«La ricerca biomedica e l’uomo»
Relazione al congresso del Club “Filosofia della Medicina”
marzo 1985
Vorrei subito chiarire ciò che mi propongo con la presente relazione. Quando parlo di “ricerca biomedica”, la intendo nel suo significato più semplice e più immediato: la biologia come l’insieme organico di conoscenze, scientificamente raggiunte, nell’ambito della vita; la medicina come l’insieme delle conoscenze messe in atto per la prevenzione, la conservazione e/o l’acquisizione della salute; la ricerca come la messa in atto del metodo scientifico al fine di acquisire nuove conoscenze o verificare quelle già acquisite. È ovvio che esiste un rapporto, in un certo senso, di subalternità della medicina alla biologia e, pertanto, è possibile parlare di “ricerca bio-medica”, quando la ricerca biologica non è fine a se stessa, ma è ulteriormente finalizzata al fine proprio della medicina.
Sono molti i rapporti che possono istituirsi fra la ricerca biomedica, così intesa, e l’uomo. Rapporti dovuti al fatto che questo tipo di ricerca è finalizzata alla salute della persona umana; oppure dovuti al fatto che la ricerca ha come suo oggetto la persona umana stessa; oppure dovuti al fatto, lapalissiano, che chi conduce la ricerca sono persone umane. E questa triplice classe di rapporti — l’uomo, fine della ricerca; l’uomo, oggetto della ricerca; l’uomo, soggetto della ricerca — costituiva il quadro teoretico, lo schema e l’indice generale, per così dire, della riflessione etica classica sulla ricerca bio-medica. Essa, pertanto, si suddivideva in tre grandi capitoli: l’etica del ricercatore in quanto ricercatore; l’etica che regola l’applicazione dei canoni della ricerca scientifica quando questa si spostava dall’oggetto animale all’oggetto uomo; l’etica che regola l’applicazione dei risultati della ricerca scientifica in vista della salute umana.
Questo impianto deontologico della ricerca bio-medica partiva da e si fondava su un presupposto pacificamente ammesso nella cultura occidentale, data la radicazione di essa nella cultura greco-latina e nel messaggio cristiano. Il presupposto era che l’uomo, l’humanitas di ogni uomo è qualcosa di assolutamente intangibile, di “sacro” in senso stretto: esistono, dunque, dei limiti che non solo non dovevano essere oltrepassati, ma non potevano. In questo senso, il rispetto dovuto all’humanum come tale era il principio fondamentale e supremamente regolativo, non bisognoso di alcuna difesa dimostrativa, perché dotato di una intrinseca auto-evidenza.
La situazione attuale è oggi radicalmente mutata. Questa certezza si è di fatto oscurata, quel “sacrum” è stato violato ed in nome dell’uomo, in una confusione teoretica che ricorda, non troppo lontanamente, quella che vide lo scontro fra la sofistica e Socrate e rende particolarmente attuale lo scambio di battute fra Cristo e Pilato: “Sono venuto a rendere testimonianza alla verità”.“Che cosa è la verità?”. La conseguenza è che il problema dei rapporti fra ricerca biomedica e uomo deve essere ripensato non primariamente come problema etico, ma — precisamente — come problema antropologico.
Colla mia riflessione vorrei tentare precisamente questa ripresa radicalmente antropologica del tema, procedendo in questo modo. In primo luogo, tenterò una diagnosi dell’attuale situazione della ricerca bio-medica dal punto di vista antropologico; in secondo luogo, tenterò di indicare alcuni orientamenti per uscire da questa situazione.
1. La diagnosi della situazione
Vorrei cominciare la mia diagnosi della situazione, attraverso la rilevazione di alcuni fatti sintomatici, per passare poi ad una interpretazione dei medesimi, giungendo così, se possibile, ad un giudizio finale e complessivo.
I sintomi, dunque, in primo luogo. Il primo ed il più grave di essi mi sembra essere la massiccia introduzione negli ordinamenti civili della legalizzazione dell’aborto: una legalizzazione che, ove più ove meno, maschera una sua completa liberalizzazione.
Il fatto è di una chiarezza sintomatica, dal mio punto di vista, accecante. Che cosa esso significa? Di che cosa, precisamente, è “sintomo”? Esso significa, lo si voglia o non, il rifiuto totale della sacralità della persona. Si noti che qui noi prendiamo il termine “sacralità” nella sua più rigorosa e pura accezione: la qualità inerente alla persona umana, come tale, in forza della quale essa merita un tale rispetto assoluto ed incondizionato, da non potersi mai — per nessuna ragione — essere usata come mezzo. Il principio secondo il quale, come già aveva intuito la cultura giuridica romana, “persona est sui juris”, la persona non è a disposizione di nessuno all’infuori di se stessa, è stato semplicemente demolito: poiché o lo si accetta in ogni caso, cioè per ogni persona, o non lo si accetta per nessuna.
Una tale tragedia — poiché di tragedia qui si tratta — non poteva non comportare una ri-definizione dell’humanum come tale, una risposta radicalmente nuova alla domanda di sempre: ma l’uomo chi è? La demolizione del valore assoluto ed incondizionato di ogni e singola persona umana ha comportato, né poteva essere diversamente, l’affermazione che quella persona umana di cui parlano le legislazioni abortiste non è, in realtà, una persona umana, ma qualcosa d’altro. La negazione del carattere di dignità personale dell’embrione-feto umano si congiungeva così, in maniera singolare, con una tesi centrale nell’antropologia filosofica moderna, ben precedente alle leggi sull’aborto. Mentre la biologia giungeva alla scoperta di un fatto indiscutibile, l’individualità dell’embrione, questo fatto, da sé solo, non fu più giudicato sufficiente a condurre alla conclusione: dunque, anch’egli è degno di un rispetto assoluto ed incondizionato. Occorre altro per giungere a questa conclusione. E questo “altro“, scartato l’unico dato obiettivo, non poteva essere posto e deciso da altri uomini. E così, è l’uomo che decide chi è l’uomo, poiché è l’uomo che decide quando si diventa uomini. E qui, ci si ritrova pienamente in quella tesi centrale di cui poc’anzi parlavo. La tesi secondo la quale l’uomo è ciò che pensa di essere: l’essere umano s’identifica con la coscienza che l’uomo ha di se stesso. Il progetto cartesiano, scientifico e filosofico nello stesso tempo, della verità delle cose alla coscienza di chi le conosce con chiarezza e distinzione, conosce la sua più intera applicazione. E poiché, d’altra parte, nessun uomo è un’isola, alla fine è il consenso maggioritario che decide chi è l’uomo, che decide quando si diventa uomini.
Posso supporre che il semplice richiamo di questa ri-definizione di uomo, che, fra l’altro, ha dovuto chiudere semplicemente gli occhi, per poter poi dire che un dato di fatto non esiste, il dato di fatto biologico dell’individualità genetica dell’embrione, susciti in voi un certo malessere. Siete, infatti, educati, come scienziati, a guardare semplicemente “come stanno le cose”. Ed in realtà, i fatti sono testardi, diceva David Hume. Nella loro testardaggine continuano a contestare ogni teoria che non ne tenga conto. Infatti, la teoria che riduce l’essere-uomo alla coscienza che l’uomo ha di sé, la teoria, cioè, secondo la quale la verità non trascende il pensiero umano, si scontra con due semplici fatti: il fatto che nessuno di noi ha deciso di venire all’esistenza; il fatto che la morte non può essere evitata. Essi sono dotati di una singolare testardaggine, poiché sono sempre lì a dirci semplicemente che l’uomo non dipende da se stesso, non ha in se stesso la ragione del suo proprio esserci, è — per usare un termine della metafisica classica — un essere contingente.
Qui si collocano due altri sintomi di grande importanza per la nostra diagnosi: il tentativo di produrre l’uomo da parte dell’uomo; il tentativo di dominare la morte. Al primo corrisponde la nobilitazione della fecondazione in vitro; al secondo il riaccendersi del dibattito sull’eutanasia. Vorrei fermarmi ora un momento su questi altri due fatti sintomatici.
Quanto al primo, ho, però, il dovere di fare una premessa, a scanso di equivoci. Non faccio un processo alle intenzioni, non parlo del vissuto psicologico di chi chiede la e si sottopone alla FIV. La mia prospettiva è molto diversa: quella di cogliere la natura ed il significato oggettivi di questo modo di dare origine alla vita umana: ne sia o non consapevole chi in qualsiasi modo ne è coinvolto.
Che questo modo di porre le condizioni per il sorgere di una nuova vita umana, quella della FIV, sia essenzialmente diverso da quello finora conosciuto, mi sembra fuori discussione. La diversità essenziale consiste precisamente nel fatto che la persona umana non è generata, ma è prodotta, è fatta. I segni che confermano questo mutamento sostanziale sono molteplici, di cui il principale è la inter-scambiabilità di ogni persona che nel processo FIV è in un qualche modo coinvolta: la donna che dona l’ovulo può essere altra da quella che lo riceve, fecondato, in utero; l’uomo che dà lo sperma, diverso dall’uomo che sarà padre legittimo e così via. Trattandosi, infatti, di un processo “produttivo”, ciò che deve in primo luogo essere assicurata è l’efficacità, la sicurezza del raggiungimento del risultato voluto: e questo criterio prescinde per sé, completamente, dalla irripetibile singolarità della persona coinvolta. Non la persona in quanto persona, ma la persona in quanto dotata di abilità tecnica.
Che l’uomo sia non generato, ma prodotto e che, pertanto, il processo sia comandato dal criterio della efficacità, del risultato ad ogni costo, sta a significare la volontà dell’uomo di non considerare più la venuta all’esistenza di una persona come un mistero da accogliere, ma come un problema da risolvere. Il mutato atteggiamento di fronte all’evento della procreazione umana è, in fondo, il segno, a sua volta, della volontà dell’uomo di porsi, col suo fare, alle radici stesse dell’esistenza: di divenirne il depositario ultimo ed esclusivo. L’uomo deve produrre l’uomo e non esiste una verità dell’uomo che trascenda l’uomo stesso: fra le due posizioni si dà una correlazione reciproca.
Il fatto del riaprirsi contemporaneo del dibattito sull’eutanasia, non meraviglia affatto. La logica ha una sua forza necessitante. Essa è il sintomo, in fondo, della stessa situazione spirituale: l’inizio come la fine della vita, i due fatti più testardi che esistono, deve essere affidato radicalmente all’uomo. “Extrema tanguntur”: un certo tipo di accanimento terapeutico è l’altra faccia della stessa medaglia. Non è necessario che mi fermi ulteriormente sull’interpretazione di questo sintomo, tanto la sua lettura è facile e scorrevole.
All’inizio di questa prima parte della mia relazione ho detto che non mi sarei limitato ad individuare alcuni fatti sintomatici ed a tentarne, contestualmente, una sintetica interpretazione. Vorrei, ora, andare più in profondità. Vorrei dare una interpretazione unitaria dei fatti sintomatici richiamati, una interpretazione che presume di andare al fondo delle cose.
A me sembra che l’interpretazione fatta dei tre sintomi suddetti conduca alla fine ad una conclusione unitaria: l’uomo attribuisce a se stesso il potere di decidere chi è l’uomo, attribuendosi il potere di decidere chi è uomo e chi non e quando lo si diventa, il potere di produrre l’uomo, il potere di porre fine all’uomo. In una parola: l’uomo è ad esclusiva disposizione dell’uomo. Se, da una parte, questo radicale ed esclusivo affidamento dell’uomo all’uomo comporta la negazione di una oggettività dell’umano, dall’altra, e di conseguenza, comporta la decisione di negare questa oggettività, a causa delle tante volte richiamata testardaggine dei fatti. In una parola: si nega che esista una oggettiva realtà-verità dell’uomo perché si decide che così sia. In realtà la riduzione dell’uomo alla coscienza che l’uomo ha di sé è un fatto originariamente voluto. A ragione, dunque, Heidegger scrisse che la formula cartesiana “cogito, ergo sum” equivale, in realtà, a “volo, ergo sum”. È del tutto accidentale che il soggetto qui sia un singolo o una maggioranza (magari parlamentare).
La ricerca bio-medica può divenire, diviene anche ormai di fatto spesso, uno dei mezzi — penso sempre più, il mezzo più importante — per realizzare questo progetto.
Ed allora, fra l’uomo e la ricerca bio-medica possono ormai istituirsi due tipi di rapporti, totalmente diversi fra loro: o la ricerca bio-medica diviene il mezzo attraverso il quale l’uomo realizza il progetto di affidare l’uomo totalmente ed esclusivamente all’uomo o la ricerca bio-medica diviene uno dei momenti essenziali di una cultura della verità sull’uomo.
“Non datur tertium?” Io penso di no, poiché l’idea di una ricerca bio-medica che prescinda totalmente, oggi, dalla domanda antropologica, è mera astrazione. Basti solamente pensare la dipendenza dal finanziamento pubblico. Ed, allora, riflettiamo un momento su questi due modi, fra loro inconciliabili, di istituire rapporti fra ricerca bio-medica ed uomo.
Il primo modo, come dicevo, si inscrive in un progetto antropologico che non vuole riconoscere l’esistenza di una verità sull’uomo che preceda e quindi trascenda l’uomo stesso. Poiché, alla fine, questo è il nodo di tutta la problematica: esiste o non esiste una verità dell’uomo che sia indipendente, non creata dall’uomo? Nel contesto di una risposta negativa a questa domanda, la ricerca bio-medica è, in fondo, al di là del bene e del male, è a-morale, poiché essa deve solo muoversi in ordine alla realizzazione di un progetto di uomo che l’uomo autonomamente decide. Il baconiano scire est posse trova la sua realizzazione perfetta. Che, in concreto, significa alla fine mettere la ricerca bio-medica al servizio di un potere di alcuni uomini su altri uomini. Dire a questo punto: io faccio il biologo, io faccio il medico e basta! equivale a dire e fare: io non ho un’umanità che sporga sul mio lavoro. Fare esattamente ciò che a parole si nega.
Il secondo modo si inscrive in un progetto antropologico che riconosce l’esistenza di una verità sull’uomo che precede e quindi trascende l’uomo stesso. L’uomo possiede una sua intrinseca verità non creata dalla libertà, dalla sua coscienza. Una verità che la libertà deve riconoscere. La cultura dell’humanitas di ogni uomo consiste nel coltivare questa verità, nel difenderla e promuoverla. La scienza, la ricerca bio-medica costituisce uno dei momenti essenziali di questa cultura della verità.
2. Orientamenti per una soluzione
Come orientarci in questa situazione, al fine di istituire un corretto rapporto fra ricerca bio-medica ed uomo? Nel groviglio di problemi che pone, questa situazione ci pone, mi sembra due interrogativi fondamentali: un interrogativo metafisico ed un interrogativo religioso.
In primo luogo, un interrogativo metafisico. Ho già detto nella parte precedente che la ricerca bio-medica, in rapporto all’uomo, cambia totalmente di segno a seconda che si affermi o che si neghi la trascendenza della verità nei confronti dell’intelligenza umana. Che cosa significa “trascendenza della verità”?
È ovvio che non significa l’incapacità dell’intelligenza umana di conoscere la verità; trascendenza non significa irraggiungibilità.
L’affermazione della trascendenza della verità significa che le nostre conoscenze attingono a una realtà сhe è indipendente dalle nostre conoscenze medesime; la negazione della trascendenza della verità significa, al contrario, che le nostre conoscenze non attingono una realtà indipendente da esse. Se ora noi applichiamo questa semplice definizione di termini alla domanda sull’uomo, su chi è la persona umana, abbiamo la possibilità di due risposte fra loro contraddittorie: l’uomo è semplicemente e totalmente ciò che pensa di essere, l’essere uomini si riduce alla coscienza che l’uomo ha di sé; l’uomo possiede una sua obiettiva struttura a cui la coscienza che egli ha di sé cerca di adeguarsi.
Può essere che questi dilemmi lascino piuttosto sconcertati chi, come voi, ha continuamente a che fare con una obiettività di dati. Ma il problema è più profondo. Si tratta di sapere se questi “dati obiettivi”, quando si tratta dell’uomo, oppongono una resistenza ad essere manipolati solo in ragione della nostra incompleta conoscenza scientifica dei medesimi e/o per l’imperfezione dei nostri mezzi tecnici oppure se essi significano una realtà ben più profonda che si oppone alla suddetta manipolazione, in ragione del puro e semplice fatto che l’uomo non è a disposizione dell’uomo. Non per una temporanea incapacità tecnica, ma per una permanente impossibilità ontologica.
E così l’affermazione della trascendenza della verità dell’uomo conduce ad una domanda: ma, alla fine, chi è l’uomo? Se, come è stato profondamente detto da uno dei padri della fisica nucleare, collo scoppio della prima bomba atomica, la scienza ha conosciuto il peccato originale, possiamo dire che l’odierna ricerca bio-medica ha conosciuto, o meglio riconosciuto la domanda metafisica sull’essere (dell’uomo).
Questa domanda, nella sua radicalità, non consente a nessuno di essere neutrali, poiché la neutralità, in questo caso, è già una presa di posizione. Se lo scienziato non diverrà un grande metafisico, l’uomo distruggerà se stesso.
Ma che cosa sta alla radice dell’affermazione o della negazione della trascendenza della verità, alla fine della intangibilità non della persona umana?
Non sta solamente una presa di posizione, un giudizio della nostra intelligenza. Se nego che la persona umana sia a totale disposizione dell’uomo, questa negazione presuppone che l’uomo trascenda infinitamente l’uomo, che l’uomo sia costituito da una intrinseca correlazione con Dio stesso, una relazione che la grande metafisica classica, alla luce della fede biblica, ha chiamato creazione.
Se l’uomo non è creato da Dio, la ricerca bio-medica si colloca in un rapporto con l’uomo radicalmente diverso da quello in cui si colloca se è creato da Dio.
La domanda religiosa è intrinseca all’attuale situazione della ricerca scientifica.
Conclusione
La religione senza la scienza può divenire magia: la scienza senza la religione diviene oscena.
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