Riflessione pastorale
Ars, ottobre 1993
Prima di iniziare la mia riflessione, credo sia necessario che noi collochiamo queste considerazioni nel loro giusto luogo. Si tratta cioè di sapere innanzitutto che cosa significa “riflessione pastorale”.
Essa è la riflessione che riguarda la Chiesa come tale nel suo agire, in quanto esso è storicamente situato. È una riflessione pratica da due punti di vista. Quanto al suo oggetto: è l’agire della Chiesa che cerchiamo di capire; quanto al suo scopo: individuare come deve essere questo agire. Si tratta di una riflessione che deve anche fare molta attenzione al contesto storico in cui questa azione si realizza.
Dividerò la mia riflessione in due parti. La prima parte sarà di carattere generale; la seconda parte affronterà problemi particolari.
Prima parte
Il punto di partenza della nostra riflessione generale è il seguente: “La Chiesa deve rendere testimonianza alla Misericordia di Dio rivelata in Cristo nell’intera sua Missione di Messia” (Enciclica Dives in Misericordia, 12). Cioè: la missione fondamentale della Chiesa è quella di testimoniare all’uomo peccatore che la Giustizia di Dio consiste nel perdonare il peccatore, che la Misericordia di Dio consiste nel rendere giusto il peccatore. È il Vangelo della salvezza il contenuto della missione della Chiesa. Questa, in fondo, non è chiamata a dire altro, all’infuori di questo: “tutti hanno peccato e sono privi della Gloria di Dio, ma sono giustificati gratuitamente per la sua grazia, in virtù della redenzione realizzata da Cristo Gesù” (Rom. 3, 23).
Non voglio ora mettere in risalto se non due dimensioni, due momenti di questa testimonianza.
Il primo e più importante è l’esigenza fondamentale per la Chiesa di professare e proclamare la conversione. L’atteggiamento della conversione è il corrispondente umano adeguato alla rivelazione della Misericordia di Dio: come il concavo e il convesso. Chi, infatti, crede nella Misericordia? Non colui che ritiene di non averne bisogno perché si considera giusto; non colui che ritiene di non poterne godere perché si considera imperdonabile; ma colui che, riconoscendo e detestando il peccato, ritorna a Dio, nella certezza che può fare affidamento sulla sua inesauribile volontà di “perdonare settanta volte sette”.
In questi giorni abbiamo visto che c’è un modo di pensare la gradualità, dimensione propria della vita umana e cristiana, che è sbagliato. Forse ora siamo in grado di scoprire le radici profonde di questo errore: non credere fino al limite dell’impossibile alla Misericordia di Dio. Anche il figlio prodigo elaborò una sua “legge della gradualità” che era anche una “gradualità della legge“. Egli è convinto, è certo che il Padre non avrà più, non potrà più avere sentimenti di paternità verso di lui: la dignità figliale è irrimediabilmente perduta. Si deve allora ritenere condannato a rimanere sempre fuori casa? No: c’è una via di mezzo; ci sono appunto dei gradi. Fra l’essere figlio nella casa e mandriani di porci fuori casa c’è la via di mezzo di essere, in casa, servi. C’è qualcosa di terribile in questa teologia della gradualità, elaborata dal figlio prodigo! Essa nasce dalla considerazione spietata del male commesso e da una visione “meschina” della paternità. Questa non può spingersi fino al punto di... Cioè non può essere infinita. Ad una misericordia finita corrispondono gradi diversi nel perdono.
Vogliamo essere più chiari? Chi ha divorziato e si è risposato, ha capito che ha sbagliato. Ma egli sa che Dio in Cristo è ricco di misericordia e allora vuole ritornare nella casa del Padre, nella Chiesa. Ma, egli dice, non è possibile per me vivere nella santità. C’è una via di mezzo nella casa di Dio fra il vivere “luxuriose” una convivenza puramente sessuale e la santità piena del matrimonio cristiano. È il grado intermedio del matrimonio del divorziato risposato. C’è qualcosa di tragico in questa teoria della gradualità. La Chiesa che l’accettasse sarebbe la Chiesa che non rende più testimonianza, che non proclamerebbe più la Misericordia infinita di Dio verso tutti. Sarebbe la Chiesa che da una parte dice: Dio che è ricco di Misericordia, ha donato all’uomo e alla donna il cuore nuovo perché vivano nella pienezza della santità il loro matrimonio. Ma dall’altra dice: ci sono situazioni nelle quali all’uomo e alla donna è impossibile vivere in pienezza la santità del loro matrimonio, cioè ci sono uomini e donne alle quali Dio non ha perdonato il loro peccato, non ha fatto quel dono di pienezza. La possibilità dell’uomo, infatti, ha la stessa misura della Misericordia di Dio.
Ecco, dunque, che la Chiesa non proclamerebbe la Misericordia di Dio se non proclamasse la conversione. L’autentica conoscenza del Dio della Misericordia è una costante e inesauribile fonte di conversione, come stabile disposizione interiore, come stato d’animo permanente. Poiché la Chiesa che ha visto il Padre nella Misericordia del Cuore trafitto, attraverso il costato aperto, sa che l’uomo, posto in questa visione, non può vivere altrimenti che convertendosi continuamente a Lui. Questa è l’anima della storicità dell’esistenza cristiana.
Il secondo momento della testimonianza della Chiesa alla Misericordia di Dio è costituito dal suo usare misericordia verso il peccatore. Essa cioè è chiamata a inserire nella sua vita la Misericordia di Dio, a configurare il suo volto sulla rivelazione di questa misericordia. Ed è questo un compito nella cui realizzazione la Chiesa ha avvertito particolari difficoltà. San Tommaso, infatti, insegna che il più grande attributo divino è la sua Misericordia: il più divino. Ora si tratta di far abitare nella Chiesa ciò che di più divino dimora nell’Essere divino.
Ma per non essere troppo generici, credo che ci sia un fatto in cui queste difficoltà emergono con particolare evidenza, poiché si tratta del momento ecclesiale in cui alla Chiesa e chiesto in modo eminente di usare misericordia: la celebrazione del Sacramento della Penitenza. Nessun sacramento ha avuto una storia così complessa, ha subìto cambiamenti più profondi. Forse la ragione più profonda è questa: come “usare misericordia” al modo con cui Dio usa misericordia? Esistono un duplice ordine di quanto meno apparenti contraddizioni o meglio di polarizzazioni o tensioni. Prima tensione: conflitto fra misericordia e severità; seconda tensione: antinomia tra l’esteriorità della riconciliazione ecclesiale e l’interiorità del perdono divino.
Un’osservazione, prima di tentare un’analisi di questa duplice tensione. Stiamo affrontando uno dei problemi pastorali più difficili. Uomini santi, che vivevano un’esperienza molto profonda del mistero di Dio, hanno incontrato serie difficoltà nel trovare la via giusta. Basti citare al riguardo proprio il curato d’Ars. Se, allora, uomini tanto sperimentati nelle cose di Dio hanno avvertito tanta difficoltà, potremmo illuderci di trovare noi qualche formula che risolva tutti i problemi? Chi pensa questo, non sa neppure che cosa è il problema.
La prima tensione. Partendo da una considerazione puramente razionale, possiamo dire che questa tensione è presente in ogni società umana. La severità è l’attitudine di chi intende in primo luogo salvaguardare il bene comune, nel caso precisamente in cui l’uso che un singolo fa della propria libertà lo metta gravemente in pericolo. La clemenza, la misericordia è l’attitudine di chi intende in primo luogo salvaguardare il bene del singolo, la sua correzione. Si noti bene che si tratta di “tensione” non di “opposizione”: il bene comune non contraddice il bene del singolo e viceversa. Ma non è mai escluso, tuttavia, che ci possa essere tensione, aggravata spesso dall’aggressività e dall’egoismo di chi esercita l’autorità o dall’individualismo del singolo. Uno dei problemi più difficili che ogni codice penale deve risolvere è quello di decidere se concepire la pena principalmente come atto che vendica o come atto che corregge il colpevole.
Donde nasce questa “tensione” e perché, in un certo senso, è ineliminabile? Dal fatto che sia la severità sia la misericordia sono eticamente giustificate.
La misericordia si giustifica per il fatto che la singola persona non si riduce mai a essere solo membro di una società: “ratio partis contrariatur rationi personae”, scrive san Tommaso.
La severità si giustifica per il fatto che chi esercita l’autorità ha il dovere e quindi il diritto di difendere quel bene in vista del quale l’autorità esiste. Non punire chi fa il male sarebbe per l’autorità disinteressarsi di quel bene che essa deve promuovere.
Ciò che abbiamo detto finora è vero di ogni società umana, quindi anche della Chiesa in quanto società umana. Ma essa non è né solamente né principalmente questo. E allora la tensione di cui si parlava prima acquista nella Chiesa una intensità unica.
Il bene della Chiesa è la Gloria di Dio, la santificazione del suo nome. Ne deriva che il male contro cui la Chiesa deve reagire è il male di Dio, cioè il peccato. La Chiesa non si pone in relazione col peccatore a nome proprio, con autorità propria, ma in nome di Dio, colle esigenze della sua Santità e della sua Gloria.
Quali sono queste esigenze? Rispetto all’uomo peccatore non ne esiste che una sola: la misericordia. Essa, come dicevo poc’anzi, deve solo annunciare il perdono di Dio. L’unica condizione è credere e farsi battezzare: chi rifiuta di credere e rifiuta il battesimo non appartiene alla Chiesa e i peccati di questi non la riguardano. La cosa però diviene drammatica per i peccati di chi è già stato battezzato. Chi pecca non si oppone solo a Dio: si oppone alla Chiesa. Se essa ne restasse indifferente, ne diventerebbe complice. Ed è esattamente qui che nasce la tensione.
Da una parte, una Chiesa che annuncia il perdono del peccatore o glielo dona in nome di Cristo, senza nessuna pena imposta, sarebbe una Chiesa infedele al Signore: rischierebbe di accettare il peccato, di divenirne partecipe; scandalizzerebbe i fedeli, relativizzando le esigenze del Vangelo. Ma dall’altra parte, la severità della Chiesa non può essere tale da respingere il peccatore nella disperazione. E allora, che cosa ha fatto la Chiesa?
• Ha sempre rifiutato come eretica la posizione di chi negava che la Chiesa potesse perdonare i peccati dopo il battesimo (Tertulliano montanista, Novaziano). Ha escluso, cioè, il rigorismo sotto ogni forma.
• Ma la Chiesa si è rifiutata di concedere il perdono senza condizioni ed ha mantenuto per secoli le esigenze della severità divina sottoponendo il peccatore a dure, lunghe e umilianti opere penitenziali. Quale è stato il risultato? A lungo andare, questa prassi penitenziale diventa impraticabile per la maggior parte dei fedeli. Di fatto, è andata progressivamente scomparendo.
• Ora di fatto, il perdono viene concesso senza alcuna soddisfazione onerosa, nel sacramento della Penitenza, iterabile sempre, ma non senza, è ovvio, esigenza di conversione e cambiamento di vita che può essere molto oneroso.
È da chiedersi: è questa la soluzione ideale della tensione di cui stiamo parlando? È ancora salvaguardata l’esigenza di quel cammino di conversione che è insita in ogni esistenza cristiana? Ritorneremo più avanti su queste domande.
La seconda tensione. Donde nasce questa tensione che dal punto di vista dogmatico e teologico costituisce il problema centrale?
Da una parte la parola di Gesù è chiara, esplicita: “Saranno rimessi i peccati a chi li rimetterete” (bv. 20, 33): la Chiesa ha ricevuto la “potestas remittendi”. Ma dall’altra è ugualmente certo che il perdono è una grazia interiore, che la conversione è un atto di libertà del tutto interiore, che il dolore (perfetto) è già comunione col Dio sempre disposto ad accogliere chi ritorna. Come si armonizzano i due dati?
Se si insiste eccessivamente sul secondo, il compito della Chiesa si riduce alla supplica per il peccatore e a reintegrare nella comunione ecclesiale colui che Dio ha già perdonato.
Tuttavia una tale insistenza porta a esiti teologicamente insostenibili. Come può la Chiesa sapere che Dio ha perdonato il peccatore? La Chiesa non riconcilia il peccatore perché sa che Dio lo ha perdonato, ma sa che Dio lo perdona perché, e nel momento in cui, Essa lo riconcilia. Cioè: la riconciliazione ecclesiale è un sacramento. Il sacramento della Misericordia divina che perdona; cioè: la riconciliazione della Chiesa è segno e causa del perdono divino.
Tuttavia, ancora, una tale affermazione, che è di fede definita, deve essere mantenuta nella sinfonia della fede, altrimenti c’è il rischio della tensione non bene risolta e l’efficacia del sacramento può mettere in secondo piano l’esigenza degli atti del pentimento, della sua conversione interiore. Come vedete, siamo arrivati ancora alla stessa conclusione: il problema di un vero cammino di conversione perché avvenga il miracolo stupendo del perdono divino. Questo è il problema pastorale della gradualità.
Se guardiamo brevemente alla riflessione morale nella Chiesa, noi vediamo che essa (la riflessione morale) ha elaborato alcuni orientamenti per la soluzione di questi problemi. Mi riferisco alla teologia morale post-tridentina. Essa parte, se non vado errato, da alcuni presupposti.
Il primo: il cristiano ha a che fare, non può non avere a che fare con un mondo nel quale domina il male.
Il secondo: è possibile vivere pienamente nel mondo senza tradire la propria professione cristiana. Come? Vengono elaborati alcuni concetti etici che acquistano un’importanza che prima non avevano. Ne accenno ad alcuni che sono i più importanti: distinzione fra cooperazione formale e cooperazione materiale al male; distinzione fra volontario diretto e volontario indiretto e relativo principio del duplice effetto. E ora, l’avvento massiccio nella teologia cattolica delle teorie proporzionaliste.
Se riflettiamo attentamente, vediamo che in questo sistema teologico e pastorale si ritiene che il problema centrale sia il seguente: in che misura è lecito partecipare a strutture sociali di peccato, quando si fa con fini in se stessi legittimi (per es. esercitare la propria professione), ma che per sé sono alieni dalla trasformazione delle stesse strutture? La misura era precisamente data da quelle distinzioni.
Contro questo sistema, Pascal, come sappiamo, ha avuto buon gioco. Esso, infatti, porta in sé il rischio continuo di non convertirsi mai alla pienezza evangelica: di rifiutare la legge della gradualità. L’errore di Pascal fu l’estremo opposto: la proposta di un cristianesimo elitario fuori dal mondo.
In realtà, il problema principale è un altro: come è lecito intervenire su strutture sociali di peccato, al fine di cambiarle?
Fermiamoci un momento nella nostra riflessione pastorale, per fare il punto. Che cosa abbiamo detto?
• La missione della Chiesa è annunciare la Misericordia di Dio che in Cristo perdona il peccatore, usando misericordia.
• La realizzazione della missione della Chiesa pone una problematica interna alla Chiesa e una problematica insita nel suo rapporto col mondo. La prima è costituita da una duplice tensione, quella fra severità e misericordia e quella fra interiorità del perdono e esteriorità della riconciliazione ecclesiale. La seconda e costituita dal fatto che la Chiesa e il singolo fedele devono vivere in un mondo dominato dal peccato.
• La prima problematica ha sempre ricevuto una risposta diciamo così “intuibile”, la seconda ha ricevuto una ben precisa risposta: si può, si deve cooperare a certe condizioni, col male.
Abbiamo così posto la base di ogni pastorale della Chiesa e abbiamo visto i due nodi problematici centrali che la pastorale della Chiesa deve risolvere.
Seconda parte
Vorrei ora, molto sommessamente, cum timore et tremore, fare alcune proposte di soluzione.
Al n.9 di Familiaris consortio si dà un insegnamento di straordinaria importanza.
Sulla base di questo insegnamento, direi quanto segue.
1. Prima di tutto si deve avere una conoscenza vera della natura morale della situazione in cui il cristiano vive. Si noti bene che l’attività della ragione non è, in senso stretto, né misericordiosa né severa. Essa è semplicemente vera o falsa. “Non lasciatevi ingannare” ci avverte san Paolo. Il matrimonio di due battezzati una volta consumato è assolutamente indissolubile: nessuna autorità umana lo può sciogliere. Appoggiare una legge che permette l’aborto, significa appoggiare una legge che viola il diritto che è solo di Dio e così via. Nessuno dice che un medico deve essere misericordioso perché, se diagnostica un tumore, debba dire che è un’influenza. Voler essere misericordiosi, insegnando che si possono fare eccezioni a leggi morali che non ne ammettono nessuna, equivale a confondere misericordia con l’inganno del prossimo, a rendere più difficile la conversione del peccatore.
2. La conseguenza è che il fedele deve avere il serio proposito di lasciare completamente il peccato suo personale. In questo preciso aspetto del cammino di conversione, non si dà gradualità nel senso che possa coesistere nella stessa persona la comunione con Dio e il permanere nello stato di peccato.
3. Esistono tuttavia situazioni nelle quali la responsabilità personale si intreccia profondamente colla situazione sociale. Non sembra che si possa parlare di una vera conversione se non si assume l’impegno di trasformare gradualmente queste situazioni.
E qui si rendono necessarie alcune distinzioni fondamentali.
a) Esistono atti che in sé e per sé sono ingiusti: nessuna gradualità può giustificare la posizione di questi atti.
b) Esistono atti che pur non essendo in sé e per sé ingiusti, di fatto confermano quelle situazioni. Si deve avere l’intenzione di rimuovere quelle situazioni, pur potendo, per ragioni proporzionalmente gravi, compiere l’atto. In questo senso esiste una vera e propria gradualità.
4. Se ora volgiamo la nostra attenzione al pastore che incontra il battezzato che si converte, mi sembra che si possa dire quanto segue.
a) Esiste una severità che è esercizio di misericordia; non necessariamente la severità è rigorismo. Non avvertire per esempio il penitente che deve lasciare occasioni prossime di peccato è mancanza di misericordia.
b) Il proposito è un atto della volontà, non è un giudizio della ragione. Cioè: il proposito di non peccare non è la certezza di non peccare.
c) Si deve attentamente guidare il penitente (dottrina sulle occasioni; recidività nel male...) e sostenerlo nel suo cammino di conversione.
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