Umanesimo cristiano e ricerca scientifica
23 maggio 2006 - Università Politecnica delle Marche ad Ancona
La formulazione del tema della mia riflessione indica già il percorso da compiere e la sua scansione.
Vorrei iniziare dal chiarire il concetto di "umanesimo cristiano": e questo sarà il primo punto della mia riflessione. In un secondo tempo vorrei poi riflettere sui rapporti che l’umanesimo cristiano intrattiene colla ricerca scientifica: e questo sarà il secondo punto della mia riflessione.
1. L’umanesimo cristiano
Mi piace iniziare dal confronto fra due testi poetici, uno biblico ed uno moderno. Il testo biblico è desunto dal Salmo 8 e dice: "Se guardo il tuo cielo, opera delle tue dita,/ la luna e le stelle che hai fissate,/ che cosa è l’uomo perché te ne ricordi e il figlio dell’uomo perché te ne curi?" [vv. 4-5]. L’altro testo è desunto da Leopardi e dice: "e quando miro in cielo arder le stelle; /dico fra me pensando:/a che tante facelle?/ che fa l’aria infinita e quel profondo/ infinito seren? che vuol dire questa/ solitudine immensa? ed io che sono?/ Così meco ragiono: e della stanza/smisurata e superba,/ e dell’innumerabile famiglia …/uso alcuno, alcun frutto/ indovinar non so" [Canto notturno di un pastore errante vv. 85-92.97-98].
I due testi nascono dalla stessa esperienza: l’uomo che prende coscienza di se stesso dentro l’universo. È una presa di coscienza che sia nel salmista sia in Leopardi nasce dal confronto fra la "stanza smisurata" e la fragile misura dell’uomo. È dunque l’esperienza dell’universo che diventa consapevole, e questa presa di coscienza è costituita dall’io dell’uomo.
Ma l’identica esperienza giunge a due esiti opposti. Il salmista – pur uscendo soccombente dal confronto con l’universo – si scopre affidato ad una memoria che non lo dimenticherà mai più e ad una cura che non lo abbandonerà mai. L’uomo leopardiano si scopre invece affidato ad un ignoto che è impossibile decifrare, sperduto in un insensato vagabondare dentro uno spazio senza voce.
Lasciamo per ora impregiudicata la questione su quale dei due esiti sia il più ragionevole e consistente. Vorrei invece attirare la vostra attenzione sull’origine identica dei due percorsi, del salmista e di Leopardi.
Ho parlato poc’anzi di una presa di coscienza di se stesso da parte dell’uomo e nell’uomo anche dell’universo. È l’esperienza descritta anche da Pascal: "l’uomo non è che una canna, la più debole della natura; ma è una canna pensante" [Pensieri 347; 258]. È quest’esperienza l’inizio della vita umana propriamente umana: porsi consapevolmente nella realtà, in rapporto colla realtà. Chiamo questo posizionarsi dell’uomo nella realtà la cultura. Essa è l’assetto che l’uomo dà al suo essere nel mondo; è l’assestarsi dell’uomo dentro alla realtà. La cultura definisce l’humanum in senso stretto, e distingue l’uomo da ogni altra realtà dell’universo in cui viviamo: è il suo modo specifico di vivere e di essere.
Ma ora vorrei essere più preciso e più concreto, cercando di verificare quali siano i dinamismi che portano l’uomo, che spingono l’uomo a cercare e trovare il suo assetto dentro alla realtà. Potremmo dire: a "produrre cultura".
L’uomo cerca di assestarsi dentro alla realtà in modo vero e buono. La ricerca della verità e la passione per il bene sono i due fondamentali dinamismi dell’uomo.
Che cosa significa porsi dentro alla realtà in modo vero? La verità è il disvelarsi della realtà all’uomo, disvelarsi che avviene nel giudizio della ragione. Nella conoscenza vera avviene una corrispondenza fra la persona umana e la realtà. Questa corrispondenza presuppone che l’essere delle cose sia per sé intelligibile e quindi abbia un significato, e che l’intelletto sia capace di aprirsi, sia intenzionalmente aperto alla realtà stessa. Quando invece non conosco, cado cioè nell’errore, introduco la mia persona dentro ad un mondo irreale ed inesistente, anche se non raramente più affascinante: fascinatio nugacitatis et vanitatis.
La cultura è quindi ricerca della verità, in primo luogo. Il pensare in verità è l’asse portante della cultura.
Ora esistono delle evidenze originarie che sono come i punti cardinali che guidano la scoperta della verità da parte dell’uomo. Mi limito a richiamarle semplicemente, non consentendoci il tempo di prolungarci.
L’uomo ha l’evidenza originaria che non si è fatto da sé; che il suo io è stato posto in essere da un Altro. Si faccia bene attenzione. L’atto generativo umano non spiega la venuta all’esistenza dell’io irripetibile che è ciascuno di noi. La ricerca del fondamento ultimo del nostro esserci è la domanda di verità più urgente poiché è dalla risposta vera alla medesima che dipende il giudizio valutativo circa la propria vita. Se esisto per caso, il mio "esserci" non possiede alcun significato suo proprio; se sono il frutto di un atto di intelligenza e di amore – tale è l’atto creativo – , il mio "esserci" ha una indistruttibile consistenza.
L’uomo ha l’evidenza originaria che è-con-l’altro; non esiste, co-esiste; non c’è umanità se non come co-umanità [communitas]. L’uomo è originariamente in relazione con l’altro. Il simbolo reale di questa originaria costituzione relazionale dell’uomo è che la persona umana è uomo e donna. La ricerca e la scoperta del significato della relazionalità interpersonale è costitutiva del porsi dell’uomo dentro alla realtà.
L’uomo ha l’evidenza originaria che essere qualcuno è essenzialmente diverso che essere qualcosa. L’universo dell’essere è diviso in due regioni: la regione delle persone; la regione delle non-persone. E pertanto il rapporto della persona con il mondo impersonale è essenzialmente diverso dal rapporto della persona colla persona: la persona ha le cose; la persona è-con le persone.
Ma porsi dentro alla realtà non è opera solo né principalmente della ragione: è opera della libertà. Il dinamismo costruttivo della persona non è la ragione: è la libertà. È quindi mediante le scelte libere che la persona prende posizione, si assesta dentro alla realtà.
La nostra esperienza quotidiana ci testimonia che la nostra libertà può realizzare nelle sue scelte la verità che abbiamo conosciuto colla nostra ragione, e può negarla. È una fragilità insita nella nostra libertà di scelta.
Pertanto la persona può edificare un mondo vero, può costruire un io nella verità, ma può anche edificare un mondo falso e costruire un io illusorio.
Ho accennato sopra ai tre assi portanti dell’autocostruzione dell’io. Negando l’evidenza originaria della propria dipendenza da un Altro e della propria appartenenza a Dio, l’uomo afferma un’autonomia illusoria, la quale genera sempre idolatria.
Negando l’originaria correlazione interpersonale, la costruzione del sociale umano è continuamente minacciata ed insidiata dal conflitto radicale dell’uomo contro l’uomo, minaccia a cui cerchiamo di sfuggire o mediante coesistenze regolamentate di opposti egoismi o mediante la svendita di se stessi al potere.
Negando la verità delle cose e del rapporto colle stesse, o si diventa padroni assoluti negando alle cose una loro consistenza non manipolabile o delle stesse si diventa schiavi ponendo nel loro possesso la propria realizzazione.
Siamo ora in grado di definire l’umanesimo. Il termine denota il dinamismo della persona verso la propria autorealizzazione nel senso appena detto. La persona non solo si auto-determina, ma si propone come fine se stessa: l’auto-determinazione è anche auto-teleologia. Il nostro io, attraverso la scelta libera con cui afferma/nega la verità conosciuta, dispone contemporaneamente di se stesso scegliendo di essere in un certo modo. L’umanesimo è il risultato di questa costruzione che l’uomo fa di se stesso, è questa auto-costruzione.
Auto-costruzione o auto-teleologia non significa affatto un chiudersi della persona in se stessa, ma implica sempre un contatto vivo colla realtà intera, come ho già spiegato.
E qui dobbiamo ritornare … al salmista e a Leopardi; più precisamente al punto in cui le due strade si divaricano per giungere ai due capolinea opposti.
Il ritorno ai due autori avviene attraverso non una, ma la domanda fondamentale che l’uomo possa porsi: l’auto-costruzione dell’uomo ha un fondamento su cui poggiare oppure è un’auto-costruzione fondata semplicemente su se stessa? Facciamo la stessa domanda con un registro più soggettivo: il dinamismo che spinge la persona alla beatitudine, ha una sua intima ragionevolezza oppure è semplicemente un movimento fisico-istintuale senza alcun oggetto suo proprio? Facciamo la stessa domanda nel contesto della nostra riflessione: è possibile discernere un umanesimo vero da un umanesimo falso?
In un certo senso è stato Aristotele a porre per primo queste domande. Più precisamente a porle come domanda circa la "verità della soggettività". E la sua risposta è stata un definitivo guadagno spirituale per l’umanesimo occidentale.
È possibile discernere un umanesimo vero – uno sviluppo della propria soggettività – da un umanesimo falso purché ci lasciamo guidare dalla nostra ragione; purché la ragione [il logos] o l’intelletto [noús] siano egemoni in noi. La nostra ragione è come la luce. La luce non può che illuminare; non può oscurare. Possono esserci cause ad essa estrinseche che impediscono alla luce di illuminare. Così è della luce che è in noi: essa non può che illuminare. E la luce è la nostra ragione. Tuttavia è possibile che essa venga annebbiata, sviata ed oscurata dai disordini delle passioni, da quella che Agostino chiamava la curvatio della volontà. Si ricordi quanto dicevo sopra sul potere che la libertà ha di negare nella prassi ciò che la ragione conosce.
Non solo. Ma la ragione stessa appare come ferita nel suo stesso esercizio, per cui quando cerca di costruire la risposta alle domande più profonde della vita, giunge con fatica ad una risposta; non è mai esente da errori; è un cammino che non tutti riescono a compiere.
Nella sua ricerca di una beatitudine vera, l’uomo è mendicante di luce per la sua ragione e di amore appassionato del bene per la sua libertà.
Cristo è la risposta a questa mendicanza di verità e di bene non semplicemente, non principalmente perché dona un insegnamento più vero circa il bene della persona, ma perché rende l’uomo partecipe della sua stessa vita.
Vorrei spiegarmi con un esempio. È a tutti noto come il bambino impari a parlare. La madre comincia ad articolare parole, che il bambino ascolta. A un certo momento avviene il "miracolo": il bambino diventa capace di parlare. Egli cioè non si limita più ad articolare dei suoni, a ripetere delle parole. Diventa homo loquens: capace di entrare nella comunicazione-comunione con le altre persone.
La Chiesa annuncia il Vangelo, che l’uomo ascolta. Ad un certo momento avviene il miracolo, accade l’incontro colla persona di Cristo: l’uomo diventa capace di vivere la sua umanità in Cristo come Cristo. Cristo è divenuto la "verità della sua soggettività". Il Nuovo Testamento usa un’espressione di una suggestione immensa: aprire il cuore. Cioè: è la sorgente ultima, è il dinamismo costruttivo della propria umanità che viene reso capace di realizzare la propria persona in Cristo. Quando e dove ci sono uomini e donne cui è accaduta quella "apertura del cuore", lì si comincia la costruzione dell’umanesimo cristiano, o – il che coincide – nasce una cultura cristiana.
Vorrei fermarmi brevemente sul significato dell’espressione "umanesimo cristiano" e così terminare questo primo punto della mia riflessione.
Che cosa è che "apre il cuore"? è il sentire che esiste una corrispondenza fra ciò che il cuore desidera e ciò che l’annuncio cristiano documenta. In una parola: il sentire corrispondenza fra il "cuore" e "Cristo". Agostino ha meditato lungamente su questa esperienza e ci ha donato pagine mirabili.
Poiché questa è la sorgente dell’umanesimo cristiano, questo non è allora altro che la realizzazione della propria umanità secondo la misura di Cristo: una misura centuplicata. L’umanesimo cristiano non denota una sorta di realizzazione aggiunta alla realizzazione della propria umanità. È la propria realizzazione nella sua perfezione. È la santità il vero umanesimo cristiano. Ed il santo è semplicemente l’uomo interamente vero. E quando dico "propria umanità" intendo parlare di quelle tre coordinate portanti il nostro faticoso vivere: il rapporto con Dio; il vivere in società; la consegna del mondo alle nostre mani operose.
È per questo che nulla di ciò che è umano resta estraneo all’apertura del cuore del cristiano. Nessuna dimensione dell’esistenza umana resta estranea a Cristo. Nulla resta fuori. L’anima dell’umanesimo cristiano è la cattolicità: capacità di raccogliere, valorizzare, integrare in sé all’interno del proprio rapporto con Cristo tutto quello che di buono, di vero, di bello l’uomo ha realizzato. "Io ho bisogno di tutto il mondo. Tutto il mondo deve essere integrato in me; io ho bisogno di avvicinarmi a tutto, di alimentarmi di tutto, perché in me tutto divenga cristiano" [D. Barsotti].
Una delle più grandi opere della ragione umana è l’impresa scientifica moderna, di cui ora parlerò brevemente.
2. Umanesimo cristiano e ricerca scientifica
La ricerca scientifica è una delle forme fondamentali in cui si esprime e realizza il bisogno di verità proprio dell’uomo. È infatti da escludere la tesi secondo cui l’essenza del metodo scientifico sarebbe il relativismo. Come è stato giustamente detto: "la scienza classica non ha nulla a che fare con il relativismo. Essa nasce al contrario come un progetto di acquisizione progressiva di verità. Per dirla con Jacques Monod, l’asse portante della scienza è il principio di oggettività. La scienza ricerca "leggi" e non opinioni" [G. Israel].
Questa non significa che il sapere scientifico, così come ogni sapere umano, non sia sempre rivedibile e perfezionabile; né che le verità scientificamente acquisite siano assolute. Sono sempre verità parziali, frammentarie sulle quali è possibile e doveroso un confronto continuo. Confronto che non è uno scontro di "opinioni soggettive" contrapposte fra loro al fine di produrre il consenso alla propria. Ma è un confronto fra affermazioni per verificare la loro adeguatezza a spiegare la realtà. Conoscenza non esaustiva non è sinonimo di conoscenza falsa.
Stante questo legame intimo fra ricerca scientifica e verità, la ricerca scientifica costituisce uno dei momenti imprescindibili nella costruzione di un vero umanesimo cristiano. Da un duplice punto di vista.
La ricerca scientifica è uno dei "luoghi" in cui si vive quanto dice Gesù: "la verità vi farà liberi". Da una parte infatti la libertà è da sempre la condizione essenziale per lo sviluppo di ogni sapere scientifico che voglia custodire la sua intima dignità di ricerca del vero. Dall’altra solo la dedizione incondizionata alla verità immunizza la ricerca scientifica dal pericolo di essere ridotta a pura funzione, di essere asservita a quella dittatura del desiderio che impone il soddisfacimento di bisogni immediati. La libertà assicura la vocazione della ricerca scientifica alla verità; la dedizione alla verità assicura alla ricerca scientifica la libertà.
Qui tocchiamo il "nodo centrale" della possibilità della ricerca scientifica di essere o fattore costruttivo di vero umanesimo o forza devastante dell’humanum.
È stato scritto giustamente che la riduzione della scienza ad un’attività di "problem solving" "pone una barriera fra essa e le altre forme di attività intellettuale, negandole un ruolo culturale" [G. Israel].
Penso che non raramente la scienza oggi venga concepita e praticata come un fatto puramente tecnico funzionale. Questa visione e prassi tende a far coincidere il valore conoscitivo-scientifico della ricerca col successo dei suoi processi e colla loro efficacia pragmatica.
Se iniziamo a percorrere questa strada, e già lo stiamo facendo, non c’è dubbio che l’umanesimo – la difesa e la promozione dell’humanum – è seriamente in pericolo. Per quale ragione? Perché la libertà della ricerca scientifica non è più libertà per la verità, ma libertà – anzi perfino obbligo – di poter fare tutto ciò che è tecnicamente possibile. Alla "libertà della verità" si andrà gradualmente sostituendo la "libertà del potere" e questa porta inevitabilmente alla dittatura dell’utilitarismo.
La responsabilità dell’uomo di scienza è oggi particolarmente grave in ordine all’edificazione di un vero umanesimo. Essa consiste essenzialmente nel ridare e custodire piena dignità e libertà alla ricerca scientifica come ricerca della verità.
È certo – lo ha già detto – che la verità conosciuta dalla scienza è parziale, settoriale. Ma nessuna verità contraria un’altra verità: in ultima analisi, la ragione non contraria mai la fede né la fede la ragione. Quando dunque la ricerca scientifica è tesa alla conoscenza della verità sua propria, essa non può non orientare chi la pratica verso la totalità del vero e sarà prima o poi come costretta a farsi domande sull’intero: la ricerca scientifica è una ricerca che apre chi la pratica su tutta la ricchezza dell’essere. È allora possibile, anzi ineludibile un incontro profondo e reale fra scienza, etica e teologia.
Quando si riflette sul rapporto umanesimo e ricerca scientifica, non è raro costatare oggi come due atteggiamenti opposti: o quello dell’ottimismo sfrenato o quello del pessimismo deluso. La scienza o è esaltata come la liberazione dell’uomo da ogni male o è temuta come la possibile devastazione dell’umanità. Sono attitudini irrazionali che nascono dalla definizione pragmatica di verità scientifica. "La terapia è allora quella di riscoprire il valore umano e personalista della conoscenza scientifica, giustificandone così le sue esigenze di libertà, in quanto bene umano, un bene che riceve la sua determinazione soltanto dalla verità e per questo rifiuta di essere legittimato sulla base dei risultati immediati o del profitto economico". [G. Tanzella-Nitti, Passione per la verità e responsabilità del sapere, Piemme, Casale Monf. 1998, pag. 165].
Conclusione
Esiste uno scritto di Leopardi nelle Operette morali il cui titolo è Dialogo di un fisico e di un metafisico. È fonte di una riflessione che può riassumere quanto detto finora. Cito i passaggi iniziali e la conclusione.
"Fisico: Eureca, eureca
Metafisico: Che è? che hai trovato
Fisico: L’arte di vivere lungamente.
Metafisico: E cotesto libro che porti?
Fisico: Qui la dichiaro: e per questa invenzione, se gli altri vivranno lungo tempo, io vivrò per lo meno in eterno; voglio dire che ne acquisterò gloria immortale.
Metafisico: Fa una cosa a mio modo. Trova una cassettina di piombo, chiudivi cotesto libro, sotterrala, e prima di morire ricordati di lasciar detto il luogo, acciocché vi si possa andare, e cavare il libro, quando sarà trovata l’arte di vivere felicemente.
Fisico: E in questo mezzo?
Metafisico: In questo mezzo non sarà buono da nulla. Più lo stimerei se contenesse l’arte di viver poco.
Fisico: Cotesta è già saputa da un pezzo; e non fu difficile trovarla.
Metafisico: In ogni modo lo stimo più della tua.
Fisico: Perché?
Metafisico: Perché se la vita non è felice, che fino a ora non è stata, meglio ci torna averla breve che lunga.… .
Metafisico: Ma in fine, la vita deb’esser viva, cioè vera vita: o la morte la supera incomparabilmente di pregio".
[in G. Leopardi, Canti – Operette morali – Memorie e pensieri d’amore, La Biblioteca di Repubblica, Roma 2005, pag. 437.441].
L’uomo non desidera solo vivere: desidera una vita buona. Non desidera solo vivere: desidera avere ragioni incontrovertibili per cui valga la pena di vivere. "Ma in fine, la vita deb’essere viva, cioè vera vita".
È possibile che la ricerca scientifica aiuti l’uomo a vivere una vita buona? una vita vera? Non ho dubbi nel rispondere affermativamente. Se la ricerca scientifica custodisce la sua libertà e la sua identità, essa diventa fattore costruttivo della nostra umanità.
Ma la risposta ultima di cui l’uomo ha assolutamente bisogno è di sapere se c’è uno che si prenda cura di lui, che non ne perda mai la memoria. Anche la ricerca scientifica può aiutare l’uomo nell’itinerario mentis in Deum.
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