Presentazione dell’Enciclica di S. S. Benedetto XVI "Deus caritas est"
NEL CUORE DEL CRISTIANESIMO
Cattedrale di S. Pietro, 3 giugno 2006
La riflessione che ora vi presenterò non sostituisce la lettura dell’Enc. Deus caritas est [d’ora in poi DCE] o la sua rilettura. Al contrario è un invito ed un aiuto a farla.
1. La riflessione del S. Padre intende condurci al "centro della fede cristiana: l’immagine cristiana di Dio e anche la conseguente immagine dell’uomo e del suo cammino".
Perché ritornare al "centro" della nostra fede? Perché posare il nostro sguardo contemplativo su di esso? Per varie ragioni a cui ora accennerò brevemente.
Tutti noi qui presenti siamo stati battezzati da bambini, viviamo quotidianamente i gesti fondamentali della nostra fede, quale per esempio la preghiera. Cerchiamo di vivere con fedeltà la nostra vocazione cristiana. Tuttavia in chi è arrivato in questo modo alla fede, come portatovi dall’educazione ricevuta, corre un rischio assai grave: quello di trovarsi ad essere cristiano senza avere mai deciso di diventarlo. E pertanto è assai importante che noi alcune volte ci fermiamo e ci domandiamo: ma che cosa sta all’inizio del mio essere cristiano? Il S. Padre colla sua Enciclica vuole precisamene aiutarci a percorrere questo "ritorno all’origine". Egli lo dice subito, proprio nella prima pagina di DCE: "All’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con un Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva. Nel suo Vangelo Giovanni aveva espresso quest’avvenimento con le seguenti parole: Dio ha tanto amato il mondo …". È l’incontro con la persona vivente di Cristo come colui nel quale prende letteralmente corpo l’amore di Dio per te, che ti fa diventare cristiano. Un filosofo del secolo scorso, non credente ed ateo, ha scritto: "Bisogna incontrare l’amore prima di aver incontrato la morale altrimenti lo strazio. Non è a forza di scrupoli che un uomo diventerà grande. La grandezza arriva, a Dio piacendo, come una bella sorpresa". [A. Camus]. La DCE ci aiuta semplicemente a diventare cristiani.
C’è poi una seconda ragione che ci mostra l’urgenza di "ritornare alla sorgente". Se c’è qualcosa che ci fa soffrire e non raramente devasta la nostra esistenza è la fretta con cui la viviamo; è la molteplicità di impegni che per così dire la straziano dall’interno. È possibile trovare un punto di unificazione? La DCE è una guida nel cammino verso l’unità della vita: "Abbiamo creduto all’amore di Dio – così il cristiano può esprimere la scelta fondamentale della sua vita", dice il S. Padre nella introduzione. È un punto fondamentale, mi sembra di poter dire, che caratterizza tutto il Magistero dell’attuale pontefice. Il valore, la grandezza della vita dipende dalla fede che hai nell’amore di Dio. Che uno compia atti più grandi ed importanti di un altro misura la grandezza di una persona non di più del fatto che uno per essere più vicino al sole, sale su una sedia. Di fonte all’infinità di Dio, ogni gerarchia umana scompare: resta solo quella della fede nel suo amore. È per questo che la piccola rinuncia fatta da un bambino perché ha creduto all’amor di Gesù per lui, è più grande della costruzione della cupola di S. Pietro come tale: l’atto del bambino sconvolge il cielo. È una grande semplificazione della vita che la DCE ci insegna.
2. Addentrandomi ora nel "nucleo centrale" della DCE, possiamo iniziare proprio dalle prima parole: "Dio è amore; chi sta nell’amore dimora in Dio e Dio dimora in lui (1Gv 4,16). Queste parole della Prima lettera di Giovanni esprimono con singolare chiarezza il centro della fede cristiana". Dunque, per porci nel "centro" da cui partono ed in cui si unificano tutti i raggi, dobbiamo avere un’intelligenza vera di quelle parole e viverle. Quale cammino ci propone il S. Padre? Per compiere questo cammino dobbiamo buttare via come peso ingombrante tutto ciò che la parola "amore" evoca nella nostra esperienza umana come ciò che impedisce alla parola di Dio di illuminarci? Detto in altro modo. Tu senti: "Dio è amore", e come ascolti questa parola ti vengono in mente esperienze vissute, momenti della tua vita, ciò che hai provato in quei momenti. Ebbene: devi dimenticare, cancellare dalla tua memoria tutto questo? Ascoltiamo cosa dice il S. Padre: "Se si volesse portare all’estremo questa antitesi…"[7,2].
Il testo è di una importanza fondamentale, poiché esso in fondo ci dice: l’incontro con Gesù Cristo è ciò che di meglio può capitarci in ordine alla realizzazione di se stessi.
Ma ritorniamo alle nostre domande. Che cosa evoca nella nostra mente la parola "amore"? quale vissuto umano esso denota? Il Papa risponde: l’eros; la dimensione erotica della nostra persona. Ma il S. Padre si spinge anche oltre e dice: "l’amore fra uomo e donna … sbiadiscono" [2,2].
La parola "eros"-amore denota quella ricerca della propria realizzazione mediante l’incontro con l’altro. Ma questo desiderio può portare perfino all’autodistruzione, alla devastazione della propria umanità se non è purificato e come guarito. Il superamento della sempre possibile deriva egoistica avviene nell’incontro con l’agape: coll’amore capace di audonazione. Eros e agape non si escludono, ma si integrano reciprocamente. Come? Nel senso che la persona ritrova-afferma se stessa nel dono di sé. Questo è ciò che accade alla nostra umanità quando incontriamo Gesù Cristo, quando ascoltiamo le parole del Vangelo: Dio è amore e vi crediamo.
Questo annuncio – Dio è amore – ha due significati fondamentali: uno riguarda Dio stesso ed uno riguarda l’uomo. Quell’annuncio veicola due novità assolute: l’una riguardante Dio e l’altra riguardante l’uomo.
Vi è innanzitutto la nuova immagine di Dio. Dio è appassionatamente interessato al bene dell’uomo. Non è indifferente al suo destino. "Dio è in assoluto la sorgente originaria di ogni essere; ma questo principio creativo di tutte le cose – il Logos, la ragione primordiale – è al contempo un amante con tutta la passione di un vero amore" [10,2].
Vi è una nuova immagine dell’uomo. Se Dio è colui che ama, l’uomo, alla cui immagine e somiglianza è stato creato, non può più essere pensato come uno che può trovare in se stesso la propria perfezione senza riferimento all’altro.
Di questa costituzione relazionale il simbolo reale è il fatto che la persona umana è uomo e donna. È simbolo che ci introduce nella verità della persona umana poiché ci dice che la persona è pienamente se stessa nella comunione con l’altra. È un desiderio di completare se stesso che spinge l’uomo verso la donna e la donna verso l’uomo [eros]; ma è nel dono reciproco che questo completamento può essere raggiunto [agape].
Ma questo non è ancora il "centro" della fede cristiana. L’amore di Dio verso l’uomo non è stato solo detto, manifestato e documentato in fatti storici narrati nella prima Alleanza. Esso ha letteralmente preso corpo e sangue umani in Gesù: Gesù è l’amore di Dio. In Lui quelle che sembrano essere le due logiche contrarie presenti nell’amore – ricerca della propria realizzazione; donazione di sé – coincidono. Egli raggiunge la sua "perfezione" [cfr. Lett. agli Ebrei] nel momento in cui dona se stesso, e perciò è risuscitato.
Allora in che modo l’uomo, ciascuno di noi, realizzerà la sua umanità? Non c’è che una vita, quella già indicata all’inizio dei DCE: l’incontro con la persona di Cristo che dona se stesso sulla croce, un incontro tale che la nostra vita ne riceve un senso fondamentale ed una direzione decisiva.
Questo incontro è reso oggi possibile dall’Eucarestia. Anzi l’Eucarestia è questo incontro nel quale l’uomo viene inserito nell’autodonazione di Cristo. Ne diventa partecipe così che Cristo stesso ama in noi ed insieme con noi. È la nostra capacità di amare.
Ora abbiamo individuato il "centro" della nostra fede cristiana. Esso è l’avvenimento di Cristo che dona se stesso sulla Croce entrando nella vita piena. Esso è la nostra partecipazione mediante la fede e l’Eucarestia a questo avvenimento. Nell’incipit dell’Enciclica è detto sinteticamente tutto: "Dio è amore"; "noi abbiamo conosciuto l’amore che Dio ha per noi e vi abbiamo creduto".
3. In questo ultimo punto della mia riflessione introduttiva alla DCE vorrei parlarvi più direttamente del nostro amore verso gli altri: del nostro amore verso Dio e del nostro amore verso il prossimo.
A me sembra che la chiave di lettura delle pagine di DCE dedicate a questo tema sia costituita da un affermazione che è propria esclusivamente del cristianesimo: la ragione per cui amo Dio è la stessa per cui amo il prossimo. Mi spiego con un esempio. È la stessa luce che mi consente di vedere colori diversi. La "diversità" fra Dio e la creatura è infinita, ma amo il prossimo per la stessa ragione per cui amo Dio.
Quale è questa "stessa ragione"? l’amore con cui amo Dio ha il carattere di risposta, poiché è Dio che ha preso l’iniziativa di amarmi. È la sua "passione amorosa" che suscita in me la risposta. Ma questo stesso amore divino è nei confronti di ogni uomo: come potrei dire di rispondere all’amore di Dio se non amo colui che Dio ama, cioè ogni uomo?
Questa riflessione prende corpo quando noi celebriamo l’Eucarestia. Essa – come già vi ho detto – ci introduce nell’auto-donazione di Cristo per la redenzione di ogni uomo. Se non amassi ogni uomo rinnegherei nelle scelte ciò che ho celebrato nella fede. La teologia cristiana ha usato una categoria molto forte: ha insegnato che la carità è la "res", cioè è la realizzazione dell’Eucarestia. Ciò che celebro si realizza nella carità. Non a caso il Vangelo di Giovanni in luogo della narrazione dell’istituzione dell’Eucarestia mette la narrazione della lavanda dei piedi.
È necessario a questo punto aggiungere due riflessioni assai importanti, conseguenze di quanto appena detto.
Quando il cristianesimo parla di "carità del prossimo", non parla in primo luogo di un comandamento intimato al discepolo di Cristo. La carità non è in primo luogo comandata; è in primo luogo donata. È questa una verità di fondamentale importanza.
L’incontro con Cristo mediane la fede ed i sacramenti cambia la nostra condizione ontologica; trasforma la nostra natura. Si istituisce un’unità che fa di noi e di Cristo un solo corpo; è come una sola vite nel cui ceppo, Cristo, e nei cui tralci, i suoi discepoli, scorre la stessa vita. Pertanto è la stessa carità di Cristo che viene partecipata; la nostra libertà è resa capace di amare colla stessa carità di Cristo.
Ciò che la nostra libertà può fare, è di rifiutarsi ad usare di questa divina capacità. Se tu chiudi gli occhi, non è né colpa della luce né della capacità visiva dei tuoi occhi se non vedi.
Una seconda riflessione. Senza avere mai pronunciato il nome, ho parlato semplicemente della Chiesa. Citando un Padre della Chiesa, il Concilio Vaticano II ha detto che la Chiesa è il popolo riunito nell’unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. La Chiesa è la vita di comunione propria della Trinità comunicata agli uomini. È l’unita operata dalla carità. "Pur intessendo nella Chiesa legami umani, il che significa anche vincoli legali, la nostra convivenza deve superato ciò che è "giuridico" con le relazioni "collegiali", personali" [T. Spidlik, Sentire e gustare le cose internamente, Lipa ed. Roma 2006, pag. 190].
Questa struttura intima della Chiesa si manifesta mediante le opere di carità, spirituale corporale poiché la persona è corpo e spirito; prende forma stabile in istituzioni caritative; è vivificata da doni carismatici particolari: S. Vincenzo de Paoli, S. Luigi Orione… La Chiesa non potrà mai essere impedita di esercitare la carità, poiché non gli si può impedire di esistere. La carità è la sua stessa esistenza reale.
Conclusione
Mi proponevo di invitarvi alla lettura di DCE. Questo incontro e questo invito avviene nel cammino verso il Congresso della carità che in un qualche modo aprirà l’anno del Congresso Eucaristico. Durante quel Congresso che ha nell’Enciclica la sua magna charta, riprenderemo tutti questi temi.
Forse quando parliamo della carità, possiamo essere insidiati da una forma pericolosa di tristezza del cuore, che nasce non dall’ascoltare pienamente le parole, ma dal prestare interiormente la nostra attenzione alle controtestimonianze. Il risultato è: "bella, ma impossibile!".
È per questo che l’Enciclica termina ricordando i santi; soprattutto invitandoci a guardare a Maria. Il "bell’amore" è possibile, ci dicono i santi; e Maria ci introduce ad esso.
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