La questione educativa come questione politica
Lecco, 13 aprile 2012
Rivolgendomi a chi ha responsabilità, sia pure di vario genere, del bene della polis, responsabilità cioè politiche, ho ritenuto opportuno riflettere sulla questione educativa come questione politica. Più precisamente: come questione la cui soluzione dipende anche da chi ha responsabilità politiche.
Sono perfettamente consapevole che mi sto muovendo su un terreno minato. Devo pertanto subito escludere due possibili risposte. O comunque dire fin dall’inizio la mia totale estraneità a due orientamenti secondo i quali cercare la soluzione.
La prima risposta che escludo è quella che pensa l’istituzione pubblica come il soggetto ultimo dell’educazione, il suo gestore. La ragione del rifiuto di questa risposta è che essa conduce inevitabilmente alla tirannia educativa, alla imposizione di un progetto educativo. Educare imponendo il progetto educativo ha lo stesso senso che voler disegnare … un circolo quadrato. Per definizione la proposta educativa ha come interlocutore la libertà del soggetto che si intende educare.
Muoverci dunque secondo questo orientamento significa cercare la risposta alla questione educativa percorrendo una via che porta in direzione opposta.
La seconda risposta che escludo è più complessa, meno rozza spiritualmente. Senza addentrarmi in questioni storiche più precise, non c’è dubbio che l’attribuzione alla legge civile di una funzione educativa ha accompagnato la coscienza dell’Occidente: la legge produce costumi; i costumi generano una mentalità, un ethos. Tuttavia questa consapevolezza, da Socrate in poi, è stata sottoposta ad un tribunale superiore, quello della ragione che cerca la verità circa il bene dell’uomo.
Il processo di Socrate e la sua condanna a morte resta un evento fondatore della coscienza dell’Occidente. Quel processo ha posto in essa per sempre la consapevolezza che la persona ha una propria trascendenza, anche nei confronti delle leggi dello Stato. Una consapevolezza che giungerà alla sua chiarezza definitiva col cristianesimo.
Il mio pensiero che esporrò circa la questione educativa come questione politica, non si orienta secondo la convinzione che la legge è il fattore educativo principale, poiché essa o rimanda ad un referente superiore oppure questa posizione rischia di riproporre la prima risposta.
Ora possiamo entrare in argomento. Procederò nel modo seguente: cercherò di individuare i termini essenziali della questione educativa, oggi (1); cercherò di proporre la via di soluzione (2); mostrerò quale preciso apporto può dare chi ha responsabilità politiche (3).
1. Perché il rapporto educativo è diventato oggi così difficile, da costituire una vera e propria emergenza? Quando si dice "emergenza" si connota una situazione che non è di semplice sia pure grave difficoltà, ma una situazione che rischia, se non si interviene, di far crollare l’intero sistema educativo occidentale.
La mia risposta è la seguente. L’educazione è diventata un’emergenza perché i presupposti, i "fondamentali" che la rendono pensabile, sono ormai completamente distrutti. Ho detto "pensabile". Non si tratta semplicemente di una situazione nella quale l’educazione è diventata impraticabile. Ma di una situazione nella quale essa è diventata impensabile. La pratica educativa non è più proponibile come pratica intelligibile, e quindi sensata.
Vorrei ora spiegare tutto questo. Su quali presupposti si fonda la pratica educativa, quali sono i "fondamentali"? Sono almeno i seguenti.
Il primo: esiste una verità circa il bene/il male della persona umana. Per comprendere in profondità questo presupposto possiamo partire da un testo di Aristotile: "comunemente si ammette che ogni arte ed ogni ricerca, parimenti ogni azione ed ogni scelta, mirino ad un bene: perciò a ragione si è affermato che il bene è ciò a cui ogni cosa tende" [EN 1094 a 1-3]. La persona umana desidera raggiungere, aspira a raggiungere la pienezza del suo essere; e quindi a venire in possesso di quei beni che sono per l’uomo i beni che lo realizzano. Desidera, per esempio, vivere in società; la vita associata è un bene per l’uomo che, quando si realizza, completa, perfeziona la sua umanità.
L’aspirazione ai vari beni dal cui possesso dipende la realizzazione della persona, è ultimamente motivata dal desiderio di raggiungere il possesso di un bene che è capace di realizzare pienamente la persona. È il bene ultimo e sommo.
Abbiamo parlato di "aspirazione", di "desiderio". Non si tratta di un movimento cieco, di una inclinazione meramente spontanea, ma di un movimento che implica sempre un’attività della ragione, più precisamente di un giudizio della ragione. È un desiderio ragionevole o una ragione desiderante. Qualcuno infatti aspira a qualcosa perché giudica che il suo possesso sia un bene per l’uomo.
Ancora una riflessione prima di ritornare al nostro tema. Poiché l’uomo desidera ragionevolmente un complesso di beni in vista del raggiungimento del bene, è inevitabile che gradualmente la persona elabori un proprio progetto di vita. Il progetto dell’avaro è diverso dal progetto del santo.
Perché l’intima convinzione che esiste una verità circa il bene/il male della persona è il primo presupposto del processo educativo? Se l’educazione è la trasmissione di un progetto di vita [ανάστροφής πατροπαραδότου: cfr. 1Pt 1, 18]; se è precisamente educazione alla vita buona, delle due l’una. O sono convinto che la "definizione" di vita buona è condivisibile da ogni soggetto ragionevole, ed allora posso ritenere legittimo trasmettere un progetto, condivisibile da chi viene educato perché vero. O non esiste affatto una verità circa il bene della persona, condivisibile da ogni soggetto ragionevole, educando compreso, ed allora l’educazione perde ogni legittimazione perché diventa inevitabilmente prevaricazione sulla libertà dell’altro.
Il secondo: la ragione è capace di conoscere la verità circa il bene/il male della persona umana.
Diciamo subito che non si tratta dell’uso teoretico della ragione: la scoperta per esempio delle leggi della meccanica celeste. Ma stiamo parlando di un uso pratico della ragione. Di un uso cioè intimamente legato alla ricerca da parte della persona, al desiderio della persona di quei beni in cui essa trova realizzazione; ed in ultima analisi del bene ultimo.
Ora perché possa esistere un vero dialogo [διά – λόγος] fra le persone, è necessario che esse possano raggiungere "qualcosa riguardante la persona" intersoggettivamente argomentabile, controllabile e comunicabile. Un vero dialogo presuppone che ognuno possa essere, durante il suo svolgimento, testimone diretto e giudice di ciò che l’altro [nel nostro caso l’educatore] gli comunica come risultato ed espressione della propria esperienza. La capacità della ragione di istituire un tale dialogo consiste nella capacità di ciascuno di trascendere il semplice "a me pare che" o "a me piace che", e di attingere la verità circa un bene in cui ogni persona può riconoscersi.
Agostino ha scritto una pagina stupenda al riguardo:
"abbiamo […] una realtà di cui tutti possiamo godere in modo uguale e comune […]. Accoglie tutti i suoi amanti, per nulla gelosi di lei, è comune a tutti ed è casta con ciascuno. Nessuno dice ad un altro: "scostati, perché anch’io possa accostarmi, allontana le mani perché anch’io possa abbracciare". Tutti restano attaccati, tutti toccano proprio quell’oggetto. Il suo cibo non è spezzettato da nessuna parte; nulla bevi da essa che anch’io non possa. Dalla sua condivisione infatti non trasformi qualcosa in tuo possesso privato, ma ciò che tu ne cogli rimane integro anche per me […] ma essa è comune nella sua interezza a tutti contemporaneamente (simul omnibus tota est communis)" [Il libero arbitrio II, XIV, 37].
Perché questa capacità della ragione è uno dei presupposti della pratica educativa? Perché solo essa genera una pratica educativa – la trasmissione di un progetto di vita – che non si configura come imposizione ad un soggetto meramente passivo, ma come proposta che il soggetto è chiamato a confrontare con la sua esperienza umana. I due – educatore ed educando – sono legati perché intimamente orientati alla verità circa il bene della persona, orientamento che li fa oltrepassare se stessi.
Più sinteticamente. Delle due l’una: o tu pensi e pratichi l’educazione come incontro di due libertà, ed allora devi ammettere che c’è un solo modo di legarle senza distruggerle, la sottomissione alla verità [Agostino]; o tu neghi che l’uomo sia capace di oltrepassare se stesso, ed allora o neghi alla sorgente stessa l’educazione o la pratichi come imposizione.
Il terzo: esiste un naturale connubio fra le inclinazioni e la ragione [fra il pathos e il logos]; e una reciproca dimora delle inclinazioni nella ragione e della ragione nelle inclinazioni.
La persona umana non è uni-dimensionale. Essa è spirito; è psyche; è corpo. La costruzione di una persona umana che sia unificata nella sua triplice dimensione, è sempre stato un "nodo" centrale nella proposta educativa. I movimenti psichici infatti sono diretti secondo una logica che non è identica alla logica dei movimenti spirituali.
Il "nodo" può essere sciolto in tre modi. (a) Si propone di estinguere uno di essi: è la proposta secondo la quale l’uomo vero, perfetto, è colui che ha raggiunto una completa a-patia. Il pathos è stato spento. (b) Si propone una convivenza fra pathos e logos, secondo la quale ciascuno vive la sua vita propria. È la proposta che esalta lo spontaneismo, che in linea di principio deve essere totale. È la proposta di una separazione: un logos apathico; un pathos alogico. Il pensiero non deve essere affettivo; l’affezione non deve essere – non può essere – ragionevole. (c) Si propone l’integrazione del pathos nel logos. Integrazione significa unità di molti elementi, secondo un criterio gerarchico, nella quale ciascun elemento trova una forma più elevata di realizzazione.
Questa integrazione implica che alla base vi sia una naturale unità fra pathos e logos. C’è una pagina di S. Tommaso che spiega molto bene questo punto [cfr. 1, 2, q. 56, a. 4].
Egli si chiede se i nostri dinamismi psichici, le nostre passioni, sono capaci di agire virtuosamente. Egli risponde: se li considero come dinamismi a se stanti, sradicati cioè dalla persona, non sono capaci. Ma se considero il fatto che essi "partecipano della ragione, e quindi hanno un’inclinazione naturale ad obbedire alla ragione", possono agire virtuosamente.
Se nego questa unità di fondo fra ragione ed affezione, la pratica educativa o diventa disumanizzante o diventa incapace di proporre alla persona un bene che trascenda la sua soggettività psichica. L’archetipo umano è Narciso.
La mia convinzione è che la pratica educativa è diventata impensabile perché tutti e tre i presupposti che essa implica, sono ormai completamente erosi nella coscienza occidentale, e da essa in larga misura assenti.
2. Esistono vie d’uscita da questa condizione? Rispondo distinguendo. Che nella società occidentale esistano ancora buone pratiche educative, è un fatto di cui tutti siamo testimoni. Considerando questo fatto, alla domanda si deve quindi rispondere affermativamente. Queste buone pratiche sono testimoni di una verità circa l’uomo, e per ciò stesso custodiscono nella società occidentale la consapevolezza della via da percorrere per educare una persona.
Ma questa risposta non è esaustiva. Nessuno, neppure l’educatore, vive fuori della cultura, dello "spirito oggettivo" che è stato generato dalla negazione dei tre presupposti sopra richiamati. Uscire da una condizione spirituale [l’emergenza educativa] che è il capolinea di un processo storico, non è possibile se non attraverso un processo storico lungo e difficile.
La condizione spirituale in cui si trova a vivere l’uomo occidentale è costituita dal sistema utilitaristico. Di esso sono impastati la scienza dell’economia, così come della politica. I tre presupposti di cui si nutre la prassi educativa non possono reggersi dentro a questa "casa". Se l’uomo, se un popolo entra in essa, deve prima o poi lasciare fuori i tre fondamentali della prassi educativa.
È dunque necessario comprendere il sistema utilitaristico e poi vedere come uscirne. Solo così la prassi educativa diventerà praticabile, perché diventerà pensabile.
2,1. L’Occidente aveva costruito una dimora, un ethos, che radicato nel logos greco e nel diritto romano, era stata portata a termine dalla proposta cristiana.
Ma in questa casa è entrato un ospite inquietante, il quale ha completamente dissestato quella casa: ne ha cambiato l’assetto, lo stile di vita di chi vi abitava, tutto. L’ospite si chiama il soggetto utilitario.
Chi è il soggetto utilitario? È "l’ideal-tipo dell’agente il cui orizzonte antropologico è costituito dai suoi bisogni ed interessi […]. Il cui criterio di soddisfazione è paralizzato dalla psicologia centripeta dell’"amor proprio"" [F. Botturi, La generazione del bene, V&P, Milano 2009, 275].
Questa definizione ha un presupposto fondamentale, e alcune implicazioni, con conseguenze così profonde da creare un nuovo modo di vivere in Occidente.
Il presupposto. L’uomo è costitutivamente asociale: originariamente non è un soggetto – in – relazione. In quanto tale è per sé mosso ad agire solo dal proprio bene individuale. Fate bene attenzione. Si usa ancora la parola bene, ma essa ha cambiato significato.
Mentre il bene, fino alla nascita del soggetto utilitario, era pensato come ciò a cui tendono le inclinazioni naturali in quanto la ragione le plasma e dà loro forma; nel soggetto utilitario, il bene è ciò a cui l’individuo è inclinato dai suoi interessi, che per definizione sono sempre propri a ciascun individuo, e al cui servizio si trova la ragione.
La ragione nel soggetto utilitario perde dunque la sua egemonia nei confronti delle inclinazioni, in quanto essa ha solo il compito di individuare la via più sicura, più efficace per la loro realizzazione. Da egemone diventa serva.
Mentre fuori da questa riduzione della ragione è pensabile un vero dialogo su per es. quale società è più giusta, poiché la giustizia è un bene razionale; fra soggetti utilitari, ciò è impossibile, perché non esiste un bene comune in cui ogni ragione possa ritrovarsi.
Ma sono le implicazioni che ci fanno capire la logica interna del sistema utilitarista.
Nuovo concetto di ragione pratica. La ragione è la funzione pratica di calcolo, di previsione, di effettuazione, e di verifica post factum. La ragione non è da pensarsi come egemone, guida cioè cognitiva dell’agire in ordine alla realizzazione di una vita buona. Essa è al servizio; è strumentale alla realizzazione del proprio bene individuale, dei propri interessi, delle proprie preferenze. Essa ha il carattere di "esploratrice e spia" che cerca la via [cfr. Hobbes, Leviatano I, VIII, 16] per la realizzazione delle cose che l’individuo desidera.
È vero che in questo senso, la ragione ha ancora una funzione di guida, ma non nel senso di dare un giudizio circa la bontà di ciò che è voluto, ma, accettando l’inclinazione al bene individuale, ne mostra la via più efficace per realizzarlo.
Al posto del criterio della verità circa il bene si sostituisce il criterio dell’efficacità della condotta. Bene = efficacia = via migliore per realizzare il proprio desiderio [che è insindacabile] = razionalità tecnica.
Separazione insuperabile fra inclinazione sensibile o affettività e ragione. La percezione che fra i due dinamismi ci sia una originaria comunicazione è scomparsa nel soggetto utilitario. La percezione cioè che esiste un desiderio ragionevole o una ragione desiderante, non può sussistere nel soggetto utilitario: un esercizio cioè della ragione che si pone all’interno dell’inclinazione sensibile e un movimento dell’inclinazione dentro il giudizio della ragione.
Poiché tutto il discorso sulla virtù, come ho già accennato sopra, è fondato su questo connubio inclinazioni – ragione, il soggetto utilitario non ha più bisogno delle virtù. All’infuori di una, la prudenza. Essa però significa abilità, destrezza nel capire quali sono i mezzi più efficaci.
Negazione di una verità circa il bene, che possa essere condivisa da ogni soggetto ragionevole. A questo punto, la costruzione di un vero sociale umano diventa impossibile, anzi impensabile. Si arriva gradualmente alla "estraneità morale" degli uni agli altri. "La voce che ciascuno proferisce non è che un puro rumore per i suoi compagni di viaggio" [J. Maritain].
Il sistema utilitarista ha come conseguenza che tutta l’esperienza umana debba essere ripensata; si deve quindi costruire un nuovo edificio; una nuova dimora [ethos vuol dire questo] per l’uomo occidentale. Cosa che è stata progressivamente fatta attraverso un travaglio durato secoli. Indicare una data precisa d’inizio della nuova costruzione è pressoché impossibile, come per i grandi processi storici.
Un nuovo modo di vivere si è andato così imponendo dentro la casa, l’ethos occidentale. Esso è caratterizzato dai seguenti elementi.
(a) Non mette al centro la considerazione della persona che agisce in vista del raggiungimento di una vita buona, mediante l’esercizio delle virtù; il soggetto agente viene rifiutato come categoria centrale.
(b) Afferma che il rapporto sociale fra soggetti utilitari è il problema etico centrale.
(c) La costruzione di un sociale vivibile, deve prescindere dal soggetto che agisce, in quanto ognuno di essi ha una propria concezione del bene, un proprio progetto di vita, incomunicabile con quello degli altri, poiché non esiste una verità circa il bene nella quale ogni soggetto ragionevole possa riconoscersi [estraneità morale].
(d) La soluzione del problema etico [= costruzione di un sociale fra soggetti affettivamente asociali] è la produzione di un complesso di norme, di un ordinamento giuridico, puramente artificiale e convenzionale, escogitato dalla ragione strumentale secondo esigenze puramente formali di coerenza, funzionalità, universalità.
2,2. L’Occidente si sta rendendo conto quotidianamente che la casa costruita dal sistema utilitarista è inabitabile. Come uscirne? Accenno a quelle che mi sembrano tre vie fondamentali.
Parto da una costatazione. Tutto quanto è accaduto sul piano culturale dimostra che l’Occidente è stato scristianizzato: la forma mentis utilitaria è esattamente l’opposto della forma mentis cristiana. La scristianizzazione oggettiva dell’Occidente può dirsi opera compiuta.
Ne deriva che la prima via di uscita è costituita dalla ri-evangelizzazione dell’Occidente. È questa oggi l’urgenza più drammatica.
2,3. É falso pensare che il problema centrale sia il problema delle regole [da formulare – da proporre]. Il soggetto utilitario è refrattario alla regola. Dentro all’opera della ri-evangelizzazione, è necessario riprendere quelle vie, quei percorsi sui quali la persona umana riscopre se stessa, la verità su se stessa. I grandi educatori, da questo punto di vista, mi sembrano soprattutto Agostino e Pascal a Newman: ci hanno insegnato un metodo, appunto una via, perché l’uomo ritorni a casa.
2,4. L’idea del bene è stata falsificata da diversi punti di vista. Ed è questa "idea" che, come già Platone aveva visto, fa crescere la persona, come il sole gli organismi viventi.
Una delle falsificazioni più gravi è costituita dalla riduzione dell’amore ad emozione puramente soggettiva. Come ha insegnato Giovanni Paolo II, se l’uomo non conosce, non esperimenta l’amore, resta un enigma a se stesso.
La terza via fondamentale è l’esercizio della carità, la testimonianza della gratuità: chi è gratuitamente amato riscopre la vera dignità della sua persona. "Solo nell’amore l’uomo si desta alla sua piena esistenza personale, solo nell’amore egli attualizza la totale pienezza della sua essenza" [D. von Hildebrand, Man and women, Franciscan Herald Press, Chicago 1966, 32].
3. Siamo ora in grado finalmente di riflettere sulla questione educativa come questione politica. Consentitemi di partire da lontano. Ma è una lontananza sempre significativa.
S. Tommaso, che riprende e porta a perfezione la grande tradizione etica cristiana, la quale aveva assimilato la tradizione etica greca e la logica giuridica di Roma, introduce il discorso etico nella politica in modo molto attento e critico. Possiamo ridurre il risultato di questa introduzione alle seguenti tre linee operative.
a/ La legge positiva deve tollerare molti mali che la legge morale naturale proibisce [cfr. 1, 2, q. 94, a. 4]: non deve darsi coincidenza fra il codice morale e il codice legale;
b/ la legge positiva non deve imporre azioni o omissioni di tale eccellenza che solo l’uomo giusto o virtuoso è in grado di realizzare [cfr. 1, 2, q. 96, a. 2]: le leggi non sono fatte per le persone virtuose, ma devono limitarsi a richieste mediamente possibili per tutti;
c/ la legge morale ha come sua ragione di essere mantenere l’uomo sulla via che lo conduce a Dio medesimo; la legge positiva si propone semplicemente una vita buona in società, un bene-essere della vita sociale, più concretamente la pace e la giustizia sociale [cfr. 1, 2, q. 98, a. 1].
Si potrebbe sintetizzare dicendo: la proposta etica quando si rivolge alla società, può e deve accontentarsi di un minimo etico, dentro al quale ciascuno può realizzarsi secondo la propria concezione di vita buona. Oggi, anziché di "minimo etico" si parla di "beni non negoziabili": il concetto è lo stesso, ma è da preferirsi per la ragione che dirò subito.
"Beni": ciò a cui tende ogni soggetto umano come un bene che è assolutamente necessario per la persona; a cui tende con una inclinazione ragionevole.
"Non negoziabili": non sottoposti alla procedura propria della deliberazione democratica, che inevitabilmente termina sempre in un compromesso di interessi opposti.
La dizione "beni non negoziabili" ci fa compiere un passo importante nella nostra riflessione.
L’esperienza pratica e la conseguente descrizione e concettualizzazione di un "bene non negoziabile", è negata dal [l’esperienza], ed impossibile [la concettualizzazione] per il soggetto utilitario. Questi cioè è refrattario al concetto di "bene non negoziabile", perché ha reso impossibile alla persona umana l’esperienza originaria che genera quel concetto: l’esperienza di un bene per la persona così importante che non può non essere posseduto, e quindi difeso. È l’esperienza di un assoluto morale.
Detto in modo più semplice. Un minimo etico per una convivenza giusta e pacifica, non è indifferente a che sia proposto ad un soggetto utilitario o a un soggetto la cui ragione pratica lo costituisce cercatore di verità circa ciò che è il bene/male della persona.
[Si capisce che l’insistenza del S. Padre sull’allargamento della ragione tocca un "nervo scoperto" anche del nostro vivere associato].
E siamo così arrivati alla prima fondamentale risposta alla domanda da cui siamo partiti: quale apporto il politico può dare alla questione educativa? Risposta: sostituendo la matrice antropologica utilitaria che ha generato e nutrito la nostra vita associata, colla matrice personalista-relazionale.
Ma la risposta non è ancora registrata sul fare che è proprio del politico. Essa denota un evento culturale d’immensa portata, che può realizzarsi solo col contributo di molte competenze. La risposta dunque genera una seconda domanda: quale è l’apporto specifico del politico a che avvenga quella sostituzione di matrici? Prima di rispondere devo fare una premessa.
Credo che oggi nessuno neghi che l’idea di persona sia stata generata dalla fede cristiana. Fu uno sforzo immane che la fede impose alla ragione, la fede nei due misteri principali del cristianesimo: la Trinità; l’incarnazione del Verbo.
Poiché è una visione dell’uomo, immediatamente generata dalla ragione, essa [visione] è ragionevolmente argomentabile e difendibile, e quindi in linea di principio condivisibile da tutti.
In quanto ragionevole essa ha il diritto di abitare lo spazio dell’argomentazione che conduce alla deliberazione politica, di entrare nella discussione pubblica.
Tuttavia il passaggio da questa "visione dell’uomo" alle decisioni politiche ha bisogno di "assiomi di mediazione" [middle axioms]. Sono essi che costituiscono la Dottrina sociale in senso stretto.
Partendo dalla visione dell’uomo come persona, antitetica alla visione dell’uomo come soggetto utilitario; ragionevolmente argomentata e proposta dentro alla discussione politica; attraverso assiomi di mediazione [che nascono dal confronto fra la visione dell’uomo e i problemi della vita associata], si entra in un campo che normalmente ammette un pluralismo di scelte concrete e precise.
Mi spiego con un esempio che riguarda la distribuzione della ricchezza.
Ci sono persone che godono delle cosiddette "pensioni d’oro"; ci sono persone anziane al limite della miseria colla pensione che percepiscono.
Di fronte a questa situazione uno può dire: a ciascuno il suo, chi ha di più è perché ha meritato di più. È in sostanza la risposta a matrice utilitarista e quindi meritocratica. Fine del discorso.
La visione della persona, soggetto – in – relazione, invece afferma non solo il principio incontrovertibile della contribuzione personale [= è bene che chi contribuisce di più riceva di più], ma anche il principio della solidarietà. Esistono cioè relazioni di interdipendenza fra le persone, le quali devono diventare principio ordinatore di tutto il sociale. La conseguenza è che il problema delle pensioni è anche un problema di etica pubblica, non solo privata; di giustizia non solo contributiva.
Non è difficile far emergere il paradigma che ho usato nell’affrontare questo problema particolare.
a/ Esiste una visione dell’uomo [soggetto – in – relazione → interdipendenza solidale]; questa visione dell’uomo può essere argomentata razionalmente o direttamente o dialetticamente [nel confronto con altre visioni].
b/ Questa visione genera alcuni "assiomi di mediazione" che sono veri e propri principi orientativi e ordinatori del sociale umano. Nel problema nostro: bontà del principio contributivo e suo limite; principio di solidarietà.
c/ A questo punto, il politico elabora le soluzioni che ritiene più conformi agli assiomi di mediazione e, in ultimo, alla visione dell’uomo affermata e argomentata.
In questo ambito si possono proporre soluzioni diverse pur usando gli stessi assiomi e partendo dalla stessa visione dell’uomo. Nascono le "parti", cioè i "partiti".
Fatta questa premessa, posso rispondere finalmente alla domanda: quale è l’apporto specifico del politico alla sostituzione della matrice utilitaria colla matrice personalista? Rispondo per proposizioni distinte.
a/ Avere sempre chiara la visione dell’uomo generata dalla fede, e sapere dare ragione, argomentazioni razionali della sua verità;
b/ agire concretamente [non parlo della coerenza sul piano personale] fra quella visione e le argomentazioni e scelte politiche che si fanno. Il test prioritario, non unico, è l’affermazione dell’esistenza di "beni non negoziabili" la cui difesa è il "minimo etico" della vita associata;
c/ la coerenza di cui sopra in b/ è assicurata dall’uso pubblico degli assiomi di mediazione [= dottrina sociale della Chiesa, in senso stretto] che ci guidano alle decisioni politiche che assicurano le condizioni nelle quali ciascuno può vivere secondo la sua concezione di vita buona.
Mi limito semplicemente a richiamare gli assiomi di mediazione. Sono quattro: la dignità assoluta di ogni persona umana dal concepimento alla morte naturale; il principio del bene comune; della sussidiarietà; della solidarietà.
Questo è l’apporto del politico. Non di più: rischierebbe lo Stato etico; non di meno: rinunciando al cambiamento della matrice antropologica, curerebbe la malattia mortale di cui soffrono le società occidentali, pensando di curare i sintomi o con intervento palliativi. E non usciremmo dall’emergenza educativa.
Faccio una breve sintesi di tutta la nostra riflessione. La domanda di fondo era: quale è l’apporto specifico che il politico può dare alla soluzione della questione educativa? Il cammino che ci ha portato alla risposta è stato il seguente.
Ho in primo luogo individuato le ragioni per cui oggi la questione educativa è divenuta insolubile. (§ 1)
In secondo luogo ho cercato di mostrare la matrice che ha generato e nutre quelle ragioni: una svolta antropologica, un cambiamento radicale nella autocoscienza dell’uomo. (§ 2)
In terzo luogo, partendo dal concetto di etica pubblica, ho risposto alla domanda. (§ 3)
L’impegno è enorme. Ma il cristiano non per la prima volta si trova a vivere svolte epocali. Non dimentichiamo ciò che diceva De Gasperi: "la differenza fra l’uomo politico e l’uomo di Stato è che il primo pensa alle prossime elezioni, il secondo alle prossime generazioni". Non possiamo consegnare alle prossime generazioni un vivere associato creato dalla soggettività utilitaria.
|