa situazione, mi sono spesso chiesto quali ne sono le radici ultime. Vorrei dirle brevemente a quali conclusioni sono giunto. La vera tragedia della Chiesa contemporanea è il massiccio ingresso dentro essa di ciò che Newman chiamava il “principio liberale” o razionalistico. In poche parole: è il principio secondo il quale non esiste una verità che non sia inventata dall’uomo, che non sia — quindi — subordinata alla libertà dell’uomo. Una volta che si parta da questa convinzione la definizione stessa di Rivelazione e correlativamente di fede è sostanzialmente mutata e, pertanto, la vera natura della Chiesa non è più assolutamente percepibile. Essa diviene, come qualsiasi altra società, manipolabile a piacere dell’uomo. E arrivo così alla sua domanda precisa. Il Concilio ha emanato una Costituzione dogmatica di grande importanza: la Dei Verbum, precisamente sulla Rivelazione. Deve essere ripresa, rimeditata. Insomma: è il Dono che il Padre ci fa del suo Figlio che sta all’origine di tutto e non c’è che un atteggiamento giusto nei confronti di questo Avvenimento, il puro consenso a questo Dono e l’obbedienza lo incarna perfettamente. Lei ha notato il silenzio che è caduto su questo tema? È pressoché totale. E san Paolo insegna che tutto il male dell’uomo viene dalla disobbedienza.

 

3. Lei ha parlato di Rivelazione, di fede. Ciò pone immediatamente un problema oggi molto serio, su cui il post-Concilio ha lavorato a lungo, il problema della Catechesi. Cosa pensa al riguardo?

Parto da un fatto e da una citazione. Il fatto. Qualche tempo fa ho chiesto ad una bambina che frequenta da anni la catechesi: che cosa è l’Eucaristia? mi ha risposto: è la celebrazione del nostro essere fratelli, lo stare assieme intorno alla tavola di Gesù. La citazione. San Tommaso scrive che se la nostra fede non è vera, noi onoriamo non Dio, ma un idolo fabbricato dalle nostre teste. A quel la bambina hanno modellato un “idolo” della celebrazione eucaristica e le hanno chiesto di venerarlo. Provi, lei che è giornalista, a fare un’inchiesta al riguardo e si renderà conto se il problema della verità della fede sia ritenuto il punto centrale dell’insegnamento catechistico. Insomma: la catechesi o è trasmissione di questa verità (da credere e da vivere, come dice il Concilio) o è tempo perso. La Lumen Gentium comincia il suo insegnamento esponendo il piano salvifico di Dio. Comincia da dove si deve cominciare: Dio, il suo Amore, la sua Gloria. È come vede una questione di fedeltà al Concilio.

 

4. Ma, più in particolare, cosa pensa della pastorale giovanile? Più precisamente: se dovesse parlare ai giovani prima e dopo il Vaticano II, userebbe la stessa lingua?

Purtroppo è un’esperienza che non ho potuto fare... per ragioni anagrafiche. Ho vissuto il mio sacerdozio tutto dopo il Concilio. Ma le risponderò ugualmente, o almeno cercherò di farlo. Il problema della “comunicazione” è importante, non c’è dubbio. Però il problema primo non è questo: è il problema della verità di ciò che si comunica. Ho l’impressione che, soprattutto nella pastorale giovanile, si pensi spesso che se noi sappiamo “comunicare” coi giovani, il problema più serio è risolto. Non è così, mi sembra. È ciò che viene comunicato che è decisivo. E allora: ciò che deve essere comunicato ai giovani dopo il Concilio è esattamente ciò che doveva essere comunicato prima e da sempre: “dal principio” (prima lettera di Giovanni). È la verità della fede. È cioè che un fatto è realmente accaduto: il Verbo si è fatto carne e costituisce una comunione degli uomini in Lui. E che solo in questo “luogo” in cui risplende la Gloria di Dio l’uomo è salvato.

 

5. Per finire. Lei è professore di etica teologica: nel campo della sua più specifica competenza, avverte qualche esigenza particolare emersa in questo periodo post-conciliare.

Più che addentrarmi in problemi specifici, vorrei limitarmi ad alcune considerazioni generali. Fra gli insegnamenti più importanti, a mio parere, dati dal Concilio vi è quello riguardante la chiamata di tutti e singoli i cristiani alla santità in senso vero e proprio. La vocazione del cristiano è la pienezza della comunione con Dio. Da ciò deriva la bellezza e la “serietà” estrema dell’esperienza cristiana. Se ora guardo alla situazione in cui versa la riflessione teologica su di essa, cioè all’etica teologica, resto sconcertato. Quali criteri morali vengono spesso proposti per quel discernimento, quel giudizio che ogni cristiano deve esercitare? Il criterio della considerazione delle conseguenze dei nostri comportamenti, per vedere se sono utili o dannosi; il criterio di un “bilanciamento dei beni” in questione, al fine di vedere quale di essi sia più o meno importante; un esame della “proporzione” fra vantaggi e svantaggi delle nostre scelte. E, ora, le faccio due domande: lei pensa che se questa fosse stata l’etica cristiana, avremmo avuto un Tommaso Moro e, tanti martiri come lui? anzi, i santi? Che cosa c’è di comune fra queste teorie e quell’insegnamento del Concilio sopra richiamato? io credo nulla. Come vede, ritorniamo al punto: il Vaticano II deve essere ripreso, accolto veramente in tutti i suoi insegnamenti.
Voglio terminare con una riflessione di un Padre della Chiesa che mi è particolarmente caro. Essa dice: “La fiamma d’amore... mediante uomini eletti e spirituali ha riempito ovunque la Giudea fino ai suoi confini. Tuttavia non si mostrava esteriormente, perché non si estendeva alla moltitudine delle genti. Questa fiamma fu vista in seguito risplendere tutt’intorno, perché l’amore di Dio Onnipotente cominciò a crescere, in tutte le genti, fino agli ultimi confini della terra” (San Gregorio Magno). La Chiesa è splendore dell’amore di Dio nel mondo: il Sinodo lo riaccenda più luminoso e quindi più visibile.