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Comitato "Cardinale Carlo Caffarra"


La tolleranza e i suoi limiti
Viterbo, 8 giugno 1990


La prima difficoltà che si incontra, quando si riflette sul tema della tolleranza, è precisamente quella di determinare rigorosamente il concetto stesso. Compito non facile, perché il termine è diventato equivoco. Vorrei, dunque, cominciare col determinare il più precisamente possibile il concetto di tolleranza, e questo sarà il primo punto della mia riflessione. Solo in seguito, con un concetto chiaro di tolleranza, sarà possibile riflettere sui limiti di applicazione dello stesso.

 

1. Il concetto di tolleranza

 

Due sembrano essere i contesti nei quali nella tradizione etica della Chiesa si inserisce il riferimento alla tolleranza: nel contesto del comportamento dell’agire umano e nel contesto del pensare umano. I due contesti devono essere studiati distintamente.

 

1, 1. Nel contesto dell’agire umano, il concetto di tolleranza indica una proprietà di cui deve essere dotata la legge umana e, dunque, un’attitudine del legislatore umano. È necessario, per capire questo contesto, richiamare il fatto che, secondo la concezione (diciamo) classica della legge umana, questa deriva la sua forza obbligante non propriamente dal potere di chi la promulga, ma dall’essere radicata nell’ordine morale, espressione della Sapienza divina stessa. Posta al servizio di questo ordine, la legge umana deve imporre/proibire tutto ciò che è imposto/proibito dall’ordine morale? Nel vocabolario di san Tommaso: ogni opera virtuosa/ogni opera viziosa deve essere comandata/proibita dalla legge morale? La risposta comune è negativa. La legge umana deve imporre/proibire solo quelle opere umane, senza le quali la società umana non potrebbe sussistere.

È precisamente nel contesto di questa riflessione che si definisce il concetto di tolleranza. Esistono comportamenti umani che deviano dalla legge morale, ma questa devianza non è per sé e in sé considerata ragione sufficiente per concludere che quei comportamenti debbano essere proibiti. Due sono le considerazioni ulteriori che devono essere fatte: l’una riguardante la rilevanza sociale della devianza, l’altra riguardante il confronto o proporzione fra il male sociale compiuto dal comportamento deviante non proibendolo e il male sociale conseguente alla proibizione legale del medesimo. Nell’ambito di questa seconda considerazione, si giunge perfino ad ammettere una certa regolamentazione del comportamento moralmente illecito (caso della prostituzione).

La condotta umana non proibita 0 — al limite — anche regolamentata dalla legge umana non viene giudicata lecita, non viene favorita, anzi viene sempre socialmente riprovata, ma semplicemente la legge umana si astiene dall’esercitare, nei confronti di essa, il suo potere coattivo. In una parola: tollera.

In questo concetto, dunque, il concetto di tolleranza è molto preciso. Esso connota una proprietà dell’ordinamento giuridico umano (e, quindi, in radice un’attitudine del legislatore umano), in forza della quale la legge umana si astiene dal proibire una condotta umana moralmente illecita, pur continuando a giudicarla come tale (cioè moralmente illecita).

Si tratta di un atto di prudenza politica, di cui la Tradizione cristiana ha offerto una giustificazione molto profonda. Dio stesso, nella sua Santità infinita, nella sua Provvidenza, permette-tollera il male morale. Dunque, la tolleranza non solo non è un’attitudine viziosa, ma, al contrario, è un’attitudine virtuosa. Meglio, come ho già detto, atto della virtù della prudenza, della virtù cioè che è esercizio di una ragione retta.

 

1, 2. Il discorso diventa estremamente più complesso e difficile, dal punto di vista teoretico, quando entriamo nel contesto del pensare umano. La definizione, pertanto, del concetto di tolleranza in questo contesto deve iniziare il suo cammino partendo più lontano.

È un punto centrale della dottrina cristiana l’affermazione secondo la quale ciò che l’uomo pensa di Dio costituisce una dimensione essenziale del culto che l’uomo deve a Dio. Il primo, originario atto di culto della creatura verso il suo creatore è un atto di intelligenza: avere una conoscenza vera di Dio. Ed è per questo che l’atto di fede, il quale formalmente (non esclusivamente) è un assenso della ragione, è la radice di tutta la vita cristiana. Poiché la Chiesa afferma che Dio non ha lasciato che l’uomo lo cercasse, come a tentoni, colla sola sua ragione, ma ha voluto rivelare se stesso, non esiste più una conoscenza vera di Dio, se non è — e nella misura in cui è — conforme alla verità rivelata. Il che è come dire: il cristianesimo è l’unica religione vera. Non possiamo ora proseguire ulteriormente in questa riflessione: per il nostro tema è sufficiente.

La coscienza dell’assolutezza ed esclusività del Vangelo di Cristo, unica via di salvezza, pone — dal nostro punto di vista — due problemi, almeno.

Il primo. Come devono essere giudicate le religioni non cristiane, in ordine alla salvezza di chi le pratica? La risposta della Tradizione della Chiesa, insegnata ultimamente dal Concilio Vaticano Secondo, mi sembra che possa ricondursi alle seguenti affermazioni.

Dal punto di vista soggettivo, cioè se si considera la situazione del singolo che segue la religione non cristiana, se la persona versa nell’ignoranza e/o nell’errore religioso moralmente incolpevole, essa si può salvare. Dal punto di vista oggettivo, cioè se si da’ un giudizio sulla religione non cristiana come tale, questo giudizio deve evitare due estremi. L’estremo di chi nega, in linea di principio, la presenza di “frammenti di verità” nella religione non cristiana e l’estremo di chi giudica ogni religione semplicemente in funzione di un bisogno umano di salvezza e, pertanto, non pertinente un giudizio valutativo sulle medesime.

Il secondo problema ci introduce già direttamente nel nostro tema. Supposto che l’esercizio della propria fede religiosa sia una condotta anche socialmente rilevante; supposto, di conseguenza, che chi esercita l’autorità politica non possa ignorare la fede religiosa di coloro che compongono la società; supposto che chi esercita l’autorità politica (sia una singola persona) abbia accettato la fede cristiana: come deve comportarsi nei confronti delle altre religioni?

La risposta a questa domanda ha conosciuto uno sviluppo assai importante, in due momenti. Nel primo momento mi sembra di poter dire che si ha l’applicazione del concetto di tolleranza, quale è stato spiegato precedentemente. E, cioè, in linea di principio, si devono proibire le manifestazioni pubbliche dei culti non cristiani; in linea di fatto, si possono tollerare, cioè astenersi dalla proibizione dei medesimi, nel senso già spiegato sopra. La conseguenza immediata di questa prima risposta è che lo Stato non ha un’uguale considerazione-trattamento di tutti i culti professati dai cittadini: non esiste un’uguaglianza giuridica fra tutte le religioni presenti nella società civile. Il che non significa necessariamente una disuguaglianza dei cittadini, in ragione della loro fede religiosa. Ma, come è facile vedere, il passo dall’uno all’altro è assai breve.

Il secondo momento è costituito dalla dottrina del Vaticano II sulla libertà religiosa. La sostanza di questo insegnamento mi sembra il seguente. L’accesso dell’uomo alla verità in generale, e in un modo del tutto particolare alla verità religiosa, deve essere libero. In un senso preciso. Non nel senso che la ricerca della verità e l’assenso alla verità (religiosa) non sia il primo e fondamentale dovere morale dell’uomo, ma nel senso che la persona umana non può essere costretta ad assentire alla verità. Al centro, cioè, di questa dottrina si colloca il rapporto dell’uomo alla verità, visto come rapporto di natura essenzialmente etica: come obbligo etico dell’uomo verso la verità. Da ciò derivano alcune conseguenze, assai importanti sia dal punto di vista teoretico che pratico. La prima è che lo stato non deve né imporre la verità religiosa né proibirne/limitarne la ricerca-assenso-pratica: unica ragione potrebbe essere ragioni gravi di ordine pubblico. La seconda è che rientra fra le esigenze del bene comune di una società civile il favorire positivamente il rapporto dell’uomo alla verità religiosa.

Ritorneremo più avanti su questa dottrina, per coglierne tutte le implicazioni.

 

Abbiamo cercato finora di dare uno schizzo del concetto di tolleranza nella Tradizione della Chiesa. Tuttavia, a partire soprattutto dal XVII secolo, la modernità comincia l’elaborazione di un concetto del tutto nuovo di tolleranza. È impossibile ora percorrere tutto il cammino storico. Mi limiterò solamente, in primo luogo, a individuare le coordinate teoretiche fondamentali, entro le quali poi è facile collocare la nuova definizione di tolleranza elaborata dalla modernità.

 

1, 3. In primo luogo le coordinate teoretiche. La prima e più importante è l’affermazione del primato assoluto della libertà nella vita dello spirito: l’affermazione cioè della libertà come il prius originario della vita dello spirito. Si tratta di un punto di decisiva importanza, che dobbiamo rigorosamente chiarire.

Esiste un primato della libertà, affermato dal cristianesimo, secondo il quale l’atto supremo dello spirito è l’atto libero. Ma, in quale senso preciso il Cristianesimo afferma questa supremazia dell’atto libero? nel senso preciso, già mirabilmente espresso da sant’Agostino, che il Dio che mi ha creato senza di me, non mi salverà senza di me. Cioè: l’atto che decide della sorte eterna della persona umana, non è un atto di conoscenza (anche i demoni credono, scrive san Giacomo), ma è una scelta libera.

Non si diventa cristiani pensando al cristianesimo, ma decidendo di diventarlo. Dunque, l’atto ultimamente decisivo della qualità della propria esistenza è un atto di libertà. Possiamo dire: si afferma qui un primato esistenziale della libertà.

Nello stesso tempo, tuttavia, il Cristianesimo afferma che il giudizio ultimo sulla qualità della propria esistenza, e dunque sull’esercizio della propria libertà, è di esclusiva competenza del Signore: non ogni scelta libera e il contrario di ogni scelta libera hanno lo stesso intrinseco valore, precisamente in relazione alla qualità dell’esistenza generata dalla libertà.

Esiste una verità sul bene e sul male dell’uomo, che precede (non in senso cronologico, ovviamente) l’esercizio della libertà e che giudica, perciò, il valore intrinseco di questo esercizio medesimo, pronunciando un giudizio che discrimina fra libertà vera e libertà apparente tale, ma in realtà falsa. Questo imporsi, inconfutabile, della verità (sul bene e sul male) alla libertà è ciò che in etica si chiama dovere o obbligazione morale. Dal punto di vista — così possiamo chiamarlo — formale, deve affermarsi un primato della verità nei confronti della libertà.

Dunque, in sintesi: esiste un primato esistenziale della libertà nei confronti della verità; esiste un primato formale della verità nei confronti della libertà. Quando questo mirabile, delicato e misterioso rapporto, che costituisce il nucleo essenziale di tutta la nostra vita spirituale, si rompe, si costruisce teoreticamente la prima coordinata del nuovo concetto di tolleranza. Il primato esistenziale della libertà si salva solo se a prezzo della negazione del primato formale della verità. Cioè: non esiste una verità che preceda la decisione della libertà di affermarla come tale. In altre parole: non esiste una verità, ma solo la decisione di ritenere per vero ciò che poi, successivamente, si afferma essere vero. In questo senso, parlavo di un’affermazione dell’atto libero come di unica, originaria, esclusiva sorgente della vita spirituale.

La seconda coordinata teoretica è una conseguenza immediata della prima. Se ora cerchiamo di dare una traduzione sociale del primato assoluto della libertà, considerando l’uomo non nella sua singolarità, ma in quanto membro della società, si deve, per pura coerenza logica, progettare il sociale umano secondo i seguenti principi. La libertà può solo auto-limitarsi: dunque, il supremo principio che regola la società umana è il consenso sociale. È vero/falso, è bene/male ciò che il consenso sociale decide che sia tale. Anzi, i concetti di vero/falso - bene/male non hanno senso nell’organizzazione del sociale umano: ha senso, solamente, parlare di comportamenti socialmente consentiti o non consentiti. L’esercizio dell’autorità non consiste più nel riferirsi a un ordine di giustizia dotato di una sua forza morale, ma nell’essere capace di produrre un consenso sociale. Donde, l’importanza di essere possessori dei centri del potere della persuasione.

Esistono, tuttavia, e vengono coerentemente affermati due limiti fondamentali all’interno di questa teoria sociale. Il primo è costituito dal fatto che la competenza, se così possiamo dire, o l’autorità del consenso sociale non può estendersi fino al punto di negare ciò che rende possibile l’affermarsi pratico del progetto stesso, cioè la libertà del singolo come tale. In questo preciso punto entra l’affermazione dei diritti fondamentali dell’uomo. Il secondo è costituito dalla riduzione della fede religiosa alla sfera meramente privata.

La terza coordinata, e ultima, è precisamente costituita da questa riduzione, sulla quale ora dobbiamo riflettere molto attentamente.

La verità religiosa, non solo quella cristiana, è per sua stessa natura risposta ultima, completa. Ultima: essa cioè non lascia senza risposta nessun interrogativo che sia di decisiva importanza per l’esistenza umana. Completa: essa offre una visione interpretativa di tutta la realtà nella quale l’uomo vive. Queste proprietà della verità religiosa spiegano la sua incondizionata serietà che riveste per chi vi assente e la sua esigenza a ispirare e governare ogni ambito dell’esistenza.

Se ora accostiamo teoreticamente e praticamente questa verità, quella religiosa, a quel concetto di libertà, di cui si afferma il primato, gli esiti teoretici non possono essere che due: o si cambia nella sua definizione stessa (cioè sostanzialmente) il concetto di verità religiosa o si rimette radicalmente in discussione l’affermazione del primato assoluto della libertà. Tertium quid non datur, se non un tertium confusionis.

La terza coordinata consiste precisamente nel fatto che la modernità ha imboccato la prima alternativa, giungendo alla seguente conclusione finale: la verità religiosa altro non è che la simbolizzazione, l’espressione simbolica di quel senso ultimo che la libertà del singolo ha semplicemente deciso di dare alla sua vita.

Parlare di vera-falsa religione, in questo contesto, non ha più senso, come non avrebbe senso chiedere se… è più pesante una sinfonia di Mozart o di Brahms. Essendo la religione semplicemente in funzione di una decisione che può solo qualificarsi come autentica o inautentica.

Non solo, ma come ogni decisione del singolo, essa è socialmente ammessa in quanto e nella misura in cui la religione si taglia sulla misura dei valori socialmente consentiti: il resto che non accetta questo taglio, deve essere confinato nella sfera del privato. La Chiesa è uno — anche se il più importante — dei supporti del consenso sociale su un codice di valori morali comuni.

 

1, 4. Dentro queste tre coordinate si costruisce il nuovo concetto di tolleranza.

Essa, in primo luogo, consiste in un’attitudine spirituale che muove la persona a giudicare non essere di decisiva importanza per l’esistenza umana (temporale ed eterna) la conoscenza della verità, a giudicare che ogni affermazione e il contrario di ogni affermazione meritano lo stesso rispetto e posseggono lo stesso diritto a essere accolte dagli uomini.

Essa, in secondo luogo e di conseguenza, consiste nell’elevare il consenso sociale a criterio di organizzazione della società umana, escludendo, cioè non tollerando ogni decisione che metta in questione questo stesso criterio, in primo luogo la verità religiosa in quanto questa voglia essere socialmente rilevante.

Concludo questa definizione del nuovo concetto di tolleranza con alcune riflessioni finali. Si deve notare la stretta connessione fra la tolleranza teoretica (o liberalismo teoretico) e la tolleranza pratica (o liberalismo pratico); la seconda dipende, e viene affermata dipendentemente, dalla prima.

Le due parti in cui il discorso della tradizione etica della Chiesa strutturava la sua riflessione sulla tolleranza, sono nella modernità così strette da una connessione teoretica che non si vede più come affermare/negare l’una senza affermare/negare l’altra.

Infine, si potrebbe pensare che Dignitatis humanae abbia fatto proprio questo concetto. In realtà questa appropriazione è affermata falsamente. Ma questo punto lo riprenderemo più avanti, più diffusamente.

 

2. I limiti della tolleranza

 

Poniamoci ora la seconda domanda: quali sono i limiti della tolleranza?

 

2, 1. Alla luce dello schizzo concettuale elaborato nel punto precedente, credo che dobbiamo rispondere nel modo seguente.

A) Se intendiamo “tolleranza” nel senso della Tradizione etica cristiana, trovo la formulazione più chiara della risposta in un famoso testo di san Tommaso. Sul piano delle condotte umane, il limite invalicabile e costituito da quelle condotte umane che sono talmente gravi da mettere in questione i fondamenti stessi dell’ordine sociale, le ragioni stesse della convivenza umana.

Sul piano più particolare della “tolleranza religiosa” — ma sarebbe meglio dire della “libertà religiosa” — il limite invalicabile è costituito ancora una volta da quelle condotte, o di singoli o di comunità religiose, che sono contrarie all’ordine pubblico informato a giustizia.

B) Nel contesto del concetto elaborato dalla modernità, ci sembra di poter dire che i limiti invalicabili sono costituiti dal consenso sociale. Ma, essendo che il consenso sociale, per sua natura e oggi in particolare sempre fluttuante, non è possibile prestabilire un limite che sia invalicabile “pro semper”. Ciò che oggi non è tollerabile, non è detto che tale permanga domani o ciò che ieri era intollerabile, non è detto che debba esserlo anche oggi.

 

2, 2. Cosi formulata, la risposta nella sua semplicità sicuramente non ci lascia soddisfatti. In fondo, la nostra riflessione non ha ancora affrontato seriamente il problema decisivo: quali devono essere i limiti invalicabili della tolleranza? È il problema della verità-bontà (etica) della tolleranza. Ed è in questo punto che ora vorrei brevemente soffermarmi, proponendo una duplice riflessione.

 

“La materia del contendere” (speculativo, si intende) non è l’affermazione se una persona può essere costretta colla forza (non solo in senso fisico) ad assentire a una verità, soprattutto etica e religiosa. L’intrinseca illiceità di una tale costrizione è fuori discussione. Il problema è di sapere se questa affermazione è teoreticamente giustificata e/o praticamente assicurata, solo se fondata sulla tesi centrale del liberalismo teoretico. Cioè: si può sostenere teoreticamente quell’affermazione e praticarla, senza negare l’esistenza di verità assolute sull’uomo, senza negare la possibilità di conoscere queste verità, senza negare che la suddetta conoscenza è d’importanza basilare per il destino dell’uomo.

Ora, la nostra convinzione è che non solo il “liberalismo pratico” può essere affermato e praticato, pur negando la verità del “liberalismo teorico”, ma che solamente la negazione di questo mette al sicuro l’affermazione teorica e pratica di quello.

Dunque, in primo luogo: non esiste contraddizione. Infatti, l’affermazione dell’esistenza di verità assolute, conoscibili dall’intelletto umano (e più precisamente di un ordine morale assoluto e intramontabile) e l’assenso assolutamente certo a una verità Rivelata, ritenuta esclusivamente vera, non comporta alcuna mancanza di rispetto verso la persona errante. Il rispetto, infatti, che è dovuto alla persona, non è dovuto in ragione di ciò che la persona pensa. Semplicemente, è dovuto al suo essere persona.

In secondo luogo: non solo non esiste contraddizione, ma solo l’illiberalismo teoretico assicura il liberalismo pratico. La riduzione dell’essere personale alla coscienza del suo essere, nell’ambito di cui ci stiamo occupando, ha portato divisione, alla rottura del legame che univa l’etica alla politica. I fatti dimostrano che questa divisione e rottura ha portato alle più grandi violazioni della dignità umana che la storia umana, forse, ha conosciuto. E non è per caso che ciò è accaduto: se, infatti, non si dà essere umano, non si vede perché non tutto possa essere deciso nei confronti dell’uomo.