Relazione "Chiamati a servire Gesù nel servizio ai poveri: chi nel matrimonio, chi nella vita religiosa, chi nel sacerdozio" al convegno in occasione del 30° anniversario della fondazione della Caritas Diocesana e in preparazione al Congresso Eucaristico Diocesano
10 marzo 2007
Il trentesimo anniversario della Caritas Diocesana è occasione propizia per riflettere sul tema della carità. Abbiamo voluto dare un tema a questa riflessione: "chiamati a servire Gesù nel servizio ai poveri: chi nel matrimonio, chi nella vita religiosa, chi nel sacerdozio".
La formulazione in sostanza individua due grandi tematiche: la presenza di Gesù nel povero; il coinvolgimento dell’intero corpo ecclesiale, qui denotato nei suoi tre fondamentali stati cristiani di vita, coniugale, consacrato, sacerdotale. Non a caso sono state individuate queste due tematiche.
Celebrando il trentesimo anniversario della nostra Caritas diocesana era opportuno riprendere coscienza più robusta della sua radice teologica e riflettere sul coinvolgimento di tutta la comunità cristiana. Procederò dunque nel modo seguente. Dedicherò il primo punto ad una tesi insegnata da Benedetto XVI e che costituisce la base teologica di tutta la riflessione seguente. Nel secondo punto presenterò alcuni orientamenti fondamentali per l’esercizio della carità nella nostra Chiesa per il futuro prossimo. Nel terzo ed ultimo punto darò alcune indicazioni pratiche per attuare meglio gli orientamenti fondamentali.
1. La tesi fondamentale.
La tesi fondamentale è enunciata da Benedetto XVI nel modo seguente: "praticare l’amore appartiene all’essenza della Chiesa tanto quanto il servizio dei sacramenti e l’annuncio del Vangelo" [cfr. Lett. Enc. Deus caritas est 22].
Prima di spiegare il significato profondo e la portata di questa proposizione teologica, faccio alcune necessarie premesse.
Il s. Padre non sta parlando dell’amore verso il prossimo in quanto compito e prassi di ogni singolo fedele: non è un affermazione etica. Sta parlando dell’amore verso il prossimo in quanto compito e prassi della Chiesa come tale: è un affermazione ecclesiologica. Essa riguarda la comunità ecclesiale a tutti i suoi livelli: dalle comunità locali [= parrocchie] alla Chiesa particolare, dalla Chiesa particolare alla Chiesa universale. Anche noi questa mattina non parleremo dei singoli fedeli ma della nostra Chiesa particolare come tale: della Chiesa di Dio che è in Bologna.
L’equiparazione di "pratica della carità", "servizio dei Sacramenti", "annuncio del Vangelo" viene compiuta dal s. Padre in rapporto all’essenza della Chiesa. Ciò che definisce la Chiesa è "tanto quanto" l’esercizio della carità, la celebrazione dei sacramenti, la predicazione del Vangelo. Le essenze, insegnava Aristotele, sono come i numeri: togli da un numero anche una sola unità e hai un altro numero. Togli dalla Chiesa una di queste tre attività e non hai più la Chiesa nella sua intera realtà. Voi dunque comprendete che noi questa mattina stiamo parlando di "qualcosa" che nella Chiesa ha la stessa dignità della liturgia e della predicazione della Parola di Dio.
Fatte queste opportune premesse proviamo a scoprire la ragione per cui "praticare l’amore appartiene all’essenza della Chiesa tanto quanto il servizio dei sacramenti e l’annuncio del Vangelo". Percorriamo la strada che mi sembra percorra il s. Padre nella sua Enciclica.
Inizio da uno stupendo testo di S. Agostino, che dice: "Abbraccia il Dio amore e abbraccia Dio con l’amore. È quello stesso amore che associa tutti gli Angeli buoni e tutti i servi di Dio con il vincolo della santità e che ci unisce scambievolmente insieme, essi e noi, unendoci a lui che è al di sopra di noi. Quanto più dunque siamo esenti dal gonfiore della superbia, tanto più siamo pieni di amore" [De Trinitate VIII, 8, 12; NBA IV, pag. 353].
Si dà in questo testo una "definizione" della Chiesa in tutta la sua verità più profonda: la Chiesa è un "vincolo", è una "unione" posti in essere dall’amore che è Dio e dall’amore che ama [Agostino usa un termine molto forte: amplesso – "amplectere"]. Vi prego di fare attenzione. Non si definisce la Chiesa come una comunità posta in essere da una prassi umana, l’esercizio della carità; e quindi soggetta all’incerta perseveranza dell’uomo in esso. Si definisce la Chiesa come partecipazione alla vita di Dio. Amore: una partecipazione che ci può essere solo donata. Da questo punto di vista la Chiesa non è soggetta all’infedeltà umana poiché è fondata sulla fedeltà divina. Potrei anche esprimere questo pensiero nel modo seguente.
Esiste una realtà, è accaduto un fatto: Dio ha messo a disposizione Se stesso dell’uomo [e degli angeli]; questa disponibilità divina è la Chiesa, nella quale la vita del Dio-Amore diventa storia umana. Ogni uomo vi partecipa o rifiuta di parteciparvi senza che questo intacchi la misura della disponibilità divina. In ordine ad essere illuminato, dipende da me pormi nello spazio luminoso, o in un luogo non illuminato, ma la mia posizione né aumenta né diminuisce la luminosità della sorgente luminosa.
Detto questo, tuttavia, se l’intima essenza della Chiesa è "quello stesso amore che associa tutti gli Angeli buoni e tutti i servi di Dio", ne deriva che l’espressione più alta della Chiesa è l’esercizio della carità. Una sorgente luminosa illumina; una sorgente di calore riscalda: la carità ama.
Senza la predicazione del Vangelo la Chiesa cesserebbe di esistere perché verrebbe tolta all’uomo la possibilità di credere in Dio: di essere introdotto nella realtà. Senza la celebrazione dei sacramenti la Chiesa cesserebbe di esistere perché verrebbe tolta all’uomo la possibilità di vivere in Cristo: di essere partecipe della vita divina. Senza l’esercizio della carità la Chiesa darebbe l’annuncio della sua fine perché l’organismo morto non può più agire: la carità è espressione irrinunciabile della sua essenza.
Poiché emanano della stessa realtà, predicazione-liturgia-carità sono fra loro strettamente connesse e l’una implica l’altra. La prova è che non raramente negli scritti neo-testamentari il "vocabolario" dell’una serve a descrivere le altre. Due esempi: l’apostolo Paolo pensa alla sua missione di evangelizzatore come un servizio liturgico che fa delle genti un sacrificio gradito a Dio. Presenta la colletta dei Corinzi in favore della chiesa di Gerusalemme come un atto liturgico. Nel vocabolario cristiano la comunità cristiana viene chiamata la "carità": "vestra caritas", dice abitualmente Agostino quando si rivolge alla sua Chiesa.
Concludo colle parole di Benedetto XVI: "La Chiesa non può trascurare il servizio della carità così come non può tralasciare i Sacramenti e la Parola" [22].
2. Orientamenti fondamentali per la carità.
La fondazione teologica che ho brevemente schizzata nel punto precedente ci conduce a formulare alcuni orientamenti fondamentali per l’esercizio ecclesiale della carità. Mi limito a formularne tre.
2,1. Il primo è ancora una conseguenza immediata di quanto detto finora. Lo formulo ancora una volta colle parole del s. Padre "l’amore ha bisogno anche di organizzazione quale presupposto per un servizio comunitario ordinato" [20].
A prima vista può sembrare una contraddizione nei termini parlare di "organizzazione della carità". Non c’è dubbio che questa impressione ha una sua ragione d’essere, su cui rifletterò più avanti. Ci basti per il momento ricordare il fatto dell’istituzione dei diaconi [cfr. At 6,1-6]. Essa ha una sola ragione. L’esercizio ecclesiale della carità esigeva un ordine altrimenti ci sarebbero stati poveri emarginati anche all’interno delle comunità cristiane. La Chiesa dunque fin dalle origini ha preso coscienza di questa esigenza: organizzare, ordinare, istituzionalizzare l’esercizio ecclesiale della carità. Il papa S. Gregorio Magno aveva diviso la città di Roma in diaconie così che la distribuzione dei beni necessari ai poveri fosse assicurata. A capo di ogni diaconia c’era un diacono, di assoluta onestà, e che godeva della fiducia del Papa così tanto che non doveva rendergli nessun rendiconto [cfr. Lett. XI, 17].
L’erezione della Caritas diocesana risponde precisamente all’esigenza che la carità ha "di organizzazione quale presupposto per un servizio comunitario ordinato". La Caritas diocesana è lo strumento istituzionale mediante il quale il Vescovo esercita la "presidenza della carità".
Pertanto la ragione d’essere della Caritas diocesana è di animare, coordinare, promuovere e formare alla carità ed al suo esercizio.
Essa ha il compito fondamentale di educare alla carità e di presiedere alle varie istituzioni ecclesiali che esprimono e realizzano l’esercizio ecclesiale della carità.
Ciò non significa che la Caritas diocesana non debba in assoluto anche "praticare la carità". Vale anche nell’organizzazione della carità, per un servizio comunitario ordinato, il principio di sussidiarietà. Esistono servizi che per loro natura – difficoltà obiettiva, competenza richiesta, straordinarietà del bisogno o altro – devono essere compiuti direttamente dalla Caritas in prima persona.
Anche lo Statuto diocesano della Caritas al riguardo è esplicito: la finalità della Caritas è primariamente quello di "animazione" e di "comunione" [cfr. art. 2].
2,2. Il secondo orientamento non è meno importante. Anch’esso lo formulo colle parole del s. Padre: "Le organizzazioni caritative della Chiesa costituiscono … un suo opus proprium, un compito a lei congeniale, nel quale essa non collabora collateralmente, ma agisce come soggetto direttamente responsabile, facendo quello che corrisponde alla sua natura" [29,3]. Il tema è di grande importanza teologica e pratica. Che cosa in fondo dice il s. Padre? Cercherò ora di spiegarlo.
Non dimentichiamo che non stiamo parlando dell’esercizio della carità del singolo fedele che a nome proprio si fa carico dei bisogni, del bene del prossimo. Un esercizio che va dalle opere quotidiane di misericordia all’attività politica in senso vero e proprio, che in un certo senso è la forma più alta dell’esercizio della carità.
Stiamo sempre parlando dell’esercizio della carità da parte della Chiesa come tale, che si esprime in Associazioni di fedeli riconosciute, in Congregazioni religiose, mediante la Parrocchia, e nella sua forma di espressività ecclesiale più alta nella Caritas diocesana.
Questo esercizio della carità non deve essere pensato, nella sua natura più profonda, come co-operazione collaterale ad istituzioni civili, ma come operazione specificamente propria. È, a ben riflettere, una conseguenza di quanto abbiamo detto nel primo punto. Esiste un esercizio della carità nel quale la Chiesa esprime semplicemente se stessa, e quindi quell’esercizio ha una sua propria natura.
Da ciò deriva che la "programmazione" degli interventi caritativi non deve essere fatta da soggetti non ecclesiali. È la Chiesa che deve avere gli "occhi del cuore illuminati" per vedere i bisogni dell’uomo. È questo il senso della responsabilità programmatica ed animatrice che possiede in proprio la Caritas diocesana. Come dissi in un’intervista al principale quotidiano italiano, la Chiesa non è la Croce Rossa chiamata a raccogliere i feriti della società civile. Quanto detto finora tuttavia non significa due cose; anzi il contrario.
Primo. Nell’esercizio suo proprio della carità la Chiesa può, anzi in alcuni casi, deve cooperare con altre istituzioni anche pubbliche, ogni volta che lo richiede il bene della persona. Collaborazione che può avvenire ad ogni livello. Essa comunque deve essere ad actum e mai istituzionalizzata.
Può essere che qualcuno ritenga esagerato o comunque non opportuno ciò che dico; non opportuno questo orientamento che sto dando. Vi propongo allora una riflessione al riguardo.
Nella prima parte della mia relazione ho detto che Parola-Sacramento-Carità si connettono e si richiamano a vicenda. Ora noi sappiamo come la Parola di Dio, la divina Rivelazione, deve essere custodita nella sua integrità, e come le nostre menti devono essere caste al riguardo, rinunciando ad ogni amplesso che non sia quello colla Parola di Dio. Sappiamo anche come non possiamo cedere a nessun sincretismo culturale. Analogamente, dobbiamo custodire l’ecclesialità del servizio della carità. Solo così avremo cura dell’uomo, di ogni uomo, senza nessuna discriminazione.
Secondo. Mantenendo integra la purezza della nostra carità, custodiremo quella capacità di giudizio critico nei confronti del mondo e dei suoi programmi economici, sociali e politici, che è dimensione essenziale del giudizio di fede: "siete stati comprati a caro prezzo: non fatevi schiavi degli uomini" [1Cor 7,23].
Un’appendice, se così posso chiamarla, a questo secondo orientamento fondamentale. Esiste un ordinamento giuridico statale che disegna, configura il pacifico svolgimento della vita associata. Non c’è dubbio che anche l’esercizio ecclesiale della carità deve svolgersi nel rispetto di questo quadro della legge civile.
Propter utilitatem hominis omne jus constitutum est, dicevano già i latini. Se per rispetto della legalità nego l’aiuto urgente ad un uomo, non sono solo uno che pecca contro la carità, ma anche contro il buon senso: se uno ha fame, prima di sfamarlo, non devo chiedere che esibisca il permesso di soggiorno!
2,3. Il terzo orientamento è una conseguenza di quanto abbiamo detto finora: l’esercizio ecclesiale della carità privilegia la gratuità. Oggi normalmente si dice: volontariato.
Esiste una sorta di "armonia prestabilita", una intrinseca sintonia fra l’esercizio ecclesiale della carità ed il volontariato. È necessario orientarci in questa direzione. "Si colgono, infatti, alcuni nodi critici che spesso limitano l’agire del volontariato: una certa sensazione di inutilità; una sorta di dipendenza dal riconoscimento delle istituzioni pubbliche, anche sul piano delle risorse economiche; il ricorso crescente allo strumento delle convenzioni e delle sovvenzioni; una certa spinta ad assumere logiche di tipo aziendale" [Comunicato Cons. perm. CEI del 29.03.2004, n° 7; Ench. CEI 7/1346].
Effettivamente non riesco a pensare nel suo insieme l’esercizio ecclesiale della carità fuori dalla prospettiva del volontariato.
Ciò non significa che proprio a causa dell’esigenza organizzativa della carità, di cui ho parlato; a causa della difficoltà obiettiva di alcuni servizi della carità, non sia necessaria l’opera di veri professionisti, fuori di un rapporto di volontariato. Sto parlando di orientamento fondamentale, generale, nell’organizzazione della carità.
Non c’è dubbio poi che nulla estingue la forza della carità quanto la burocratizzazione del suo esercizio.
3. Indicazioni pratiche.
In questo terzo ed ultimo punto vorrei molto semplicemente darvi alcuni indicazioni pratiche per facilitare il cammino secondo i tre orientamenti suesposti. Si tratta di indicazioni molto semplici. Cercherò di dare ad esse un certo ordine espositivo sulla falsariga dell’esposizione degli orientamenti fondamentali.
3,1. Esiste una grande ricchezza di soggetti operativi nell’ambito caritativo. È una delle ricchezze più preziose della nostra Chiesa. Penso che sia necessario giungere alla costituzione di una "Consulta ecclesiale della Carità". È lo strumento di un esercizio ecclesiale della carità veramente integrato. Ed anche per facilitare alla Caritas quel servizio di animazione e promozione che la caratterizza.
3,2. Nel "Piccolo direttorio per la pastorale integrata" ho chiesto di istituire in ogni Vicariato pastorale un Osservatorio. Dentro a tale Osservatorio, è utile che vi sia qualcuno che si proponga una rilevazione dei bisogni, delle necessità cui la carità della Chiesa possa rispondere.
Il Vicario episcopale della Carità è l’alter ego del Vescovo e primo corresponsabile con lui dell’esercizio ecclesiale della carità.
3,3. Se le prime due indicazioni erano in rapporto al primo orientamento fondamentale, questa indicazione pratica emerge dal secondo orientamento.
Esiste un modo ecclesiale di percepire i bisogni della persona. Negli Atti degli Apostoli mi ha sempre fatto molto riflettere il fatto che i diaconi, da una parte, sono stati istituiti per il servizio alle mense, ma, dall’altra, dei due soli diaconi di cui si parla – Stefano e Filippo – si mette in rilievo il loro sevizio all’evangelizzazione.
La Chiesa ha una visione gerarchica dei beni umani, dei beni di cui ha bisogno l’uomo per realizzare la sua umanità. Una gerarchia costituita sul criterio dell’urgenza: se una ha fame la prima cosa da fare è dargli da mangiare. Esistono beni umani che pur non essendo obiettivamente più importanti, sono però più basilari, più condizionanti gli altri. Ma esiste anche una gerarchia di beni istituita in base alla loro dignità intrinseca. Come insegna Gesù esiste un "pane che perisce" ed esiste "un pane che dura per la vita eterna".
La natura specificamente ecclesiale dell’esercizio della carità esige che quella duplice gerarchia sia rispettata. Quali sono oggi i beni umani di cui la Chiesa nella sua carità deve più urgentemente preoccuparsi? È il bene umano dell’educazione delle giovani generazioni. Chiedo a tutti di riflettere seriamente su questa urgenza. La prima, e la più urgente carità che la Chiesa oggi può fare è offrire all’uomo la sua proposta educativa: è la carità dell’educazione.
L’altro bene oggi di particolare urgenza è il bene umano della vicinanza alla sofferenza: assistenza alla persona ammalata ed anziana. Assisto con grande preoccupazione ad un progressivo assentarsi della Chiesa dalle strutture sanitarie [ospedali, case di cura …]. Non possiamo dimenticare che Gesù inviando i suoi discepoli in missione, chiese loro di fare tre cose: annunciare il Vangelo, scacciare i demoni, curare gli infermi. Cioè: parola, santificazione, carità verso gli infermi.
Mi limito a queste due urgenze. Chiedendovi di riflettere seriamente su di esse.
3,4. Esiste poi l’urgenza di pensare a percorsi che recuperino la presenza del volontariato nell’esercizio ecclesiale della carità. Durante questo trentesimo anniversario della Caritas è un obiettivo da perseguire seriamente.
Conclusione
Nella storia della Chiesa noi osserviamo il seguente fenomeno. Vicino alla permanente organizzazione dell’esercizio ecclesiale della carità lo Spirito Santo suscita sempre uomini e donne che investite della sua potenza esprimono la carità della Chiesa in modalità nuove e con una genialità singolare. C’è solo l’imbarazzo della scelta se si volesse esemplificare. Penso a S. Luigi Orione, a S. Giovanni Bosco, a S. Francesca Cabrini. Guai se non fosse così! L’esercizio organizzato a lungo andare diventerebbe così burocratizzato da servire solo a se stesso.
È questa la difficoltà insita in questa espressione e realizzazione del Mistero della Chiesa, che è la carità. Essa è la vita di Dio; essa è la presenza dello Spirito Santo dentro la nostra storia. Come esserne portatori? Come "organizzarla"? i Padri della Chiesa ne erano profondamente consapevoli quando scrivevano che essi si sentivano incapaci perfino di parlarne.
S. Giovanni Climaco scrive: "Chi parla della carità, parla di Dio stesso. È opera difficile e rischiosa per chi non valuta bene i termini. Parlare della carità è opera degli angeli e, anche per essi, è più o meno difficile a seconda del grado di illuminazione ricevuta"
Anche la nostra Chiesa di Bologna ha avuto il dono di uomini che ricevettero lo Spirito della carità. Per limitarmi alla seconda metà del secolo appena trascorso, il servo di Dio Olindo Marella e don Giulio Salmi. Siamo eredi di una grande storia di carità: siamone degni. E soprattutto non interrompiamola, ma siamone continuatori fedeli.
|