Il catechista "maestro"
Relazione al Congresso Diocesano Catechisti
1 ottobre 2006
Nel nostro itinerario finalizzato a cogliere l’identità del catechista, siamo giunti alla terza dimensione essenziale della sua figura: il catechista è un maestro della fede.
Parlare oggi di questo tema non è facile, per le ragioni che diremo; ma è ogni giorno più necessario che la catechesi sia anche un vero e proprio insegnamento di una dottrina: è una vera e propria istruzione. Quando si apprende una scienza, è necessario conoscerne i termini e i concetti fondamentali: il vocabolario potremmo chiamarlo. È necessario conoscerne con precisione i contenuti: in se stessi e nei loro rapporti reciproci.
Analogamente esiste un vocabolario cristiano [si pensi a termini come "sacramento", "grazia di Dio", "redenzione" …]; la fede cristiana è anche una dottrina, un sapere con contenuti precisi. Quando si dice che il catechista è maestro della fede, ciò significa che egli deve trasmettere la conoscenza di una dottrina vera e propria.
Ciò premesso – il tutto sarà meglio precisato nel corso della riflessione – sorgono almeno due domande: è necessario che il catechista sia anche maestro nel senso suddetto oppure può anche esimersi dal trasmettere la fede come una dottrina vera e propria? La seconda domanda: se è necessario, come si può adempiere questa esigenza inscritta nella catechesi? Ma oggi non possiamo non farci anche una terza domanda: quale difficoltà oggi il catechista incontra se vuole, come deve, essere anche un maestro della fede e come affrontarle? Dividerò pertanto la mia riflessione in tre punti in corrispondenza alle tre domande: necessità; metodo; difficoltà.
1. Il catechista è – deve essere un maestro
La necessità che il catechista sia un maestro nel senso rigoroso del termine è dimostrata da due punti di vista. Dal punto di vista della divina Rivelazione; dal punto di vista del destinatario della medesima, la persona umana. Svolgerò ora la mia riflessione distintamente da ciascuno dei due.
1,1. Il punto di partenza è costituito da quanto il Concilio Vat. II dice in modo mirabile: "Piacque a Dio, nella sua bontà e sapienza, rivelare se stesso e far conoscere il mistero della sua volontà (cf. Ef 1,9), mediante il quale gli uomini per mezzo di Cristo, Verbo fatto carne, nello Spirito Santo hanno accesso al Padre e sono resi partecipi della natura divina (cf. Ef 2,18; e Pt 1,4)" [Cost. dogm. Dei Verbum 2].
Il termine "Rivelazione" connota dunque un fatto: Dio si dona a conoscere all’uomo e fa conoscere all’uomo il progetto che Egli ha nei suoi confronti. Questo progetto è che l’uomo partecipi la stessa natura divina. La "Rivelazione" quindi è inscindibilmente teologica: è Dio stesso che rivela se stesso, e antropologica: è Dio stesso che svela all’uomo il suo destino.
La parola "Rivelazione" - questo è un punto centrale – non connota semplicemente un discorso, come se Dio rivelasse se stesso e facesse conoscere il mistero della sua volontà parlando solamente. Ma la "Rivelazione" connota anche, anzi in primo luogo, un complesso di atti compiuti da Dio stesso; connota un insieme di avvenimenti di cui è responsabile, attore Dio stesso. E’ attraverso di essi che Dio svela se stesso e fa conoscere il mistero della sua volontà. Ma, sempre per avere un concetto quanto possibile preciso di "Rivelazione", a questo punto è necessario fare una riflessione.
Ascoltando quanto detto finora, non vorrei che voi pensaste nel modo seguente: Dio mi fa conoscere Se stesso ed il suo progetto sull’uomo mediante fatti e parole. Ma la realizzazione del progetto divino sull’uomo, più precisamente della sua volontà di rendere partecipe l’uomo della sua divina natura, si pone però per così dire dopo che Dio ne ha parlato in parole e fatti. Le cose non stanno così: Dio rivela se stesso e fa conoscere il suo progetto realizzando questo progetto stesso; Dio rivela realizzando ciò che rivela e realizza rivelandosi. S. Tommaso dice stupendamente: "dicere Dei est facere" [in 1Cor 1, lect.2, n.1; ed anche in Ps 32,9].
La "Rivelazione" dunque non è semplicemente una istruzione alla quale poi farebbe seguito la donazione integrale che Dio compie di Se stesso all’uomo.
Ora possiamo capire il testo seguente del Vaticano II: "Questa economia della Rivelazione avviene con eventi e parole tra loro intimamente connessi, in modo che le opere, compiute da Dio nella storia della salvezza, manifestano e rafforzano la dottrina e le realtà significate dalle parole, e le parole proclamano le opere e illuminano il mistero in esse contenuto".
La "Rivelazione" compiuta a suo tempo dentro la storia consta dunque di atti che realizzano il disegno di Dio e sono spiegati dalle parole, e di parole che spiegano e rendono comprensibili gli atti. Possiamo aiutarci con un esempio. Un ragazzo fa un regalo alla sua ragazza dicendole che le vuole bene. Analizziamo bene questo avvenimento. Esso è un fatto: una persona fa un dono alla persona amata. Che cosa spiega che questo fatto è in realtà un dono e non qualcosa d’altro [per es. la restituzione di un oggetto prestato]? Le parole che in quel momento il ragazzo dice. Anzi più profondamente: l’intima affezione amorosa che lo lega a quella ragazza. Analogamente (partendo dall’ultima affermazione): c’è nel cuore di Dio un "consilium" nascosto, quello di chiamare l’uomo alla Sua beatitudine. Dio compie dei gesti nei confronti dell’uomo per manifestare-realizzare quel "consilium". Che cosa spiega all’uomo che quei gesti compiuti da Dio sono il segno efficace [sono la "res"] di quel "consilium" e non di altro? La parola che Dio dice all’uomo. Dunque, ricapitolando: gli atti rivelatori – realizzatori del piano divino sono spiegati dalle parole; d’altra parte le parole, anche se secondarie per rapporto agli atti di cui spiegano il senso, sono necessarie perché ne mettendo in luce il "mistero in essi contenuto". Sono necessarie, perché "la Rivelazione di Dio è il suo lasciarsi - vedere che fa perciò appello inequivocabilmente alla comprensione del credente, alla vista della sua ragione" [H.U. von Balthasar, Gloria, 3 vol. 2, ed. Jaca Book, Milano 1978, pag. 194].
Siamo così arrivati al punto centrale. Riprendiamo in mano il testo conciliare: "La profonda verità, sia su Dio sia sulla salvezza dell’uomo, per mezzo di questa rivelazione risplende a noi in Cristo, il quale nello stesso tempo è il mediatore e la pienezza dell’intera rivelazione".
Fino ad ora in un certo senso avevo descritto la "forma" della Rivelazione: una descrizione formale. Ora diciamo veramente che cosa è la Rivelazione [sappiamo che cosa denota questa parola]: è Gesù Cristo. Nel senso, spiega il Concilio, che Egli è il mediatore e la pienezza dell’intera Rivelazione. Mediatore: egli è l’inviato del Padre di cui tutti gli altri non erano che la preparazione; la pienezza: è in Lui che il Padre "rivela Se stesso e fa conoscere il Mistero della sua volontà" interamente. Cioè: è Cristo stesso la Rivelazione intera del Padre e del disegno di Questi sull’uomo. Egli è il messaggero e il contenuto del messaggio; il rivelante ed il rivelato; il rivelante al quale bisogna credere, la verità rivelata nella quale bisogna credere. Il Vangelo di Cristo è il Vangelo che è Cristo. La Rivelazione è la sua Persona, la sua vita, la sua morte e risurrezione. Ora si comprende meglio perché la Rivelazione "avviene con eventi e parole fra loro connessi". La Rivelazione è il dono che il Padre fa del suo Unigenito: essa dunque è in primo luogo una "res", un fatto [ricordate l’esempio] a cui sono ordinate le parole. Esse sono necessarie perché l’avvenimento sia compreso ed assimilato.
Arrivati a questo punto possiamo tentare una definizione descrittiva di Rivelazione: la R. è l’insieme degli eventi e delle parole ad essi intimamente connesse attraverso cui Dio manifesta se stesso e fa conoscere il mistero della sua volontà a noi in Cristo, il quale è nello stesso tempo mediatore e pienezza dell’intera Rivelazione.
Dentro al contesto della Divina Rivelazione noi possiamo capire la necessità che il catechista sia maestro.
La "parola", la comunicazione cioè di ciò che Dio pensa, è una dimensione essenziale dell’evento rivelativo: il Verbo è pensiero ed il pensiero chiede di essere conosciuto.
Che cosa significa dire il "catechista è maestro"? che egli deve far conoscere ciò che Dio in Cristo ha rivelato. Deve far conoscere "fatti e parole tra loro intimamente connessi" nei quali è avvenuta la divina Rivelazione. Sottolineo: far conoscere. Trasmettere cioè la verità circa Dio stesso ed il mistero della sua volontà. Scrive con mirabile semplicità S. Tommaso: "uno non può credere se non gli viene proposta la verità a cui credere" [2,2, q.1, a.9].
1,2. Quanto detto finora risulterà più chiaro considerando le cose dal punto di vista della natura della persona umana.
Come dice il testo già citato del Vat. II, il mistero o il progetto della volontà di Dio è che gli uomini per mezzo di Gesù Cristo, nello Spirito Santo, abbiamo accesso al Padre e siano resi partecipi della stessa vita divina. In parole più concise: ogni uomo è stato creato in vista dell’eterna comunione col Padre. È questo lo scopo, il fine ultimo della sua vita.
È proprio della persona, cioè di un soggetto libero, agire consapevolmente: sapendo ciò che si vuole fare ed in vista di che cosa si vuole agire. Togliete questa consapevolezza e l’azione non è più umana in senso vero e proprio. È un’azione che accade nella persona, ma non è della persona.
Se dunque Iddio, nella sua bontà e sapienza, ha destinato l’uomo ad un fine che è inconoscibile dall’uomo; se l’uomo deve raggiungere questo fine in modo umano, conforme alla sua natura e dignità di soggetto libero, deve conoscerlo. La Divina Rivelazione quindi deve essere anche comunicazione di conoscenze: deve essere "sacra doctrina".
È proprio dell’uomo conoscere la realtà mediante il giudizio che si esprime attraverso la proposizione. Due sono le domande in cui si esprime il desiderio di conoscere: x esiste o non esiste? e: che cosa è x? Alla prima rispondo semplicemente "si-no"; alla seconda rispondo: x [= soggetto] è y, z … [= predicato]. È la seconda operazione che mi fa conoscere. Anche la Divina rivelazione si adegua, condiscende a questa modalità umana. Essa si dice e si comunica attraverso proposizioni. Si chiamano "articoli della fede". Mediante la fede l’uomo conosce Dio in se stesso e nel mistero della sua volontà andando al di là della verità conoscibile dal proprio intelletto. Però l’uomo attinge la divina verità nel suo modo proprio, cioè mediante la formulazione di giudizi espressi con delle proposizioni. La verità umanamente conosciuta risiede sempre nel giudizio razionale.
Possiamo spiegaci con due esempi. La luce che è una sola ed ha cioè un solo colore, incontrando un cristallo si diversifica in tanti colori. Analogamente la verità stessa di Dio che è una, incontrando la nostra capacità di conoscere, si frammenta e si diversifica in tante proposizioni. Oppure. È la stessa ed identica luce che ci consente di vedere oggetti molto diversi, ma la diversità non distrugge l’identità della luce. Analogamente è la stessa ed identica Luce divina che illuminando la mia mente [= fede] fa si che io veda – poiché questo è il modo umano di vedere – diversi oggetti ma nella stessa luce.
Vorrei ora attirare la vostra attenzione su almeno tre conseguenze di questa modalità propriamente umana di accogliere la divina rivelazione.
La prima. Se il mio assenso di fede, diciamo se la mia fede non si [dis-] articola in una pluralità di diverse proposizioni, esso (a) non è umana, non è ragionevole. È a livello di emozione; non si è radicata nella mia facoltà conoscitiva. Il mio pensare la realtà resta estraneo al mio credere.
La seconda. Si deve fare molta attenzione però al fatto che il termine della mia fede non sono le affermazioni, le proposizioni in cui essa si articola, ma la realtà che conosco attraverso di esse: Dio ed il suo progetto salvifico. È questo il "miracolo" della fede: che la nostra ragione è liberata dalla sua instabilità e varietà aderendo all’immutabile e semplice Verità.
La terza. Il catechista-maestro che insegna le verità (al plurale) della fede: che cosa sono i sacramenti, chi è Gesù Cristo … deve però guidare lo scolaro a cogliere la Verità (al singolare) della fede attraverso lo sguardo semplice della fede.
2. Il metodo dell’insegnamento
L’ultima riflessione ci ha già introdotto nella seconda parte del mio discorso.
La Chiesa è stata consapevole fin dall’inizio che la Divina Rivelazione doveva articolarsi in un insieme ordinato di proposizioni. È da questa esigenza che ben presto cominciarono a formularsi i simboli della fede. Non posso trattenermi dal citare il testo di S. Tommaso in cui il grande Dottore spiega la ragione di questo fatto. "Nessuno può credere se non gli viene proposta la verità a cui credere. Fu pertanto necessario che la verità della fede fosse raccolta in una formulazione unitaria, così che più facilmente potesse essere proposta a tutti e nessuno per ignoranza perdesse la fede. Da questo insieme di proposizioni di fede prende nome il simbolo" [2,2, q.1, a.9].
La parola "simbolo" per indicare l’insieme delle proposizioni delle fede è assai suggestiva. Essa indica un "tenere" insieme una pluralità, un "semplificare" una complessità, un "armonizzare" una diversità. Secondo il Vangelo di Luca [2,19] è ciò che faceva Maria nella sua fede: "Maria, da parte sua, serbava tutte queste cose meditandole [sumballousa] nel suo cuore". Il cuore di Maria fu il primo … concilio ecumenico a formulare il simbolo della fede.
Perché ho iniziato il mio discorso sul metodo dell’insegnamento partendo dal discorso sul simbolo della fede? Per una ragione molto semplice.
Qualcuno potrebbe dire: come trasmetto le varie e diverse verità di fede in modo tale che il mio scolaro le conosca e al contempo nella loro pluralità e nella loro unità interna? A questa domanda fondamentale ha già risposto la Chiesa: la risposta è il simbolo. Pertanto l’insegnamento della fede viene trasmesso trasmettendo la conoscenza del simbolo della fede e spiegandolo articolo per articolo, mostrandone alla fine l’intima armonia.
Ma la Chiesa non ha elaborato solo questo "strumento metodologico". Prima però di procedere oltre devo risolvere una difficoltà che sono sicuro sarà sorta in molti di voi. La si può formulare nel modo seguente. È la S. Scrittura che mi comunica le verità della fede; è essa che mi istruisce circa le stesse. Pertanto non c’è bisogno di altro se non di educare alla lettura della S. Scrittura.
La difficoltà avrebbe valore se l’intenzione della Chiesa nel formulare i simboli della fede fosse quella di creare un sostituto della S. Scrittura. Ma è vero esattamente il contrario. Ciò che la Chiesa vuole è che si legga la S. Scrittura avendone una comprensione vera. La conoscenza [non solo mnemonica!] del Simbolo è la chiave di lettura della Scrittura. La Scrittura è come il sole; se tu la guardi senza gli occhiali adeguati, il suo splendore ti acceca… Ariani e antiariani si scontravano a base di citazioni bibliche. Che cosa fece la Chiesa a Nicea? Formulò una proposizione di fede che doveva essere la guida nell’interpretazione della Scrittura. È del tutto estraneo alla Tradizione della Chiesa che si adotti come testo di catechismo la S. Scrittura.
Ora possiamo riprendere il nostro discorso. Vi dicevo che la Chiesa non si è limitata ad elaborare il Simbolo della fede. Essa ha anche elaborato uno schema di insegnamento della fede, un sistema di proposizione della dottrina cristiana. Nella sua sostanza lo troviamo già nei Padri della Chiesa, che furono sempre dei grandi catechisti. Non è ora il luogo di percorrere questo lungo itinerario storico assai suggestivo e che nasce in fondo dalla grande dottrina cristiana della Rivelazione, che ho cercato di esporvi in maniera succinta nel primo punto.
Per S. Tommaso, per esempio, tre sono le domande fondamentali dell’uomo: la domanda circa la verità, la domanda circa il bene, la domanda circa il desiderio. E così l’esposizione dell’insegnamento cristiano deve articolarsi in tre parti fondamentali: la fede da credere e da celebrare, il bene da praticare ed il male da evitare; ciò che dobbiamo sperare-desiderare. Il contenuto della prima parte è l’esposizione del Simbolo e la dottrina circa la Liturgia; della seconda parte è l’esposizione della Legge di Dio; della terza parte è la spiegazione della Preghiera del Signore, il Padre nostro. Simbolo della fede, Liturgia cristiana, Morale cristiana, Preghiera: ecco le articolazioni fondamentali dell’insegnamento della Dottrina sacra.
Se voi prendete ora in mano il Catechismo della Chiesa cattolica ed il suo Compendio, voi vedete che essi sono esattamente ordinati in quel modo.
Problema distinto è il problema didattico. Come tenendo conto dell’età, delle condizioni proprie di ciascuno e di altro ancora, trasmettere quell’insegnamento? Su questo non voglio fermarmi. Mi limito a due osservazioni.
Se quanto abbiamo detto finora è vero, soprattutto nel § 1,2, allora l’apprendimento di formule precise è necessario specialmente nell’età più giovane. La Chiesa dopo il Catechismo ha promulgato il Compendio che risponde anche a questa impreteribile esigenza della trasmissione della fede cristiana.
Non c’è dubbio che l’apprendimento della verità di fede mediante l’arte cristiana è una via didatticamente fra le più efficaci. La Chiesa vi è sempre ricorsa arricchendo così l’umanità di un patrimonio artistico di incomparabile preziosità. L’Istituto Veritatis Splendor ad iniziare da quest’anno organizza seminari di studio a livello nazionale per aiutare la catechesi a percorrere questa strada.
3. Le difficoltà dell’insegnamento.
In questo ultimo punto vorrei rispondere ad alcune difficoltà che credo possano sorgere dentro di noi ascoltando quanto ho detto finora.
La prima e forse più grave è formulabile nel modo seguente. La fede cristiana è un’esperienza. Non si può trasmetterla come un insegnamento. Essa riguarda tutta la persona.
Premetto subito che questo di oggi è il terzo incontro di una serie: e ciò che dico in questa riflessione non nega ciò che ho detto nelle due precedenti, ma fra le tre esiste una vera e propria integrazione reciproca.
La difficoltà affonda le sue radici in un complesso di attitudini generate in noi da alcuni "dogmi" dello spirito oggettivo del tempo in cui viviamo. Mi limito a citarli o poco più.
La religione in genere ed in particolare quella cristiana non ha alcuna connotazione veritativa. Chiederci cioè se una religione è vera o falsa; se ciò che dice una religione è vero o falso, è come chiedersi … di che colore è una sinfonia di Mozart: è una domanda priva di senso. La proposta religiosa non mi fa conoscere nulla; essa non si rivolge alla ragione. Ne deriva che in ordine al culto che l’uomo deve a Dio, è completamente irrilevante ciò che pensa di Dio; quindi una religione vale l’altra. Il criterio scriminante fra loro non è: "vero-falso", ma eventualmente la loro funzione psicologica o sociale.
E qui si incontra un altro "dogma": la riduzione della razionalità alla razionalità tecno-scientifica e quindi dell’ambito semantico del termine verità a verificabilità nel senso stretto del termine. Alla luce di questa riduzione ovviamente parlare di verità religiosa ed ancor più di verità saputa mediante l’assenso della fede, è un non-senso.
Ciò che il "maestro di religione" deve insegnare sono regole di comportamento, i valori, la tolleranza reciproca poiché quando le religioni si qualificano come vere generano sempre violenza.
Noi viviamo in questo contesto: dobbiamo esserne consapevoli e – come dice l’Apostolo – non possiamo conformarci alla mentalità di questo mondo, ma rinnovarci nella mente. [Avevo già scritto questo testo, quando il S. Padre pronunciò il suo mirabile discorso all’Università di Regensburg, nel quale affronta queste tematiche].
La difficoltà, tuttavia, manifesta un’esigenza giusta, che trova risposta profonda nella dottrina cristiana sulla fede. Se l’atto di fede è formalmente un assenso della nostra ragione, questo assenso è dato sotto la spinta di una volontà che desidera, vuole aderire al Signore. Solo quando la nostra fede e abitata dall’intimo dinamismo dell’amore ["formata" dalla carità, dicono i teologi], è perfetta. Non si crede solo a Dio: si crede in Dio.
Esiste poi una seconda difficoltà: l’incapacità dei ragazzi di far uso della propria ragione. Sono sempre più convinto che la malattia più grave di cui soffre l’uomo oggi è quella che ha colpito la sua ragione: è la ragione ad essere ammalata. È questa una cosa terribile di cui non è facile rendersi conto.
Ma non possiamo rassegnarci; una ragione ammalata è incapace di credere.
Da parte nostra, con grande pazienza, passo dopo passo, ci è chiesto di aiutare il bambino, il ragazzo, il giovane a godere della verità. Non si può vivere la propria fede come emozione, come impegno solamente. Essa è anche sguardo, conoscenza della Persona amata.
Esiste una terza difficoltà. Forse in questi decenni, a livello di didattica catechetica, non si è sempre tenuto nel debito conto la dimensione veritativa della fede, lasciando così i catechisti non sufficientemente equipaggiati. È un buon motivo, questo, per ripartire con più entusiasmo e coraggio.
Conclusione
Vorrei concludere con la lettura di una delle più belle poesie di G. Pascoli e mi sembra – di tutto il novecento: Il cieco [in Poesie, volume primo, Myricae – Primi poemetti, Oscar Classici Mondadori, Milano 1997, pag. 278]. Essa è una potente espressione della ragionevolezza della divina Rivelazione. Si parla di un mendicante, un girovago cieco guidato da un cane: l’uomo dentro all’universo dell’essere è guidato dal suo "istinto", che lo spinge a capire l’essere. E’ naturalmente rivolto all’intelligenza della realtà. Ma ad un certo punto, l’"istinto" non basta più: non è più capace di rispondere alle domande dell’uomo: il cane è morto. L’uomo rimane solo di fronte all’indecifrabile enigma dell’essere, della vita, della morte: "O tu che ignoro e sento". Oltre questo la ragione non può andare: sapere che c’è un mistero di cui si ignora l’intima natura e disposizione verso l’uomo. E qui nasce l’invocazione della divina Rivelazione: "Ma forse uno m’ascolta; uno mi vede/, invisibile. Sé dentro sé cela./ Sogghigni? piangi? m’ami? odii? Siede/ in faccia a me. Chi che tu sia, rivela/ chi sei; dimmi se il cuor ti si compiace o si compiange della mia querela! / Egli mi guarda immobilmente, e tace".
"Sé dentro sé cela": "piacque a Dio, nella sua bontà e sapienza, rivelare se stesso e far conoscere il mistero della sua volontà".
Dio ha parlato: è Gesù Cristo la sua definitiva parola. Ma l’uomo senza questa risposta è uno "irresoluto, a bada/ del nulla abisso". Non c’è una terza possibilità fra ciò che è stato rivelato duemila anni fa e questo uomo.
|