LA SFIDA EDUCATIVA
Corso insegnanti scuole cattoliche
Ferrara 7 settembre 1998
Desidero presentarvi l’atto educativo come una vera e propria
«sfida». Sfida in un duplice significato. E’ la cultura oggi
dominante (sarò più preciso dopo) che rendendo impossibile
l’educazione perché la rende impensabile, «sfida» i
grandi soggetti educativi (le fondamentali “agenzie educative”) a
dimostrare, per così dire, se possono ancora educare. Ma sono anche
i grandi soggetti educativi, le fondamentali “agenzie educative” che «sfidano»
quella cultura, proponendosi come capaci di educare la persona umana: offrendo
una vera possibilità educativa.
Questo approccio al problema indica già chiaramente i
passi che faremo nel nostro cammino riflessivo. Dapprima cercheremo di
capire perché la cultura oggi dominante ha reso impossibile, perché
impensabile, l’attività educativa: e sarà questo il primo
punto della mia riflessione. Potremmo chiamarla la diagnosi della situazione.
Poi cercheremo di capire perché è possibile, cioè
ragionevole e praticabile una vera proposta educativa. Potremmo chiamarla
la terapia della situazione. Infine, nel terzo punto, vorrei mostrarvi
come una vera proposta educativa sia massimamente ragionevole e praticabile
in una scuola cattolica, in una scuola della Chiesa.
1. Diagnosi della situazione.
Vorrei partire da una constatazione, sulla quale credo che tutti consentiamo.
“Mai come oggi l’ambiente, inteso come clima mentale e modo di vita, ha
avuto a disposizione strumenti di così dispotica invasione delle
coscienze. Oggi più che mai l’educatore, o il diseducatore sovrano
è l’ambiente con tutte le sue forme espressive” (L. Giussani, Porta
la speranza. Primi scritti, ed. Marietti 1820, Genova 1998, pag. 16). Penso
che l’ambiente, così inteso, oggi stia rendendo impraticabile l’atto
educativo, poiché lo ha reso impensabile.
Prima di procedere alla dimostrazione di questa affermazione, mi vedo
costretto a premettere una, per così dire, definizione di «atto
educativo»: ciò che io intendo con esso. Brevemente, poiché
il secondo e terzo punto verteranno precisamente su questo.
Educare significa “introdurre una persona nella realtà” (cfr.
L.A. Jungmann, Christus als Mittelpunkt der religiöser Erziehung,
ed. Herder, Freiburg i. B. 1939, pag. 20). Non si introduce una persona
nella realtà, se non la si introduce nel significato della realtà.
Significato qui denota la risposta alle due domande fondamentali che nascono
nella persona dal semplice “contatto” colla realtà (apprehensio
entis: S. Tommaso): che cosa è ciò che è (domanda
sulla verità della realtà)? che valore ha ciò che
è (domanda sulla bontà della realtà)? Una persona
è introdotta nella realtà quando conosce la verità
e il valore della realtà medesima: quando ne sa dare un’interpretazione
sensata. Quando ha trovato la propria “casa nel mondo interpretato” (R.M.
Rilke).
Se questo è l’atto educativo, a quali condizioni esso è
pensabile? Quando cioè è ragionevole pensare che educare
significhi introdurre una persona nella realtà? solo se si pensa
che possa esistere un rapporto dell’uomo colla realtà: un rapporto
istituito dalla nostra intelligenza e dal nostro desiderio ragionevole.
Un rapporto reso possibile e dalla costitutiva apertura della persona alla
realtà e dalla originaria intelligibilità e bontà
della realtà. Solo se questo è il rapporto originario fra
persona e realtà, è pensabile, e quindi praticabile, un agire
educativo inteso come «introduzione nella realtà».
Ora, la cultura attuale (la cosiddetta post-modernità) è
dominata dalla negazione di quel rapporto originario: non esiste una realtà
da interpretare. Esistono solo delle interpretazioni della realtà,
sulle quali è impossibile pronunciare un giudizio veritativo, dal
momento che esse non si riferiscono a nessun significato obiettivo. Siamo
chiusi dentro al reticolato delle nostre interpretazioni del reale, senza
nessuna via di uscita verso il reale medesimo.
Vorrei che non vi lasciaste impressionare dall’apparente “astrattezza”
di questo discorso. Al contrario: è esattamente su questo punto
che ci viene lanciata la vera sfida educativa. E quindi nessuna vera opera
educativa è oggi possibile, se non affronta questa sfida e non si
pone come radicale e totale alternativa a quella posizione. Alla posizione
intendo dire che nega che esista un originario rapporto della persona colla
realtà.
Per liberarvi da qualsiasi impressione di astrattezza di un discorso
che poco ha a che fare col vostro lavoro educativo quotidiano, vorrei ora
mostrarvi le implicazioni di quella posizione. Sarà più facile
vedere immediatamente descritto il ritratto spirituale di tanti ragazzi
e giovani.
Prima implicazione. Poiché «non ci sono fatti, ma solo
interpretazioni» (F. Nietzsche), diventa impossibile dare un giudizio
di verità sopra di esse: ciascuna ed il contrario di ciascuna è
ugualmente valida. La realtà è semplicemente questo insieme,
questo gioco di interpretazioni. Cioè: è semplicemente privo
di senso porsi la domanda della verità. Si pensi a che cosa sta
significando tutto questo in ordine alla definizione stessa dell’istituzione
matrimoniale, per fare solo un esempio. Se l’essere-uomo / l’essere-donna
non possiede un senso obiettivo, ma ha quel senso che ciascuno gli attribuisce,
non si vede perché debba chiamarsi matrimonio solo l’unione fra
l’uomo e la donna. In sostanza, la sessualità ha il significato
che tu decidi di attribuirle.
Questa dissoluzione del reale nel gioco senza fine delle interpretazioni
ha avuto un effetto devastante nello spirito: ha estenuato la passione
per l’uso della ragione. Essere persone ragionevoli, fare uso della propria
ragione che cosa significa se non cercare il vero? Se non discernere il
vero dal falso? Se non desiderare di sapere «come stanno le cose»?
La lettura del cap. XL dell’autobiografia di Teresa d’Avila è al
riguardo assai illuminante. Ha ancora senso, vale ancora la pena sobbarcarsi
alla fatica del ragionare, se qualsiasi conclusione ha lo stesso valore
del suo contrario? La difficoltà che ogni educatori oggi incontra
nel «far ragionare» i ragazzi, ha radici assai profonde: è
una malattia mortale dello spirito.
Seconda implicazione. In questo contesto, si smarrisce il significato
della libertà. Ci si priva della sua drammatica e grandiosa consistenza,
poiché la si vive ridotta a mero arbitrio (non intendo dare a questo
termine un significato etico). Arbitrio significa: libertà che si
esaurisce interamente nella scelta fra infinite possibilità aventi
tutte lo stesso valore, dal momento che sono prive di una qualsiasi radicazione
in un senso obiettivo. Poiché l’essere è neutrale di fronte
ad ogni impatto che la libertà ha con esso, una scelta vale l’altra.
E’ certo una libertà “libera dagli affanni della realtà,
ma libera anche dalle sue gioie, libera dalla sua benedizione” (S. Kierkegaard,
Sul concetto di ironia, Milano 1989, pag. 217).
Questa dissoluzione della libertà nella pura scelta, genera
nei nostri ragazzi e giovani un senso di «stanchezza» spirituale:
la tristezza del cuore, la chiamano i Padri del deserto. Ogni educatore
la vede oggi stampata nel volto dei nostri ragazzi e giovani.
Terza implicazione. Viene meno il senso della propria vita come una
storia: il senso del tempo si corrompe. Il tempo che passa non è
più vissuto come occasione (kairós, lo chiama il Nuovo Testamento)
perché tu maturi, cresca nell’essere verso la tua beatificante pienezza,
nella fedeltà ad una scelta che per il suo valore è stata
definitiva. Ha de-finito il tuo volto, la tua esistenza. «Ora – per
sempre»: i due poli della nostra vicenda storica. Il secondo è
tolto e così anche il primo ha perduto ogni serietà. Le convivenze
spesso preferite senza serie ragioni al matrimonio sono un segno di questa
condizione spirituale.
E’ possibile educare in questo contesto? È questa la sfida che
ci viene oggi lanciata. E’ possibile ridare una passione per la verità,
il gusto per la libertà, la gioia della definitività del
dono?
In realtà è stato proposto un progetto educativo alternativo
alla definizione di educazione data sopra. Esso è riassunto dalla
affermazione di G. Vattimo: «vedere se riusciamo a vivere senza nevrosi
in un mondo in cui “Dio è morto”» (in Al di là del
soggetto. Nietzsche Heidegger e l’ermeneutica, ed.
Milano 1981, pag. 18). L’alternativa non poteva essere espressa meglio.
Cerchiamo di coglierne brevemente i contenuti.
E’ l’educazione che non introduce nella realtà, ma che introduce
dentro al gioco senza fine delle contraddittorie interpretazioni della
realtà: dei vari significati decisi liberamente ciascuno. E’ un’educazione
che deve introdurre la persona ad un’esistenza umana vissuta come risposta
a due esigenze di fatto inconciliabili.
Da una parte, un’esistenza umana vissuta da una persona che, sganciata
da ogni appoggio al reale, vuole essere libera nel senso “astratto” del
termine. Si preferisce rimandare il più possibile le decisioni più
serie; si ridicolizza ogni definitività nelle decisioni. Si vanifica
il reale dell’esistenza e quindi della libertà. Essere liberi è
ormai sinonimo di assenza di impegno: “sono libero” vuol dire anche orami
nel linguaggio comune, “non ho impegni”. E’ significativo al riguardo il
modo con cui è stato trattato il problema dell’educazione sessuale:
informare in modo tale che uno possa fare della propria sessualità
ciò che vuole, senza averne danni fisici (AIDS per esempio).
Dall’altra parte, una soggettività come questa, affermata cioè
attraverso la delegittimazione di ogni significato normativo fondato nella
realtà, deve però porsi il problema del raccordo con gli
altri. E’ possibile educare ad una vera comunità umana, partendo
da quell’esperienza di libertà? Ancora una volta, solo ad una comunità
«leggera», non dotata di una reale consistenza. Mi spiego.
Nell’ipotesi educativa di cui stiamo parlando, è impensabile
una comunità umana consistente o nella con-partecipazione agli stessi
valori o perfino nella «comunione delle persone» (= comunità
coniugale). E’ impensabile, perché precisamente è impensabile
l’esistenza di un universo reale di valori; è impensabile il dono
definitivo di sé stesso all’altro. Ed allora educare alla vita in
società che cosa significa? Educare alla tolleranza. Riflettiamo
attentamente su questo codice sociale fondamentale.
Che cosa significa? Quale tipo di rapporto esso connota? Che l’alterità,
la diversità è qualcosa di neutrale: il fatto che esistono
gli altri non ha in se stesso e per se stesso nessun significato. Il nichilismo
tragico (Sartre) riteneva che fosse un fatto assolutamente negativo: “gli
altri sono l’inferno” (Sartre). La S. Scrittura ritiene che è il
fatto eminentemente positivo, poiché “non è bene che l’uomo
sia solo”. Il gaio nichilismo contemporaneo giudica questo fatto semplicemente
privo di ogni significato. L’altro è, e quindi deve essere accettato
nella sua fatticità: ciascuno «tollera» ciascuno. Non
ha senso che io mi chieda e ti chieda se ciò che pensi sia vero
o falso: ogni opinione ed il contrario di ogni opinione ha lo stesso valore.
Non siamo abitati da una struggente passione per la verità. Ogni
opinione deve essere rispettata!
Semplicemente è più utile che ciascuno tolleri ciascuno,
sulla base del principio che la mia libertà non si scontri colla
tua. L’incontro con l’altro non è un’alleanza originaria, ma è
di volta in volta liberamente contrattato. Non è pensabile un rapporto
diverso da quello istituito contrattualmente.
Ho parlato di «società-comunità leggera».
Ora, spero, il senso è chiaro: «leggera» significa esclusivamente
e totalmente fatta e disfatta dal libero gioco delle libertà. Un
rimando ad un’alleanza originaria è escluso.
2. Risposta alla sfida
La necessaria schematicità dell’esposizione non avrà
certo fatto piena giustizia ad un fenomeno culturale assai complesso. Ma
penso di averne però delineato l’essenza in modo corretto.
Stando così le cose, oggi l’educatore è posto dentro
all’alternativa di due proposte educative contrarie: appunto è una
sfida che gli viene fatta, dalla quale non può esimersi. In sostanza
è inevitabile che l’educatore si chieda: è possibile educare
non introducendo alla realtà? o meglio: è ragionevole educare
non introducendo alla realtà? «Non introdurre alla realtà»
ha ormai un significato teoricamente e storicamente preciso. In questo
secondo punto cercherò di rispondere a questa domanda. L’idea centrale
della mia risposta è la seguente: l’unica proposta educativa ragionevole
è quella che consiste nell’introdurre la persona umana nella realtà.
Prima di dimostrare la verità di questa tesi, devo spiegare
che cosa intendo per «ragionevole».
Molto semplicemente intendo corrispondente, con-veniente all’intera
esperienza umana, senza escludere nulla. Quindi, per dire la stessa cosa
in forma negativa, una proposta educativa diversa non cor-risponde, non
con-viene all’esperienza vissuta dalla persona. La persona educata secondo
essa viene smisuratamente impoverita. E’ ciò che ora brevemente
cercherò di farvi vedere.
Già Aristotele notava che ogni vita umana spirituale nasce dallo
stupore, dalla meraviglia. Ed uno dei più grandi Padri della Chiesa,
S. Gregorio di Nissa, scrive: “i concetti creano gli idoli, solo lo stupore
conosce” (La vita di Mosè, PG44,377B). Stupore di che cosa? meraviglia
per che cosa? Della realtà; per la realtà: che ci sia «qualcosa»
e non «niente». Del fatto che io ci sia. Perché il reale
di cui ho esperienza suscita stupore, meraviglia? Perché il mio
stesso esserci suscita stupore, meraviglia? Perché non c’è
nessuna ragione in me stesso per cui io debba esserci: nessuno è
necessario. Una pagina di Pascal esprime stupendamente questo stupore,
meraviglia che diventano quasi paura:
“Quando considero la breve durata della mia vita, assorbita nell’eternità
che precede e che segue il piccolo spazio che occupo e che vedo inabissato
nell’infinita immensità degli spazi che ignoro e che m’ignorano,
mi spavento, e mi stupisco di vedermi qui piuttosto che là, perché
non c’è ragione che sia qui piuttosto che là, adesso piuttosto
che allora. Chi mi ci ha messo? Per comando e per opera di chi mi sono
destinati questo luogo e questo tempo? Memoria hospitis unius diei praetereuntis.”
(Pensieri, 205)
E’ possibile spegnere questa domanda radicale che dimora nel cuore
dell’uomo? È giusto nei confronti dell’uomo estenuarla, censurarla?
O non dobbiamo piuttosto assumerla e iniziare un cammino di risposta?
Essa nutre quello che potremmo chiamare il desiderio fondamentale della
nostra vita: quel desiderio che ci definisce (gli uomini sono desiderio:
Agostino). Lo potremmo chiamare desiderio della realtà, desiderio
di essere . La grande tradizione classica e cristiana lo indicavano con
una parola pressoché scomparsa dal nostro vocabolario: desiderio
di beatitudine (termine ora quasi completamente svuotato nel suo equivoco
«felicità»). Beatitudine è pienezza di essere.
Ma perché quella domanda nutre il desiderio di essere? Perché
nello stesso tempo afferma e la limitatezza del mio esserci e l’illimitatezza
dell’Essere. Ciascuno di noi esiste come un essere limitato in un mondo
limitato, ma la sua ragione è aperta all’illimitato; a tutto l’essere;
ne è prova la conoscenza della sua finitezza e limitatezza: io sono,
ma potrei anche non essere (cfr. H.U. von Balthasar, La mia opera ed epilogo,
ed. Jaca Book, Milano 1993, pag. 87-97). Ciascuno di noi gode di beni limitati,
ma la sua volontà è diretta verso il Bene illimitato; a tutto
il bene; ne è prova quel senso si insoddisfazione che proviamo continuamente.
Pertanto, la “posizione” della persona umana è paradossale: posta
in una condizione ontologica «fragile» (contingente), essa
gusta per così dire quanto è bene l’essere, quell’essere
di cui non è in possesso. Di qui il suo desiderio di realtà,
di beatitudine. Introdurre una persona nella realtà (educarla) significa
guidarla verso la beatitudine.
La contro-proposta educativa di cui ho parlato nel punto precedente
giudica precisamente in-sensato questo desiderio (di realtà), bloccando
la ricerca di una realtà adeguata e corrispondente ad esso. Essa
estingue ogni desiderio verso un “oltre”, ogni ricerca che nasca dalla
nostalgia di pienezza.
Ciò che in questa sfida è in questione, è alla
fine ciò che pensiamo dell’uomo: la misura della stima con cui lo
valutiamo.
3. Cristo «mittel-punkt» dell’educazione
Una proposta educativa che si prenda cura interamente del desiderio
umano di realtà, non può non incontrarsi con Cristo. La proposta
educativa cristiana si definisce precisamente come quella proposta che
pone Cristo come via attraverso la quale noi siamo introdotti nella realtà,
dal momento che Egli è la verità nel quale trova piena intelligibilità
ogni essere, aderendo alla quale possiamo partecipare alla pienezza della
vita cioè alla beatitudine: “beati gli occhi che vedono ciò
che voi vedete…”. Ma procediamo con ordine, sia pure assai brevemente.
Questa è la scuola cattolica.
Perché una pedagogia del desiderio non può non
incontrare Cristo? Poiché solo Cristo è la risposta pienamente
adeguata al desiderio umano di beatitudine!
Ritorniamo per un momento all’analisi della condizione umana.
La sua (dell’uomo) instabilità ontologica può solo risolversi
in tre modi: ha tre possibili vie di uscita. La prima: questa vita non
è la vera vita. Questa realtà non ha nessun senso in se stessa
e pertanto la salvezza è evadere da essa. La seconda: questa è
l’unica vita umana; il desiderio umano va ricondotto dentro alla sua naturale
misura: “spem longam reseces” (Orazio). Se la prima soluzione assume in
pienezza il desiderio umano, non rende giustizia alla nostra realtà;
se la seconda soluzione rende giustizia alla nostra realtà, non
assume l’intera misura del nostro desiderio. E’ possibile vivere la nostra
esperienza umana nella pienezza del nostro desiderio? La domanda equivale
alla seguente: è possibile incontrare nella finitudine di ogni mia
esperienza vera la pienezza del Mistero dell’Essere? La risposta a questa
domanda è il Verbo incarnato: Dio fattosi uomo. Egli, l’Infinito
si è posto nel finito, perché l’uomo potesse vivere la sua
umanità in pienezza infinita.
Da questo fatto nasce la proposta educativa cristiana: la pedagogia
dell’Incarnazione. Essa quindi si caratterizza nel modo seguente.
- E’ una proposta che non rifiuta nessuna esperienza umana: di
ognuna intende darne il significato e mostrarne la consistenza.
- E’ una proposta abitata da una profonda ragionevolezza: “ragionevole
è sottoporre la ragione all’esperienza” (J. Guitton): irragionevole
è sottoporre l’esperienza alla ragione.
- E’ una proposta che mira alla decisone libera per
l’esistenza: libertà come scelta della – di fronte alla verità.
Conclusione
“Nell’uomo vi è un inestinguibile desiderio di infinito.
Nessuna delle risposte che si sono cercate è sufficiente. Solo il
Dio che si è reso finito, per infrangere la nostra finitezza e condurla
nella dimensione della sua infinità, è in grado di venire
incontro alle esigenze del nostro essere” (J. Ratzinger, La fede e la teologia
ai giorni nostri, in Enciclopedia del Cristianesimo, ed. De Agostini, Novara
1997, pag. 30).
La sfida dell’educazione è precisamente questa: condurre
l’uomo dentro la realtà oppure educarlo a vivere nel sogno.
SCHEDA DI SUSSIDIO ALLA RIFLESSIONE IN GRUPPO
Lo scopo della riflessione è di prendere coscienza della reale
condizione in cui si trova oggi l’educatore (a), al fine di operare la
scelta educativa giusta, cioè adeguata alla dignità della
persona (b).
(a) La condizione sembra essere caratterizzata dal fatto che
oggi vengono proposte due contrarie «definizioni di educazione»,
ed ogni educatore non può evitare di prendere posizione per l’una
o per l’altra.
- Nel lavoro di gruppo si può cercare di definire, di
circoscrivere precisamente ciascuna delle due proposte.
- Si può cercare di individuare nella società attuale
i “segni” dell’una piuttosto che dell’altra, per concretizzare ulteriormente
la riflessione.
(b) Il testo della relazione rifiuta la proposta educativa «debole»,
ritenendo adeguata alla dignità della persona quella «forte»;
la proposta educativa cristiana è una proposta educativa forte.
- Riflettere ulteriormente sulle ragioni di questa duplice tesi.
- Chiedersi che cosa significa tutto questo in una scuola cattolica.
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