DOLORE, SOFFERENZA, MORTE: COME E PERCHE’ INTERVENIRE
Clinica Toniolo – Bologna 18 aprile 1998
I tre termini presenti nel titolo generale di questa conversazione
vanno tutti nella stessa direzione di significato: denotano l’essere umano
come esposto continuamente alla sua fine. E’ una condizione che l’uomo
in parte condivide con ogni organismo vivente ed in parte vive in un modo
unico. “Solo l’uomo fra tutte le creature sa che deve morire, solo lui
piange i suoi morti, seppellisce i suoi morti, ricorda i suoi morti. La
mortalità è stata considerata a tal punto segno di riconoscimento
della conditio humana che l’attributo «mortale» è stato
monopolizzato per l’uomo” (H. Jonas, Tecnica, medicina ed etica. Prassi
del principio di responsabilità, ed. Einaudi, Torino 1997, pag.
206). Dunque: quando si parla di dolore, sofferenza, morte si deve sempre
essere consapevoli che si parla di una condizione che definisce la persona
umana come tale.
Queste semplici osservazioni introduttive sembrano talmente ovvie da
rischiare la banalità. In realtà esse ci indicano già
la risposta sintetica alla domanda centrale del nostro incontro: “dolore,
sofferenza, morte: come e perché intervenire?”. La risposta è:
nel modo adeguato alla dignità di una persona umana. Le ragioni
(perché intervenire) e le modalità (come intervenire) sono
dettate dalla singolare preziosità di ogni persona umana. Ma forse
ancora una volta l’affermazione sembra talmente generica, ed anche ancora
una volta ovvia, da risultare scarsamente operativa per risolvere il problema
(o i problemi) che ci interessa questa sera. Tuttavia non è affatto
così. Tocchiamo il nodo teoretico e pratico di tutta la questione
della pratica odierna sia della medicina che della infermieristica: esiste
un “proprium” della dignità umana, in forza del quale ogni singolo
essere umano ha in sé e per sé un valore incommensurabile?
Incommensurabile significa che non ha un corrispettivo con cui possa essere
scambiato, che non esiste uno scopo così grande da giustificare
l’uso anche di una sola persona come mezzo per raggiungerlo. Ora questa
affermazione di una dignità (così intesa) della persona umana
è stata in larga misura perduta oggi. “Quando dico «perdita»
intendo ovviamente alludere al fatto che il pensiero e la società
moderna non riescono più - al loro interno - a dare un contenuto
sostantivo, proprio (autonomo), e non omologabile ad altri esseri viventi,
della costituzione di ciò che è umano. Tutt’al più,
si prende atto di una «diversità», ma poi la relativa
dignità (e sostanza) è rimandata all’indeterminato, e trattata
sempre e solo come pura possibilità” (P. Donati, Pensiero sociale
cristiano e società post-moderna, ed A.V.E., Roma 1997, pag. 91).
Un’etica della professione sanitaria o nasce da una visione chiara della
dignità dell’uomo oppure finisce coll’essere ridotta a decisioni
puramente utilitaristiche. Non voglio ora descrivere il percorso compiuto
dentro alla cultura moderna che ha portato alla perdita del concetto di
persona.
Vorrei allora procedere, distinguendo la mia riflessione in due punti
(molto sinteticamente), cercando di indicare nel primo punto alcuni elementi
fondamentali che entrano nella costituzione della dignità della
persona, e nel secondo punto di individuare alcuni criteri operativi.
1. Quando si parla di dignità della persona umana (ammalata o
non), essa deve essere pensata almeno all’interno di tre coordinate.
1,1. L’uomo (e ciò che è umano) ha uno status diverso,
laddove comparabile, superiore rispetto agli altri esseri viventi. Cioè:
essere qualcuno è più che, è altro che essere qualcosa.
La trascendenza della persona è la prima e fondamentale coordinata
di un’affermazione della dignità della persona, che non voglia essere
vuota di senso. Le più recenti ricerche ai confini fra bio-genetica,
informatica e scienze della mente ne offrono più di una ragione.
Questa trascendenza impedisce ogni considerazione della persona che
la riduca ad oggetto di cui poter disporre, anche per i fini più
nobili.
1,2. La persona è essenzialmente segnata, fin dalla sua origine,
dalla reciprocità, cioè dal suo essere in relazione con altre
persone. La società umana non è solo ed esclusivamente un
artefatto umano. Essa è richiesta dalla stessa costituzione intima
della persona umana. La società umana, la creazione dei rapporti
con le altre persone umane non è solo frutto di contrattazioni:
essa risponde ad esigenze insite nella persona. Cioè: non ogni rapporto
sociale ha la stessa qualità. La sua qualità deve essere
misurata dalla sua capacità di far “incontrare” le persone. Questo
significa reciprocità.
1,3. La persona umana è segnata fin dal suo sorgere, dal non
appartenersi radicalmente. Non sei stato tu a decidere di esistere: la
vita è stata donata. Questa caratteristica della nostra vita indica
il carattere fondamentale che delinea quella reciprocità di cui
parlavo. Un carattere che può essere molto semplicemente indicato
nel modo seguente: così come è stata ricevuta, così
la vita chiede di essere donata. L’amore è la vocazione che struttura
l’essere della persona.
Trascendenza, reciprocità, amore sono le coordinate fondamentali
della dignità della persona umana. Le difficoltà profonde
di cui soffre la nostra vita quotidiana, nascono dalla progressiva “trasformazione”
di esse. Si nega sempre più l’esistenza di un confine fra l’umano
ed il non-umano; la reciprocità è sempre più intensa
come una contrattazione di tutto; la donazione è sempre più
sostituita dal calcolo di una “dare-avere” che deve sempre chiudersi almeno
in parità, in termini dei propri interessi individuali.
2. Vorrei ora individuare alcuni criteri che devono regolare le modalità
di intervento sulla sofferenza umana, criteri discendenti da quella visione
della dignità sopra appena schizzata.
Il caso della persona ammalata è particolarmente significativo
per il discorso che stiamo facendo. “Il suo stato fisico, la sua vulnerabilità
psichica, il rapporto di dipendenza dal medico, l’atteggiamento di arrendevolezza
e di interdizione che gli deriva dalla cura, tutto ciò che è
connesso con il suo stato d’animo e con la sua situazione fa del malato
una persona meno padrona di sé di quanto non sia la persona sana”
(H. Jonas, Tecnica ... cit. pag. 104). La “cura” dunque, la vigilanza cioè
per custodire nella relazione coll’ammalato il giusto riconoscimento della
sua dignità, deve essere costante nel personale sanitario. Mi limito
ad indicare alcuni “criteri di intervento” o, se volete, alcuni contenuti
di quella vigilanza di cui parlavo.
2,1. “Nel corso della cura il medico ha obblighi nei confronti del
paziente e di nessun altro. Non è l’avvocato della società
o della scienza medica o della famiglia del paziente o dei suoi compagni
di sventura o di coloro che in futuro soffriranno della stessa malattia.
Soltanto il paziente conta quando è affidato all’assistenza del
medico. Già secondo la semplice legge del contratto bilaterale (in
analogia, per esempio, al rapporto tra avvocato e cliente con il suo concetto
etico-professionale del «conflitto di interessi») il medico
è vincolato a non consentire che nessuno altro interesse entri in
competizione con l’interesse del paziente alla sua guarigione. Ma, evidentemente,
entrano in gioco regole ancora più elevate di quelle puramente contrattuali.
Possiamo parlare di un sacro rapporto di fiducia. In senso stretto il medico
è per così dire solo con il suo paziente e con Dio.” (H.
Jonas, Tecnica... cit. pag. 103). E’ questo il significato profondo del
detto: “secondo scienza e coscienza”.
2,2. Ma è nel contesto di questa riflessione che la nostra domanda
assume un particolare carattere di drammaticità: come e perché
intervenire, quando si tratta di «malato terminale»? Vorrei
attirare la vostra attenzione soprattutto su questa domanda.
Nella risposta a quella domanda, si scontrano oggi due posizioni. La
prima, che si ispira alla tradizione etica cristiana, afferma accanto al
dovere di curare sempre la vita umana, l’obbligo di non cedere alla tentazione
del c.d. accanimento diagnostico e/o terapeutico. La seconda, più
recente ma sempre più invadente, preme che si riconosca nei testi
legislativi e deontologici come legittimi l’eutanasia, l’aiuto medico al
suicidio e le decisioni mediche attorno alla fine della vita umana. Ho
la convinzione che il futuro della medicina dipenderà in larga misura
dall’esito di questo scontro. E’ dunque un punto sul quale ogni medico,
ogni istituzione sanitaria, e la Chiesa devono riflettere con grande rigore
razionale.
Da parte mia mi limito dapprima ad indicare le ragioni che giustificano
una medicina che non fa guarire, ma che semplicemente procura sollievo
e conforto e poi farò alcune riflessioni più attinenti ad
una pratica sanitaria vissuta dal credente in Cristo.
2,2,1. Due sono le ragioni fondamentali che giustificano eticamente
l’attenzione e la pratica palliativa: “la prima, è il rispetto del
paziente che deve caratterizzare il medico, soprattutto nei momenti terminali
della malattia in cui egli raggiunge una debolezza estrema; la seconda,
è l’insufficienza degli interventi medici, che nella malattia terminale
dimostrano la loro inesorabile finitezza” (G. Herranz, Il tramonto della
vita, in Orizzonte medico, Anno LII, 5-6, pag. 54). Vorrei fermarmi brevemente
su ciascuna di queste due ragioni.
La prima. Perché intervenire, quando «non c’è più
nulla da fare» come si dice? quando cioè ci troviamo di fronte
a pazienti in declino fisico progressivo dovuto ad un fallimento organico
oppure non più padroni psichicamente di se stessi, come conseguenza
di una clemenza o dello stato vegetativo persistente. La risposta è
semplice e profonda al contempo: perché è una persona umana
debole. La coesistenza di dignità, propria della persona, e di debolezza
pongono questi pazienti in una relazione del tutto singolare col medico,
una relazione esigitiva di cura e di attenzione particolare. Qualcuno che
è simultaneamente nobile ed indigente, inviolabile e bisognoso.
Vi dicevo che il futuro della medicina dipenderà in larga misura
dal permanere o in essa del rispetto assoluto dovuto a questi ammalati.
La storia della medicina infatti dimostra che l’esistenza dei deboli è
stata la spinta permanente per risvegliare la vocazione professionale,
per migliorare la qualità dell’assistenza, per dare impulso alla
ricerca. Se questa spinta venisse ad estenuarsi, e quindi la debolezza
fosse il sigillo del disprezzo e dell’abbandono, la medicina cambierebbe
volto: diventerebbe lo strumento di un’ingegneria sociale al servizio della
neo-aristocrazia dell’elevata qualità della vita.
La seconda. Come intervenire? E’ questo il problema di più difficile
soluzione. La difficoltà nasce dal fatto che una cultura come la
nostra, ci ha allontanati dal riconoscimento dei limiti etici delle nostre
azioni: limiti che impediscono di compierle quando esse pur rettamente
intenzionato, sono dannose o inutili. La possibilità tecnica può
essere più estesa che la possibilità etica: il possibile
non è sempre lecito, né tanto meno doveroso.
Nel contesto di questo discorso si è andato elaborando la nozione
di terapia proporzionata/sproporzionata (altri: di inutilità medica),
ed in rapporto ad essa del concetto di accanimento diagnostico e di accanimento
terapeutico.
La scriminante che separa le due terapie è determinata da un
attento calcolo delle proporzioni fra benefici dell’intervento, sofferenze
che provocano nel paziente, spese economiche che comportano. E’ spesso
difficile giudicare nel caso concreto e può essere che esista pressoché
sempre un margine di incertezza. Tuttavia, risposte eticamente degne della
persona non sono né l’abbandono del paziente né l’ostinazione
terapeutica.
Queste due ragioni, se profondamente assimilate, sono come i “due occhi”
attraverso i quali il medico deve vedere questa persona: al contempo un
sistema fisiopatologico alterato oltre ogni possibilità di ritorno
ed un essere umano che merita rispetto e cura fino alla fine. La rinuncia
all’inutile è parte integrante di questo rispetto.
2,2,2. Vorrei ora fare alcune riflessioni riguardanti il medico credente
in Cristo.
Tutto ciò che ho detto finora, vale per il credente, alla seconda
potenza per così dire. Res sacra miser, dice un antico detto cristiano.
L’occhio del credente ha una visione più penetrante della dignità
della persona, della dignità dell’ammalato terminale. Per quale
ragione? perché ha una visione più penetrante della morte,
la quale svela interamente la suprema dignità della persona: l’essere
chiamata alla comunione eterna col Signore.
E’ in questa dimensione della persona che si inscrive la posizione
peculiare del medico credente: quella di evangelizzare la morte. Una evangelizzazione
che poi il sacerdote porterà a termine.
Conclusione
Ciò che tutti oggi percepiscono come esigenza prioritaria è
l’umanizzazione del rapporto col paziente. Esso resterà mera utopia
se non si ricupera una chiara visione della dignità della persona
umana ed una riforma vera della socializzazione della pratica della medicina.
Penso che siamo tutti consenzienti.
Ma una volta ammesso questo, rimane da chiedersi: chi in concreto ha
il dovere di umanizzare il rapporto col paziente? Ovviamente coloro che
vivono in primis questo rapporto. Senza una profonda educazione della coscienza
di ogni medico ed infermiere, si cadrebbe in una delle più stolte
illusioni: pensare che sia possibile un’organizzazione sociale così
perfetta da rendere superflua la virtù degli uomini.
Ma non solo. Esiste anche una responsabilità istituzionale.
Ma questo non è più materia della nostra riflessione.
|