V Seminario Internazionale sul Controllo della Fecondità
«Ragioni sulla non approvazione dei metodi contraccettivi»
Genova, 1 - 3 Marzo 1984
Con questo mio intervento mi propongo di esporvi le ragioni del giudizio che la Chiesa cattolica ha dato e dà della contraccezione, dopo avervi, però, esposto nelle sue linee essenziali questo stesso giudizio. Non sono, infatti, mancati equivoci al riguardo.
Esiste — e ne sono perfettamente consapevole — una difficoltà preliminare a che si istituisca un vero dialogo fra chi vi parla e voi che mi state ascoltando. È la difficoltà che nasce dall’approccio diverso a questo tema: diverso nel metodo, diverso nel contenuto, diverso nel vocabolario. Il mio, infatti, è un approccio etico; il vostro è un approccio scientifico e/o tecnico. Se non sono, in via preliminare, tolte tutte le difficoltà nascenti dalla diversità metodologica, contenutistica e linguistica, rischiamo di fare... un dialogo fra sordi.
Vi ho, pertanto, indicato i tre momenti in cui si articolerà la mia riflessione. Dapprima cercherò di porre le basi del dialogo, poi cercherò di esprimere il pensiero della Chiesa cattolica sulla contraccezione, infine le ragioni di questo stesso pensiero.
1. LE BASI DEL DIALOGO
Vorrei partire da due constatazioni estremamente semplici: sono, al contempo, constatazioni di metodo e di contenuto.
La prima. L’affermazione che afferma “fuori del sapere scientifico non esiste un sapere vero e proprio” è un’affermazione priva di significato, perché è in se stessa contraddittoria. Infatti, delle due l’una. O questa affermazione è essa stessa un’affermazione scientifica ed allora deve poter essere scientificamente dimostrata, dimostrata cioè secondo il metodo della sperimentazione scientifica: ma nessuno, credo, può sostenere che si possa dimostrare in laboratorio una proposizione, che non riguarda un risultato particolare della conoscenza, ma che riguarda la natura stessa della conoscenza. O questa affermazione è un’affermazione non scientifica, ed allora essa è contraddittoria e priva di senso: infatti, essa afferma una verità (che non esiste sapere vero e proprio...) nello stesso tempo in cui la nega, poiché esiste un sapere oltre quello scientifico, precisamente quello che mi fa porre quel giudizio. Dunque, alla fine: la negazione dell’esistenza di un sapere umano che sia distinto da quello scientifico può essere solo voluta, ma non pensata. Può nascere da un pre-giudizio emotivo, non da un atto dell’intelligenza.
La seconda constatazione è più semplice, ma più ricca di contenuto. Ciascuno di noi vede che l’uomo è un essere diverso da ogni altro essere di cui abbiamo esperienza e che è un essere superiore ad ogni altro. Ho detto “vede” e non “pensa”. Vi sono, infatti, oggi, come vi furono ieri scienziati e filosofi che non pensarono e non pensano l’uomo “diverso-superiore”. Quale è la diversità fra “vedere” e “pensare”? Col termine vedere indico non semplicemente l’atto proprio del senso della vista compiuto dall’occhio, ma un contatto immediato coll’oggetto — nel caso, l’uomo — in forza del quale esso mi si mostra direttamente in ciò che ha di suo proprio: contatto che non consiste solo in un’attività dei nostri sensi. Col termine pensare io indico qui la costruzione di teorie, elaborate dalla ragione allo scopo di dare una spiegazione di ciò che ho visto: non raramente accade che il pensare finisca col negare ciò che si è visto. Ma su questo problema ritornerò più avanti. Non ho mai visto un animale fermarsi ad ammirare commosso un bel tramonto, né commuoversi di fronte ad un’opera d’arte: anche chi pensa che l’uomo non sia né “diverso” né “superiore”, vede — e non può non vedere — tutto questo. Si tratta di fatti che precedono ogni teoria e nella loro testardaggine — direbbe David Hume — continuano a mostrarsi alla nostra vista. Ebbene, il sapere etico è il sapere che nasce continuamente dal vedere che l’uomo è “diverso-superiore”. Continuamente, ho detto: esso, infatti, si nutre perennemente di questa visione, ad essa ritorna come al terreno a cui radicarsi per non divenire un sapere sterile e vacuo. L’etica è la scienza dell’uomo in quanto essere “diverso-superiore”.
In che cosa consiste questa “diversità-superiorità”? La risposta a questa domanda, di importanza decisiva per tutta la riflessione successiva, deve essere cercata rimanendo dentro a quel “vedere” di cui ho parlato. Bisogna, cioè, cercarla sulla base dell’esperienza essenzialmente umana che ogni uomo ha di se stesso. Che cosa ci testimonia questa esperienza?
Ci testimonia, in primo luogo, che nell’ambito dell’agire in cui si esercitano i vari dinamismi dell’uomo, esistono azioni che non accadono solo nella persona, ma che sono della persona: esistono atti della persona. Questi atti appartengono alla persona che li compie in un modo singolare perché di essi la persona è la causa, il principio. Ne è il principio perché sono opera della sua libertà. Per questa ragione, la persona attribuisce a se stessa questi atti: di essi si sente e si dichiara responsabile. L’esperienza della propria libertà e conseguente responsabilità non è confutabile da nessuna teoria che, nel tentativo di spiegarla, la nega, giudicando “illusione” la convinzione che della sua esistenza ha ogni uomo. Infatti, queste teorie che si presentano come “smascheramento” dell’illusione umana, come “ritorno alla verità sull’uomo”, che cosa, in realtà, si propongono se non — e lo confessano spesso esplicitamente — di “liberare” l’uomo dalle sue illusioni? e questo proposito non equivale all’affermazione, o quanto meno non implica l’affermazione che l’uomo, per essere se stesso, deve spogliarsi delle sue illusioni? e tutto questo che senso avrebbe se non si presupponesse che l’uomo può, cioè è libero anche di non considerarsi libero o — il che è lo stesso — di rinunciare ad essere libero?
Ma la stessa esperienza della libertà ci attesta che l’atto libero è sempre accompagnato da un atto di conoscenza: anzi che è radicato in esso. Se penetriamo in ciò che avviene in noi quando conosciamo — qualunque sia l’oggetto della nostra conoscenza: un cristallo, una cellula... — noi vediamo nel nostro atto conoscitivo la compresenza di due “fatti”. Da una parte, è un atto che accade in noi, è un atto immanente alla nostra persona. Dall’altra, questo atto — proprio perché è un atto di conoscenza — si riferisce ad una oggettività che si impone, indipendentemente dai nostri interessi e dai nostri gusti. Quando diciamo: “ho conosciuto, so che...” questa proposizione è ben diversa da quando diciamo: “mi piace che, son contento che...”. Anzi, la conoscenza è veramente tale proprio perché essa mostra come stanno le cose in se stesse, indipendentemente dai nostri desideri. C’è una parola per esprimere tutto ciò: verità. La nostra conoscenza è tale, cioè conoscenza, quando è vera; è vera quando si adegua alla realtà. Quando l’interesse o i nostri gusti interferiscono sulla nostra attività conoscitiva, distogliendola dalla sua naturale tendenza a conoscere la realtà come essa è in se stessa; quando noi, di conseguenza, formuliamo giudizi senza averne sufficientemente verificate le condizioni, mossi da altri interessi che non sia quello per la verità, noi non ci comportiamo da soggetti conoscenti, ragionevoli.
La radicazione della libertà nella conoscenza e il necessario rapporto della conoscenza colla verità ci fa penetrare nel mistero più profondo della libertà medesima: un mistero di cui ciascuno di noi ha una quotidiana esperienza.
I nostri atti liberi sono atti consapevoli. In forza di questa consapevolezza, la nostra libertà è confrontata colla verità di fronte alla quale essa può decidere o il rifiuto o il riconoscimento. Meditiamo un momento su questa connessione della libertà colla verità.
Partiamo dalla constatazione più semplice che si possa pensare. La decisione libera di vestirsi con abiti pesanti o leggeri è certamente un atto che dipende esclusivamente da noi: noi siamo “il principio” di questa decisione. È però ugualmente vero che questa decisione è presa in considerazione del fatto che il clima è caldo o freddo. Di fronte ad essa, la nostra libertà può decidere o di tenerne conto o di non tenerne conto: nel primo caso, essa decide in modo coerente al fatto conosciuto, nel secondo in modo incoerente. La libertà può, colle sue decisioni e colle sue scelte, confermare o rifiutare la verità conosciuta. Continuando a rimanere nell’esempio fatto, osserviamo che la conferma o il rifiuto da parte della libertà della verità conosciuta, non è senza conseguenze inevitabili sulla persona: da questa conferma o rifiuto consegue quanto meno uno stato di benessere o di malessere della persona.
Questo esempio ci aiuta a cogliere alcune costanti del rapporto fra libertà e verità.
a) La persona colla sua libertà — cioè colle sue decisioni e le sue scelte — conferma o rifiuta la verità conosciuta.
b) La verità non dipende dalla libertà, ma è la libertà che è costretta dalla verità a prendere posizione nei suoi con fronti.
c) Questa“costrizione” che la verità esercita nei confronti della libertà non è tale da costringere la libertà a confermarla o a rifiutarla (da costringere la libertà a una decisione piuttosto che un’altra), ma è tale da costringere la libertà a scegliere: non è costretta a scegliere questo piuttosto che quello, ma deve scegliere.
d) Dalla scelta della libertà dipende il modo di essere della persona, modo di essere che, quando è conforme alla verità conosciuta, è un ben-essere, quando è difforme è un mal-essere... L’esempio fatto, però, riguarda la conoscenza di un fatto (la temperatura del clima) che è esterno alla persona. Esiste, però, nell’uomo una conoscenza che non ha come oggetto i fatti che accadono nell’universo fisico, ma l’uomo stesso: l’uomo in ciò che è specificamente ed irriducibilmente umano. Il “segno” dell’esistenza nell’uomo di questo tipo di conoscenza è il fatto che l’uomo giudica alcuni comportamenti — decisioni, scelte — non degni del suo essere uomo. Perché diciamo: “approfittare della inesperienza di un bambino per ingannarlo non è degno di un uomo”? lo possiamo dire solo se sappiamo che esistono atti che non sono conformi al nostro essere persone umane. Ma come possiamo “sapere questa difformità”, se non sapessimo chi è la persona umana? un sapere chi è la persona umana, che è sapere che esige dalla libertà una conferma. So bene che esistono teorie che nega no questo fatto. Ma, ancora una volta, i fatti sono testar di e non si lasciano confutare da nessuna teoria..
Siamo così giunti, finalmente, a costituire, nei suoi elementi essenziali quella che ho chiamato la base del nostro dialogo.
Con i suoi atti, la persona — mediante le decisioni e le scelte della sua libertà — realizza se stessa, dà compimento al suo essere personale. In ogni atto che la persona compie, essa decide di se stessa e sceglie se stessa, nel senso che plasma, per così dire, la “figura” del suo concreto essere persona umana e dà “forma” al suo se stesso. Con e nei suoi atti, ciascuno di noi non è solamente responsabile di ciò che ha fatto, ma di se stesso: l’atto liberamente compiuto dà corpo alla persona che lo compie, è — in un certo senso — la persona che lo compie.
Ma la libertà della persona, così intesa, è confrontata necessariamente con la conoscenza che la persona ha di se stessa e, nella-attraverso la conoscenza, con il suo stesso essere persona umana. In una parola, è confrontata colla verità della persona umana. Una verità che, come abbiamo già detto, non è una creazione autonoma della nostra intelligenza, non è sottomessa alla nostra intelligenza: essa, quando è conosciuta, si impone con una forza che domina la nostra intelligenza, al punto che questa è costretta ad assentirvi se non vuole rinunciare a se stessa. È con un atto della sua intelligenza che l’uomo conosce la verità; ma questa conoscenza non inventa la verità conosciuta, ma la scopre già esistente.
La verità dell’uomo, del suo essere personale, costringe la libertà a prendere posizione nei suoi confronti. Su questa “costrizione” che la verità esercita nei confronti del la libertà dobbiamo soffermarci un momento. Certamente, questa costrizione non impedisce — come vedremo — che la libertà scelga e decida di non confermare la verità conosciuta: non è questa la costrizione di cui parliamo. La costrizione di cui parliamo significa che la verità sull’uomo non consente alla libertà dell’uomo di porsi in un atteggiamento di neutralità nei suoi confronti: la neutralità di chi non vuole né confermare né rifiutare; di chi vuole essere indifferente, scettico sul piano pratico. Infatti, la neutralità, l’indifferenza e lo scetticismo è già una presa di posizione nei confronti della verità sull’uomo: è la presa di posizione, in realtà, del rifiuto. La verità obbliga per se stessa, indipendentemente dal fatto che la libertà dell’uomo faccia proprio e non questa provocazione della verità. Il “segno” di questa forza — propria ed esclusiva della verità — è l’esperienza che ognuno di noi fa del dovere morale (moral duty), che è dovere del tutto diverso da ogni altra forma di dovere. Esso si impone in se stesso e per se stesso, poiché il suo contenuto — ciò che è moralmente dovuto — è il riconoscimento della verità della persona umana: ciascun uomo deve a se stesso e ad ogni altro uomo il riconoscimento della sua umanità. O, il che è lo stesso, ogni uomo deve riconoscere la persona umana — la propria e quella altrui — in se stessa e per se stessa: in ciò che essa è (nella sua verità) e per ciò che essa è (per la sua verità). È questa la norma etica prima e fondamentale di cui tutte le altre non sono che esplicitazioni.
La libertà della persona resta libera di confermare o rifiutare colle sue decisioni e colle sue scelte la verità del la persona. Il che equivale a dire che la persona umana con i suoi atti e nei suoi atti può dare a se stessa una “forma” di esistenza conforme alla verità della sua umanità o contraria ad essa, può realizzare se stessa o non realizzare se stessa, plasmare se stessa nella verità della sua umanità o contro la verità di se stessa. Nel primo caso, la persona ha scelto ciò che è bene, nel secondo caso ciò che è male, poiché il bene della persona è il suo stesso essere personale così come il male della persona è il suo non-essere persona umana.
Esiste un proverbio tibetano che raccoglie in una sintesi semplice e meravigliosa tutto quanto abbiamo detto: «Semina un pensiero e raccoglierai un’azione; semina un’azione e raccoglierai un’abitudine; semina una abitudine e raccoglierai una persona; semina una persona e raccoglierai un destino».
All’inizio di questo primo punto vi dicevo che l’etica è il sapere che nasce dal vedere che l’uomo è “diverso-superiore”. La diversità-superiorità dell’uomo consiste nel fatto che l’uomo è centro di azioni consapevoli e libere, ma al tempo stesso legate alla verità. L’etica è la scienza dell’uomo in quanto soggetto che agisce liberamente con una libertà subordinata alla verità: essa vuole conoscere questa subordinazione della libertà alla verità o, che è lo stesso, la via che la sua libertà deve percorrere perché la persona umana realizzi il suo essere persona umana, la verità della sua umanità.
2. L’INSEGNAMENTO DELLA CHIESA CATTOLICA SULLA CONTRACCEZIONE
In questa seconda parte della mia riflessione cercherò di attenermi all’essenziale e, quindi, di essere molto breve.
Che cosa intende la Chiesa cattolica per “contraccezione”? quale definizione essa dà di “contraccezione”? La contraccezione è l’atto con cui l’uomo/la donna priva la propria sessualità della capacità procreativa, di cui essa è e quando essa ne è in possesso, in previsione o durante o immediatamente dopo la congiunzione sessuale, liberamente compiuta.
Ogni elemento della definizione data è essenziale per il concetto: venendo a mancare uno di essi — qualsiasi — non abbiamo più la contraccezione nel senso inteso dalla Chiesa cattolica. Così, per togliere subito un grossolano equivoco in cui molti continuano a cadere, la decisione, presa da due sposi, di unirsi sessualmente nei periodi infecondi della donna — decisione consapevole e voluta — non rientra nella fattispecie della contraccezione in senso rigoroso. Questa decisione, infatti, non comporta alcun intervento che privi la sessualità femminile della sua capacità procreativa, dal momento che, per ipotesi, essa ne è già naturalmente priva. Se questa decisione, oltre che concettualmente, debba anche da ritenersi essenzialmente diversa anche eticamente, è questione che affronteremo più avanti; per ora, è sufficiente una chiarificazione concettuale.
L’insegnamento della Chiesa è di carattere etico. Nel primo punto della mia riflessione ho già cercato di spiegare che co sa significa “etico”. Alla luce di ciò che ho già detto, pertanto, diciamo subito che per sé la Chiesa, quando dà un giudizio sulla contraccezione, non parte da “dati scientifici” né lo fonda su “dati scientifici”: nocività-non nocività del contraccettivo: efficacità teorica/pratica-non efficacità del contraccettivo. La domanda o la preoccupazione della Chiesa è altra da quella dello scienziato come tale. La domanda: la contraccezione è un atto conforme alla verità-dignità della persona umana? è un atto nel quale e mediante il quale la persona è rispettosa della verità della sua umanità e, dunque, realizza se stessa in maniera conforme alla verità intera della sua umanità? La preoccupazione, pertanto, della Chiesa è la dignità della persona umana e che quella da noi chiamata la “diversità-superiorità” dell’uomo sia sempre rispettata e riconosciuta, e che la preziosità propria della persona umana non sia violata e dilapidata. L’insegnamento della Chiesa cattolica va letto e capito in questa luce.
Di conseguenza, ciò che la Chiesa si propone col suo insegnamento è di mettere in guardia ogni uomo da ogni atto che potrebbe violare la sua dignità, da ogni atto che potrebbe non riconoscere, nella sua integrità, la persona umana.
La contraccezione, nel senso preciso sopra definito, è giudicata sempre ed in ogni caso moralmente illecita. Si tratta, cioè di una illiceità morale che inerisce all’atto contraccettivo come tale e non in conseguenza di circostanze particolari in cui esso può essere compiuto o in ragione di una determinata intenzione che ha spinto a compierlo. Il giudizio etico è dato prescindendo sia dal fattore circostanze sia dal fattore intenzione di chi lo compie: esso prende in esame solo l’atto in se stesso e per se stesso, in ciò che lo definisce come tale, come atto contraccettivo. E già abbiamo visto come è definito.
L’atto contraccettivo è, dunque, moralmente illecito. Ricordando il concetto di illiceità morale, ciò significa che l’atto contraccettivo è giudicato difforme dalla verità-dignità della persona umana: atto con il quale e nel quale, la persona umana non realizza se stessa nella verità della sua umanità. Quali sono le ragioni di questo giudizio? È ciò che cercherò di mostrare nella terza ed ultima parte della mia riflessione.
3. LE RAGIONI DI UN INSEGNAMENTO
Possiamo partire da alcune osservazioni molto semplici e molto ovvie. La capacità procreativa, inscritta nella sessualità umana, ha come termine possibile il concepimento di una persona umana. In questa constatazione noi vediamo la essenziale diversità di questa “funzione” da qualsiasi altra “funzione” del nostro corpo: quando la sessualità umana è capace di procreare, questa capacità non dice ordine, di per sé, alla persona che la possiede, ma dice ordine ad una nuova ed altra persona umana che, appunto, può essere concepita quando ci fosse, in queste condizioni, una congiunzione sessuale fra l’uomo e la donna. L’atto contraccettivo consiste essenzialmente — come abbiamo visto — nel privare la sessualità umana di questa capacità proprio nel momento in cui essa, dato che si ha una congiunzione sessuale fra l’uomo e la donna, potrebbe esplicarsi e dare così origine ad una nuova persona umana.
Quale è il senso inscritto in questo atto (della contraccezione)? l’uomo e la donna nello stesso momento e nello stesso atto col quale potrebbero divenire principio di una nuova persona umana, si privano di questo potere, decidono di togliere a se stessi questa capacità e quindi di impedire che la nuova persona sia concepita. Ora, ammettiamo — per un momento — che questo comportamento, l’atto contraccettivo, sia moralmente lecito. Quali sono le conseguenze logiche di questa ammissione? La prima e la più immediata sarebbe che il sorgere di una nuova persona umana sarebbe affidato, in ultima istanza, all’uomo e alla donna. Si faccia molta attenzione: ho detto “in ultima istanza”. È lapalissiano che un concepimento dipende sempre anche dalla volontà di almeno uno dei due partner: non è questo ciò su cui voglio attirare la vostra attenzione. Il punto centrale di tutta la questione è un altro: è se della decisione di non procreare — di non dare origine ad una nuova persona umana — l’uomo e la donna sono responsabili solo davanti a se stessi. Se è così, compiendo l’atto sessuale quando la sessualità è capace di procreare, avendo già deciso di non procreare, essendo di questa capacità gli ultimi responsabili, se ne possono privare, appunto mediante la contraccezione. In una parola: l’affermazione che l’atto contraccettivo non è in se stesso e per se stesso moralmente illecito comporta ed implica per logica necessità l’affermazione che l’uomo e la donna sono i depositari ultimi del potere di dare origine ad una nuova vita umana. O, il che è lo stesso, sono le sorgenti uniche della vita umana e questa è affidata solo ad essi.
Quale è il senso inscritto in questo atto (della contraccezione), ci eravamo chiesti. Siamo giunti a questa risposta: questo atto significa obiettivamente l’attribuzione all’uomo del potere sulla vita umana. Se questa fosse la verità dell’uomo — l’uomo è il depositario ultimo del potere di dare origine alla vita umana — la sua libertà nei confronti di questo stesso potere sarebbe assoluta, nel senso lettera le del termine, slegata cioè da ogni esigenza che non sia la libertà stessa a imporre a se stessa autonomamente. Il che equivale appunto a dire che l’atto contraccettivo è di per sé moralmente lecito, 0, quanto meno, indifferente.
E siamo cosi giunti alla individuazione della ragione fondamentale per cui la Chiesa cattolica giudica l’atto contraccettivo moralmente illecito: è, l’osservazione potrebbe sembrare a prima vista sconcertante, il suo teismo. In altre parole: la Chiesa cattolica dà un giudizio moralmente negativo sulla contraccezione perché semplicemente afferma l’esistenza di Dio. Le due affermazioni — esistenza di Dio e illiceità della contraccezione — sono fra loro logicamente connesse. È questa connessione che ora cercherò di mostrare.
Chi vede la “diversità-superiorità” dell’uomo e si chiede la ragione ultima, il fondamento originario di questa “diversità-superiorità” che ogni uomo — teista o non — può vedere, è condotto all’affermazione che questo fondamento originario è costituito dal rapporto del tutto singolare che l’uomo, ogni uomo, ha con Dio stesso. La singolarità è costituita dal fatto che ogni uomo è pensato-voluto da Dio stesso: ciò che costituisce l’uomo nella sua “diversità-superiorità” è questo atto divino perché è questo atto che costituisce ogni uomo una persona, voluta in se stessa e per se stessa. All’origine di ogni uomo sta questo atto creativo di Dio.
D’altra parte, noi constatiamo che generalmente parlando l’origine dell’uomo è connessa con la congiunzione sessuale dell’uomo e della donna, compiuta quando la sessualità umana è in possesso della capacità procreativa. E, pertanto, quando noi parliamo di un atto creativo che sta all’origine di ogni uomo, non indichiamo un avvenimento che si pone accanto all’atto sessuale dell’uomo e della donna: questo avvenimento — l’avvenimento creativo — accade con l’atto sessuale umano. E così, quando l’uomo e la donna decidono di unirsi sessualmente in un atto che è potenzialmente procreativo, essi offrono la possibilità all’atto creativo, aprono lo spazio nel quale questo atto può accadere.
Se affermiamo la liceità dell’atto contraccettivo, noi per ciò stesso attribuiamo all’uomo il diritto di impedire alla volontà creatrice di Dio di esplicarsi proprio nel mo mento in cui Dio potrebbe decidere di dare origine ad una nuova persona umana. L’attribuzione all’uomo di questo diritto contraddice all’affermazione fondamentale di ogni teismo: l’affermazione secondo la quale Dio solo è Dio e l’uomo è una creatura.
CONCLUSIONI
Può essere che di fronte a queste riflessioni, si concluda che esse non riguardano lo scienziato. In realtà, però, guardando le cose più in profondità, questo atteggiamento può essere solo il frutto di una decisione: la decisione che la scienza non ne è toccata. Ma le cose non stanno così, in realtà.
Anche lo scienziato non può essere neutrale di fronte alla questione di ciò che è bene e di ciò che è male, poiché la neutralità stessa è già una presa di posizione: nessun uomo abita “al di là del bene e del male’’.
Questo è vero soprattutto quando la scienza e le sue applicazioni toccano la persona umana come tale. Allora non si ha a che fare con un “oggetto”. Si ha a che fare con una realtà che possiede una dignità e non ha prezzo. Una realtà che esige un rispetto adeguato alla sua verità.
Una delle cause più gravi del malessere profondo che ha investito la cultura contemporanea è la separazione fra l’etica e la scienza. Solo da una ritrovata unità, la scienza ritroverà completamente ciò per cui esiste: il bene della persona umana.
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