ETICA LAICA – ETICA RELIGIOSA
Diocesi di Genova, 25 novembre 2009
Poiché la formulazione del tema della mia riflessione si presta a varie interpretazioni, credo che debba, a modo di premessa, dire esattamente di che cosa intendo parlare.
Molto semplicemente, cercherò di rispondere alla seguente domanda: l’esigenza etica, di cui ogni persona ragionevole fa esperienza, può trovare spiegazione ultima prescindendo dall’affermazione di Dio?
La formulazione della domanda ha introdotto parole e concetti che devono essere spiegati. Tralascio per ora di dire che cosa intendo per "esigenza etica", poiché a questo dedicherò l’intero primo punto della mia riflessione.
Ho parlato di "spiegazione ultima". Noi di fronte ad un fatto possiamo semplicemente accontentarci di costatarlo, di descriverlo e di narrarlo. Ma non raramente sentiamo il desiderio di renderci ragione del fatto costatato; di rispondere a questa semplice domanda: perché è accaduto, perché accade questo fatto? Non mi accontento di descrivere, ma cerco una spiegazione. Quando una spiegazione è ultima? Quando la risposta al "perché è accaduto, accade il fatto" è tale da essere esaustiva; è tale cioè che non ammette ulteriori domande: la ragione è soddisfatta.
Noi questa sera prendiamo in esame un fatto – l’esigenza etica – e vogliamo rispondere alla domanda: perché nell’uomo accade questo fatto?
La tesi che io vorrei dimostrarvi è allora la seguente: il fatto dell’esigenza etica non trova spiegazione ultima all’infuori dell’esistenza di Dio. Fate bene attenzione: non ho detto "all’infuori della fede cristiana".
Prima di proseguire devo sgomberare il campo da un grossolano equivoco che rischia di compromettere tutta la riflessione. Non intendo dire che solo chi ammette l’esistenza di Dio agisce onestamente, mentre gli atei sono sempre dei disonesti. La riflessione prescinde totalmente dal concreto comportamento delle persone. È una riflessione che vuole capire, spiegare un fatto; e non verificarne la ricorrenza statistica.
1. Dobbiamo partire dalla presa di coscienza di un fatto che accade molte volte in noi ogni giorno, e che non deve cessare mai di stupirci: dentro l’esercizio della nostra libertà dimora l’esigenza etica. Vi aiuto a questa presa di coscienza con la narrazione di un fatto realmente accaduto, e con un’ipotesi … non così ipotetica.
Il fatto. Siamo ad Atene nell’anno 399 A.C., e più precisamente in prigione. Socrate è stato condannato da un tribunale legittimo per corruzione dei giovani. Tutti gli spiriti più nobili di Atene sanno che la condanna è ingiusta, e l’accusa falsa.
L’esecuzione capitale è ormai imminente. Un amico ricco di nome Critone va a trovare Socrate, e gli propone la fuga. Era realmente possibile la fuga. Critone aveva già corrotto i carcerieri; c’era già una nave al Pireo. Socrate, condannato innocente, avrebbe così potuto continuare la sua grande opera educativa altrove; moglie e figli suoi non sarebbero stati privati della sua presenza. Dunque: tutte le ragioni militavano a favore della fuga, in quella notte stessa, perché dopo, non sarebbe stato più possibile.
Socrate ricorda però al suo giovane amico che si era dimenticato di farsi la domanda più importante: ma la fuga è giusta? Non semplicemente: è utile alla famiglia? È utile alla città? Vi prego di prestare molta attenzione. Socrate ricorda al suo amico che quando dobbiamo fare una scelta, quando dobbiamo prendere una decisione, avvertiamo in noi l’esigenza non solo di prevedere costi-benefici, e di bilanciare i pro e i contro. Avvertiamo l’esigenza di verificare semplicemente se ciò che stiamo scegliendo e decidendo è bene o male, giusto o ingiusto, prescindendo dal fatto che sia utile o dannoso, piacevole o spiacevole. Infatti "non il vivere è da tenere in massimo conto, ma il vivere bene" [48b]
L’ipotesi. Un marito è preso dalla passione sessuale per una donna che non è sua moglie. Egli si trova in una situazione tale che può tradire sua moglie, avendo l’assoluta certezza che nessuno verrà mai a saperlo; che l’adulterio non avrà nessuna conseguenza sui suoi doveri di padre. Verificato tutto questo, è stato fatto tutto, e non resta che … tradire?
Esiste nella scelta adulterina una "bruttezza", una "malizia", una "deturpazione" che non è dovuta alle possibili conseguenze della stessa, ma che è insita nell’atto come tale di tradire la propria moglie.
In altre parole, la nostra libertà, quando deve fare scelte e prendere decisioni, si trova confrontata, si trova ad avere a che fare non solo con ragioni di utilità, di convenienza, di costume sociale, con ragioni mutuate alle circostanze, ma con ragioni che posseggono le seguenti quattro qualità.
- Sono ragioni che valgono per se stesse prima di ogni interesse, desiderio, preferenza.
- Sono ragioni che valgono universalmente e devono essere condivise da ogni persona ragionevole.
- Sono ragioni che chiedono di regolare i propri interessi, i propri desideri, chiedendo anche semplicemente di rinunciarvi.
- Sono ragioni che esigono un rispetto incondizionato da parte della libertà, non ammettendo di essere contraddette adducendo come motivo il proprio interesse, il proprio desiderio, le proprie preferenze o del gruppo sociale cui si appartiene.
Se facciamo attenzione a noi stessi, noi vediamo che tutto questo accade in noi. Esiste in noi l’esigenza di un dover-essere [fedeli alla moglie; onesti nel lavoro …], che non è semplicemente equiparabile all’istinto di conservazione [anzi a volte lo contraddice]; che non è semplicemente la scaltrezza della ragione che cerca di evitare danni; che non è semplicemente il bisogno di adeguarsi ai costumi sociali, per non perdere il riconoscimento della società [anzi a volte li contraddice].
Che cosa è allora? È l’esigenza inscritta nella natura stessa della persona, tradendo la quale [esigenza] l’uomo … non è più uomo, come dice l’Innominato.
È una esigenza che si presenta con caratteri paradossali. Essa infatti coinvolge ed interpella la persona nella sua singolare irripetibilità: tu devi prendere questa decisione; fare questa scelta. Nessuno può prendere il tuo posto. Ma nello stesso tempo, è un’esigenza, quella etica, che riguarda l’uomo come tale, non l’uomo Giovanni, Pietro … L’uomo fedele, onesto, dice: "chiunque al mio posto avrebbe fatto lo stesso".
L’esigenza etica si presenta come assoluta, nel senso che ciò che esige non lo è in relazione a qualcosa di empirico, finito [per es. la mia utilità]. Si presenta come trascendente, nel senso che essa rivendica l’indipendenza, la non subordinabilità della persona: la sua non negoziabilità, la sua indisponibilità. Afferma la trascendenza della persona.
2. Quando parliamo di etica, noi parliamo di questo dover-essere: di queste esigenze inscritte nella natura della persona umana come tale.
Ed ora siamo arrivati al punto centrale della nostra riflessione: perché c’è in noi questa esigenza? Come si spiega questa presenza in noi di un dover-essere?
Richiamo un punto della riflessione precedente. Benché l’esigenza etica sia inviscerata nella persona e la interpelli nella sua singolarità irripetibile, essa non è a disposizione della persona e della libertà. Questa non ha potere su di essa, ma le è sottomessa. Non può discuterla, ma solo venerarla.
La controprova la si ha in un’esperienza spirituale su cui tutti i grandi spiriti hanno meditato: il rimorso. La libertà può negare nelle sue scelte ciò che la ragione le ha intimato come esigenza etica: il marito può tradire la moglie pur essendo consapevole della disonestà dell’adulterio. Ma resta "imprigionato" dentro la tagliola di quella verità circa il bene della fedeltà coniugale e il male dell’adulterio. Questa verità è di una così fastidiosa perentorietà, da non essere aggirabile: "Tutti i profumi d’Arabia non basteranno a rendere odorosa questa piccola mano" [che ha ucciso] [W. Shakespeare, Macbeth, Atto V, Scena I] dice Lady Macbeth dopo l’uccisione del re. E come vede bene l’Innominato, c’è un solo modo di sfuggire: auto-sopprimersi, il suicidio.
Come si spiega questo fatto? La risposta potrebbe essere: è il "caso umano" di un fatto generale. Esiste una legge naturale, una ragione intrinseca all’universo, di cui anche l’uomo, in quanto parte di esso, è partecipe.
Se però guardiamo le cose più in profondità, e soprattutto se non perdiamo il contatto colla nostra esperienza quotidiana, ci rendiamo conto della falsità di questa risposta. Quando mi trovo a decidere, sono io che devo assumere la responsabilità. Il referente non è un ordine cosmico impersonale: è la mia persona nella sua insostituibilità che è messa in questione. Mi pongo dentro ad un rapporto da cui l’impersonale, il naturale, il cosmico è escluso.
È ancora più superficiale la risposta di chi pensa che questa esperienza del dover-essere di cui stiamo parlando, non sia altro che la introiezione nel singolo del costume e della regolamentazione sociale. Basterà ricordare che la grandezza di ogni vero profeta è stata proprio quella di testimoniare e richiamare un dover-essere che era in aperta contraddizione col costume e la regolamentazione sociale del suo tempo.
Ritorna dunque la domanda: come si spiega il fatto del dover-essere insito nell’uomo? Esso non può trovare la sua sorgente che in un Potenza personale superiore all’uomo, che impone all’uomo le ragioni supreme del Bene nell’unico modo adeguato all’uomo: rendendone partecipe la sua ragione. Questa Potenza-assoluta e personale che rende note all’uomo le ragioni supreme del Bene, rendendo la ragione umana partecipe della Ragione eterna, è ciò che la religione chiama Dio.
La singolare esperienza del "tu devi – tu non devi" trova la sua spiegazione ultima fondativa e fondante in quell’attrazione che l’Assoluto-Persona esercita nei confronti dell’assoluto-limitato che è la persona umana, perché essa scelga il Bene in cui consiste la sua vera e perfetta beatitudine. Anzi, è quella stessa attrazione.
Nessuno, credo, meglio di Newman ha espresso questo pensiero e descritto questa esperienza.
"È qualcosa di più dell’io proprio di un uomo. L’uomo in se stesso non ha potere su di essa [= la coscienza morale]… oppure non è lui a crearla … la sua stessa esistenza conduce la nostra mente ad un Essere esterno a noi stessi… ad un Essere superiore a noi stessi, altrimenti da dove deriva la sua strana, fastidiosa perentorietà? … questa Parola dentro di noi non solo ci insegna fino ad un certo punto, ma necessariamente solleva il nostro spirito fino all’idea di un Maestro, un Maestro invisibile".
[Quaderno filosofico, in Scritti filosofici, Bompiani, Milano 2005, pag. 681-683]
La legge della ragione è una partecipazione limitata, e quindi molteplice, della legge della Ragione eterna, della divina Sapienza.
Se si nega e si spezza questo legame, quest’alleanza originaria colla Sapienza eterna, la vita diventa un puro sperimentare: al filo che ne tesse la trama non si è fatto il nodo. È un puro vagare senza meta.
Il fatto che la mediazione della coscienza personale sia imprescindibile, non costituisce argomento contro. Non significa che essa sia la sorgente ultima di ciò che comunica.
Il fatto che l’uomo possa muoversi verso il bene solo auto-determinandosi verso di esso, non significa che egli sia la fonte ultima dell’ordine morale. Che solo l’uomo possa decidere se fare il bene o compiere il male, non significa che solo esso possa decidere che cosa è bene/ che cosa è male. "Dipendere dalla verità" e "dipendere da sé" non si annullano a vicenda. La verità circa il bene mi lega; ma essa mi lega nell’unico modo in cui lo può fare nei confronti dell’uomo: mediante il giudizio della sua ragione. Sempre e solo col mio atto di conoscere la verità circa il bene, lego me stesso. "La coscienza morale rivela … la dipendenza dalla verità insita nella libertà dell’uomo. Questa dipendenza … è la base dell’autodipendenza della persona, ossia della libertà nel suo significato fondamentale, della libertà come autodeterminazione" [K. Woitila, Persona ed atto, Rusconi, Milano 1999, pag. 371].
Se si spezza questa tensione fra "dipendere dalla verità" e "dipendere da sé", o si riduce l’uomo ad uno schiavo o ad un esperimento inutile.
Il titolo diceva: "etica laica-etica religiosa". Ora possiamo dirne il vero significato.
Se per "etica laica" si intende denotare un fatto spirituale che accade nell’uomo, da me indicato come "esigenza etica", "dover-essere", a prescindere dalla sua condizione religiosa, non solo esiste un’etica laica, ma l’etica come fatto umano è semplicemente un’opera della ragione.
Se per "etica laica" si intende dire che si può dare una spiegazione adeguata dell’esigenza etica, del dover-essere escludendo positivamente l’affermazione di Dio, non esiste un’etica laica, ma può esistere solo un’etica religiosa.
3. Oggi questo problema viene però dibattuto soprattutto nell’ambito del discorso pubblico, politico. Si ritiene comunemente che ogni riferimento fondativo o non della regolamentazione sociale al fatto religioso sia da escludere. In questo senso l’etica pubblica non può che, deve, essere rigorosamente laica.
Il tempo ormai trascorso mi costringe a limitarmi ad alcune osservazioni telegrafiche.
Intendo per etica pubblica l’insieme delle regole necessarie perché la vita associata sia possibile. L’etica pubblica non coincide dunque semplicemente con l’etica tout court: il reato è distinto dal peccato.
Nel contesto di una discussione sull’etica pubblica la domanda fondamentale è se il consenso ottenuto mediante l’uso pubblico della ragione pratica, mediante cioè il confronto libero ed aperto a tutti a pari condizioni, sia la fons essendi sufficiente dell’etica pubblica. Se è possibile proporre un’etica pubblica basata esclusivamente sul consenso.
Parto da un testo di Leopardi.
"Se l’idea del giusto e dell’ingiusto, del buono e del cattivo morale non esiste o non nasce per sé, nell’intelletto degli uomini, niuna legge di niun legislatore può far che un’azione o un’omissione sia giusta né ingiusta, buona né cattiva. Perocchè non vi può esser niuna ragione per la quale sia giusto né ingiusto, buono né cattivo, l’ubbedire a qualsivoglia legge, e niun principio vi può avere sul quale si fondi il diritto che alcuno abbia di comandare a chi che sia" [Zibaldone 3349-3350].
Il testo leopardiano pone la domanda di fondo: esiste qualcosa di ingiusto in sé e per sé e che non potrà mai essere giustificato da nessuna procedura pubblica legittima? In altre parole: esiste una verità circa il bene dell’uomo indipendentemente dai risultati dell’argomentazione, discussione e deliberazione pubblica?
Se affermo che la procedura democratica è l’unica fons essendi della legittimità della legge, delle due l’una. O penso questa procedura come scontro di interessi opposti la cui unica soluzione è l’imposizione del più forte o penso questa procedura come il modo degno dell’uomo per trovare quella soluzione in cui possa riconoscersi la ragionevolezza di ognuno. Nel primo caso nego semplicemente che esista un’uguaglianza di dignità fra gli uomini e la norma è sempre e solo il dominio di uno sull’altro. Nel secondo caso è presupposta ed affermata e la uguale dignità di ogni persona e il possesso da parte di ciascuno della stessa ragionevolezza o natura ragionevole. La controversia pubblica circa le ragioni di una possibile decisione legislativa, non è una controversia fra rivali, fra opposti interessi. Diviene un incontro fra alleati nella ricerca comune della verità circa il bene.
Soltanto la costruzione di un consenso che sia orientato alla ricerca della verità circa il bene, costituisce una autorità che non è dominio dell’uomo sull’uomo.
La radice della disgregazione sociale cui assistiamo è causata anche da una vera e propria censura nei confronti di ogni istanza che tenga viva la "sensibilità alla verità". Si pensi al trattamento che riceve il Magistero morale della Chiesa. L’educazione quindi ad un uso completo della ragione è una delle sfide più urgenti per il futuro.
Il progetto di costruire un ordinamento giuridico, e quindi un ethos pubblico, senza verità, mette sulle spalle della legge civile un peso che non è capace di portare. È il peso di creare una comunità umana, di produrre un’identità. I romani non dicevano ubi jus ibi societas, ma ubi societas ibi jus.
Poiché questa è una progettazione impossibile, essa apre il fianco a due rischi gravissimi. O rendere la legge stessa veicolo di valori imposti: è il rischio del fondamentalismo clericale. O "privatizzare" giuridicamente ogni contenuto del vissuto umano: è il rischio del laicismo escludente.
Ma si pensa che almeno la categoria dei diritti fondamentali dell’uomo possa fungere da tessuto connettivo del sociale umano.
Tuttavia, negata che esista una verità circa il bene dell’uomo o – il che coincide – che esista una natura umana ragionevole, i diritti fondamentali dell’uomo rischiano di essere pensati e praticati come ciò che il singolo individuo preferisce per sé, et de gustibus non est disputandum.
Ciò ha una conseguenza devastante sull’idea di legge civile e sul compito del legislatore. La nuova idea è che lo Stato e la legge non devono vietare ciò che l’individuo preferisce. E con ciò la coesione sociale è insidiata alla sua origine stessa.
La soluzione del problema non è il ricorso al principio "se tu non vuoi, perché io non posso?", col varo cioè di leggi, né impositive né coercitive, ma permissive. Il non volere colmare la lacuna etica, censurare la questione della verità in nome di una supposta tolleranza, sta portando alla disgregazione le nostre società occidentali.
Non si può seriamente costruire una etica pubblica se si nega che esista una verità circa il bene universalmente condivisibile. Ed è proprio questa negazione oggi ad essere sostenuta, portando il sociale umano ad una lacerazione non più sostenibile.
Concludo questo punto. L’etica pubblica è una costruzione fragile se nella coscienza dei singoli cittadini, se nell’ethos di un popolo si oscura, e tanto più se si estingue la passione per la verità circa il bene comune.
Ma questa passione, è nutrita soprattutto dalla coscienza religiosa, dal momento che essa radica l’uomo in un rapporto con l’Assoluto stesso e rende quindi ogni persona indisponibile ad essere usata da qualsiasi potente di turno.
Gia Eraclito aveva scritto: "tutte le leggi umane si nutrono della sola legge divina, perché la legge divina domina nella misura in cui vuole, basta per tutte le cose e ha prevalenza su di esse" [Diels-Kranz 114].
4. Conclusione: due figure per un dramma
Sono giunto alla fine. Il confronto fra un’etica laica ed un’etica religiosa lo vedo raffigurato in grado eminente dal confronto fra : Sir Ugo de Morville e Abramo.
Nel dramma di T. S. Eliot Assassinio nella Cattedrale, Sir Ugo de Morville è il secondo dei cavalieri che per ordine del re Enrico II uccidono l’arcivescovo Thomas Becket. Ad assassinio avvenuto, il secondo Cavaliere si rivolge agli spettatori e giustifica l’omicidio nel modo seguente:
"A nessuno dispiace più che a noi d’essere obbligati a usare violenza. Sfortunatamente vi son tempi nei quali la violenza è l’unico modo per poter assicurare la giustizia sociale. In altri tempi voi condannereste un Arcivescovo con un voto del Parlamento e lo decapitereste con tutte le forme come traditore e nessuno porterebbe la taccia di assassino […]. Ma se voi siete ora arrivati a una giusta subordinazione delle pretese della Chiesa al benessere dello Stato, ricordatevi che siamo stati noi a fare il primo passo".
T. S. ELIOT, Assassinio nella cattedrale,in Opere, a cura di R. Sanesi, Bompiani, Milano 1986, pp. 373-374.
Ben diversa, addirittura opposta è l’attitudine di Abramo quando viene richiesto dal Signore di sacrificare il figlio. Egli sa semplicemente che per essere se stesso deve uccidere il figlio, poiché questa obbedienza lo fa diventare ciò che è: il servo del Signore. Sulla base di un calcolo delle conseguenze, questa è l’unica scelta completamente sbagliata. La discendenza finirebbe, e con essa ogni futuro.
Chi ha ragione?
"Dal punto di vista della storia universale diventa falsa una proposizione, che dal punto di vista etico è vera ed è la forza vitale dell’etica: il rapporto di possibilità che ogni individualità esistente ha rispetto a Dio".
S. KIERKEGAARD, Postilla conclusiva non scientifica alle "Briciole di filosofia", parte II, sez. II, cap. I, in Opere, Sansoni, Firenze 1972, p. 341b.
È questa, alla fine, la conclusione. Dal punto di vista della storia, Ugo de Morville ha ragione e Abramo ha torto; dal punto di vista etico, ragione e torto si rovesciano.
La falsità della proposizione del secondo Cavaliere risulta evidente se si considera attentamente la sua argomentazione: essa poggia interamente su ciò che avverrà nel futuro, poiché è in futuro e dal futuro che egli riceve l’assoluzione. Ciò accadrà dunque quando egli sarà già morto.
Questo modo di argomentare dimentica la cosa più evidente: che una volta Ugo de Morville è stato vivo. Ma questo deve essere dimenticato, altrimenti l’intera l’argomentazione crolla, poiché la considerazione storica – cioè il calcolo dei pro e dei contro fatto in base alla prudente previsione delle conseguenze – comprende tutto partendo dal dopo, da quando l’atto è già stato compiuto: non interessa l’uomo nell’istante della sua decisione esistenziale. Ciò che importa non è l’uomo reale, vivo, ma l’uomo già passato.
Al contrario, nell’uso che Abramo fa della ragione etica, egli è giustificato per il modo con cui pone se stesso ora e qui di fronte a Dio.
L’etica è la verità circa il bene dell’uomo – dell’uomo concreto, in carne ed ossa – perché Dio non è il Dio dei morti ma il Dio dei viventi. La suprema decisione cui è chiamata oggi la libertà dell’uomo è se considerare se stesso solo dal punto di vista del tempo o anche e soprattutto dal punto di vista dell’eternità. L’etica è il respiro dell’eternità nell’uomo.
Il senso di questa riflessione sta, in fondo, nell’aver voluto riproporre ancora una volta la questione decisiva: la domanda sull’uomo.
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