«Persona - Comunione - Dono».
Riflessione sul n. 7 della Lettera Apostolica Mulieris dignitatem
Ottobre 1988
Le seguenti riflessioni vogliono semplicemente aiutare a capire sempre più profondamente uno dei punti fondamentali della Lettera Apostolica Mulieris dignitatem (MD), il n. 7, in cui il Santo Padre elabora il momento essenziale dell’antropologia e, quindi, dell’etica.
1. La natura della persona
L’intelligenza della realtà-persona appartiene a quelle naturali, spiritualmente istintive, intuizioni che sono la sorgente di tutta la nostra vita spirituale. Chi non vede che “essere qualcuno” è molto diverso che “essere qualcosa”? Chi non sente l’esigenza di non essere mai considerato e trattato come “qualcosa”, ma come “qualcuno”? Ma, come sempre anche in questo caso, quando si cerca di costruire un discorso razionale, che intende esprimere il contenuto di quella originaria intuizione, l’impresa non è né semplice né facile.
Alla luce congiunta della ragione e della fede, il testo di MD si muove su due linee: essere persona significa essere spirito; essere persona significa essere-con ed essere-per altre persone. Queste sono le due dimensioni essenziali della persona, costitutive del suo “essere ad immagine e somiglianza con Dio”.
Il primo significato, che istituisce l’identità (non adeguata nel caso della persona umana) fra persona e spirito, è il punto di partenza per capire tutto il discorso seguente. La proprietà, infatti, fondamentale dello spirito è la sua semplicità. Ogni realtà materiale — questo libro, quella pianta... — è, nella sua individualità, il risultato della composizione di elementi che le pre-esistono. È questa stessa composizione, costruita secondo leggi precise che la fisica e la biochimica contemporanee hanno profondamente scandagliate. Dal fatto che l’individuo materiale è composto deriva la sua debolezza, la sua instabilità nell’essere, la sua radicale dipendenza dagli elementi che lo compongono. Esso non esiste in se stesso; non esiste per se stesso: esiste in forza (cioè in e per) degli elementi che lo compongono. L’intensità del suo atto di essere è minima.
Al contrario lo spirito. Esso non è il risultato di elementi che gli pre-esistono. Esso è semplicemente se stesso, non la composizione di altro. Esso è in se stesso, non in altro; esso è per se stesso, non a causa di elementi che componendosi lo fanno essere. Il vocabolario filosofico-cristiano usa una parola per indicare questo modo di essere proprio dello spirito (in se - per sé): persona. L’intensità del suo atto di essere, pertanto, è massima. Cioè: mentre ogni realtà materiale è corruttibile, transitoria, mortale, ogni persona è incorruttibile, immortale. Dire che la persona può morire sarebbe come dire che un cerchio può essere quadrato: non ha nessun senso.
Prima di procedere oltre, vorrei semplicemente segnalare un corollario, di non poca importanza. Il materialismo è sempre anti-personalista e ogni cultura materialista è sempre una cultura distruttiva della persona.
Questo primo significato dell’essere personale genera il secondo: essere persona significa essere-con ed essere-per altre persone. È facile, infatti, constatare una differenza essenziale fra un individuo materiale e lo spirito. Mentre, infatti, il primo è solamente, esclusivamente se stesso, lo spirito non è solamente se stesso, ma, in un qualche modo, può diventare ogni cosa. Quando un organismo vivente mangia qualcosa, trasforma il cibo in se stesso e la nutrizione consiste precisamente in questa trasformazione di un oggetto nel soggetto che si nutre. Quando, al contrario, io conosco per esempio un triangolo, io non divento... un triangolo e la conoscenza consiste precisamente in questa presenza dell’altro in me, senza che l’altro cessi di essere ciò che è, senza che l’altro diventi me stesso. La materia è ermeticamente chiusa in se stessa, è inesorabilmente imprigionata dentro se stessa, senza alcuna possibilità di uscita: qualora avvenisse questa uscita da sé, sarebbe la sua distruzione. Il pezzo di pane, lasciandosi metabolizzare, cessa di essere. Lo spirito, cioè la persona, è, al contrario, aperta all’altro, è — direbbero i filosofi — intenzionata verso l’altro: qualora questa apertura non accadesse, la persona si troverebbe in una situazione di radicale contraddizione con se stessa.
In sintesi, questo è il mistero ontologico della persona: essa è in sé e per sé in quanto (non: nonostante che) è per l’altro; essa è per l’altro in quanto (non: nonostante che) è in sé e per sé. Questo mistero — come ricorda il Santo Padre — trova la sua radice ultima nel mistero stesso della vita intima del Dio Uno-Trino. La persona divina, come ha tentato di esprimere la teologia cristiana — è una “relazione sussistente”. Di questo Mistero, la persona creata è “immagine e somiglianza”.
La struttura della persona creata costituisce la sfida fondamentale per la libertà della persona creata. Ciascuno di noi sa che è chiamato a realizzarsi mediante il proprio agire. Questa realizzazione sarà vera, quando sarà conforme alla struttura dell’essere personale, che può essere tradita quando la persona non diviene se stessa nella comunione cogli altri, ma vuole essere se stesso al di fuori della comunione.
Il secondo momento della nostra riflessione deve, dunque, consistere nella comprensione della vera natura della comunione inter personale.
2. La comunione interpersonale
Come ricorda il Santo Padre, è soprattutto il capitolo secondo della Genesi a richiamare l’esigenza della comunione come vocazione fondamentale della persona umana. E nello stesso tempo a suggerirci la vera natura della comunione interpersonale.
Come ho già detto, la persona è comunione in ragione della sua natura spirituale. Ora lo spirito si esprime in due attività fondamentali, la conoscenza e il volere. Esiste una differenza essenziale fra esse. Mentre la conoscenza è un’attività della persona, che si conclude nella persona che conosce, il volere è un’attività che si conclude in ciò che è voluto. L’atto, infatti, del conoscere consiste, precisamente, in una presenza dell’altro in me stesso: ciò che è conosciuto (una cosa come una persona), è conosciuto in quanto è presente nel mio spirito e al mio spirito. La conoscenza è il superamento dell’assenza dell’altro dal mio spirito. Pertanto, nessuna comunione è possibile senza conoscenza: l’esodo originario dalla propria solitudine è operato dall’intelligenza. Dio, in primo luogo, mostra, fa conoscere ad Adamo solo tutto ciò che lo circonda, per far lo uscire dalla sua solitudine.
Non così accade nell’altra attività spirituale, il volere. Con esso, la persona si muove verso l’altro (una cosa o una persona) e questo movimento termina nell’oggetto voluto. Una conseguenza deriva immediatamente, di grande importanza antropologica ed etica. Mentre la conoscenza eleva o abbassa l’oggetto conosciuto alla misura della persona conoscente, il volere eleva o abbassa il soggetto volente alla misura dell’oggetto voluto. Ciò che è conosciuto diventa il soggetto conoscente; il soggetto volente diventa l’oggetto voluto. Donde, una seconda conseguenza di non minore importanza. In ordine alla realizzazione di se stessa, il problema decisivo per la persona non è il problema della sua conoscenza, ma il problema della sua volontà: non è il problema dell’oggetto e della qualità della sua conoscenza, ma del suo volere, cioè del suo amore. La persona, alla fine, vale tanto quanto vale il suo amore: se ami ciò che non merita di essere amato, tutta la tua persona si degrada. E siamo così riportati alla domanda iniziale: che cosa significa volere-amare qualcosa o qualcuno? quando si istituisce una vera comunione?
Possiamo partire da una constatazione assai semplice, fondata sulla nostra esperienza quotidiana. Esistono tre modi fondamentali di volere un oggetto. Posso volere un qualsiasi oggetto in quanto e in ragione del fatto che esso mi serve, mi è utile in ordine al raggiungimento di un preciso scopo: l’ammalato vuole la medicina per riacquistare la salute. È il rapporto utilitarista che istituisce una relazione di uso di un oggetto da parte della persona. Posso volere un qualsiasi oggetto in quanto e in ragione del fatto che esso mi piace, che esso, se posseduto, genera in me un piacere. È il rapporto edonistico, che istituisce una relazione di possesso di un oggetto da parte della persona. Posso volere un qualsiasi oggetto semplicemente per il fatto che esso merita di essere voluto, prescindendo del tutto da qualsiasi altra considerazione (di utilità e/o di piacere). È il rapporto che istituisce una relazione di rispetto. Se, ora, usciamo da queste descrizioni e ci chiediamo: come concretamente devo volere questo o quell’oggetto, questa o quella persona?, dobbiamo rispondere semplicemente: come questo o quell’oggetto, questa o quella persona “meritano” di essere volute. La risposta, tuttavia, è solo apparentemente semplice. Essa, infatti, introduce un concetto nuovo ed importantissimo nella nostra riflessione, quello di “dignità”.
La dignità indica il valore, la preziosità propria di ogni cosa. Valore e preziosità che sono misurate dalla loro natura stessa, dal loro essere stesso. Essere qualcuno (cioè persona) è più che essere qualcosa, come ho già detto all’inizio e, pertanto, la dignità (il valore, la preziosità) propria della persona è più grande che la dignità delle cose. L’Essere divino è infinitamente trascendente ogni essere creato e, pertanto, la dignità dell’Essere divino è infinitamente superiore alla dignità di ogni essere creato. Dire che ogni realtà deve essere voluta, cioè amata, come merita equivale a dire: l’amore deve essere misurato, regolato, proporzionato sulla misura dell’essere proprio di ogni realtà. Ama ogni essere secondo la misura del suo essere.
Ritorniamo ora alla nostra quotidiana esperienza del volere e ci rendiamo subito conto che esistono realtà che non devono essere usate e/o possedute ma solo rispettate e che esistono realtà, al contrario, che possono e/o devono essere usate e/o possedute. Ancora una volta, lo spartiacque essenziale all’interno dell’amore umano è costituito dalla distinzione fra essere personale ed essere non personale. Nessuna persona può mai essere usata e/o posseduta: può essere voluta solo per se stessa. Nessuna cosa può essere amata/voluta per se stessa: può essere usata e/o posseduta. Il destino di ogni libertà creata si dirime su questo spartiacque esistenziale: non usare/ possedere ciò che può essere solo amato; non amare ciò che può essere solo usato/posseduto.
A questo punto possiamo forse cominciare a precisare il concetto di comunione interpersonale. La comunione connota esattamente l’unico rapporto vero e giusto che la persona deve istituire con l’altra persona: non si è in comunione con le cose e con gli animali. Essa, in primo luogo, consiste negativamente nella esclusione di ogni forma di uso e di possesso-dominio che sono l’anti-comunione. Positivamente, la comunione interpersonale consiste nel volere il bene della persona semplicemente perché è il bene della persona e non il mio bene: la comunione è bene-volenza nel senso più profondo della parola. La bene-volenza diventa bene-ficenza: volontà cioè di realizzare, di donare il bene-voluto dell’altro. Ma, probabilmente, torna ancora, sotto altra forma, la stessa domanda: quale è il bene dell’altro? È il suo stesso essere persona; è la pienezza del suo stesso essere per sona. Non possiamo procedere oltre, nella limitatezza dello spazio consentitoci, come dovremmo. A questo punto, infatti, si dovrebbe precisamente descrivere la verità dell’essere personale, dire precisamente quando un essere personale è pienamente tale: costruire, cioè, il discorso antropologico.
Dal punto di vista della fede, la “forma” perfetta — di cui non è possibile pensarne una più grande — della comunione, è la comunione intra-trinitaria: di essa ogni altra comunione è una analogia, nella quale più intensa e maggiore è ciò che differenzia la comunione fra le persone create dalla comunione tra le Persone increate, della somiglianza tra le due comunioni.
Nella meditazione del Santo Padre si ha uno sviluppo suggestivo della definizione di comunione inter-personale, suggerito più che sviluppato in questa lettera apostolica. Il tema era stato ampiamente sviluppato nelle sue Catechesi sull’amore umano.
L’identità fra persona e spirito, nel caso della persona umana, non è adeguata. La persona umana è, infatti, non solo spirito, ma anche corpo. In che modo, in che misura, il corpo entra nella costituzione della persona umana? È questa una domanda centrale nella costruzione dell’antropologia. Siamo costretti a limitarci solo ad alcuni accenni essenziali, quelli strettamente necessari per capire il documento pontificio.
La persona umana, come ogni soggetto personale, deve il suo essere persona non al suo corpo: come già ho detto, la materia non è persona. Lo deve al suo essere spirito. Tuttavia, il corpo non resta estrinseco alla persona, come se la persona umana non fosse anche il suo corpo. Lo stesso atto di essere per cui lo spirito è, che realizza lo spirito, è comunicato anche al corpo, per cui la persona umana è il suo spirito e il suo corpo. Questa comunicazione non degrada — contro ogni spiritualismo esagerato di ieri e di oggi — lo spirito, ma eleva il corpo. In forza di questa elevazione ontologica, la persona umana è una persona corporale ed il corpo umano è un corpo personale: il corpo umano ha la dignità stessa della persona.
Da questa singolare costituzione dell’uomo deriva che il corpo porta inscritta in se stesso la capacità di esprimere la persona: è il linguaggio della persona. Troviamo in questa situazione o condizione ontologica dell’uomo la ragione originaria del fatto che la persona umana è uomo e donna. La mascolinità/ femminilità sono il simbolo o il linguaggio originario della vocazione della persona umana alla comunione interpersonale. Il simbolo è portatore di tutto questo mistero. Esso connota una diversità e quindi una sussistenza di ciascuno in se stesso; esso connota una reciprocità e quindi una chiamata ad essere con e per l’altro. In una parola: l’unità dei due o la dualità nella unità, connotata nella e dalla corporeità, è il segno essenziale e immutabile della persona, considerata nella sua intima verità. Ogni riflessione successiva sulla donna, sul suo mistero e ministero, deve prendere le mosse da questa base.
3. L’etica del dono
L’essere corporeo spirituale dell’uomo è affidato, quanto alla sua realizzazione ultima, alla sua libertà: è questo affidamento il tema della riflessione etica. Se la costituzione della persona è quella abbozzata nei due punti precedenti, il dono di sé è l’atto supremo della libertà creata e il rischio di non arrivare mai ad esso, il rischio supremo della medesima. O il grano di frumento muore e allora porta frutto o non muore e allora resta solo; è dentro questo aut-aut che la persona decide il suo destino eterno. Solo donandosi essa trova sé stessa, come insegna il Vaticano II.
La tradizione etica cristiana ha lungamente e profondamente riflettuto su questo tema, nella luce del mistero trinitario e del mistero cristologico. Mi sia consentito richiamare solo alcuni momenti di questa tradizione.
La radice ultima di questa esigenza del dono sembra doversi individuare nell’atto stesso che ci ha dato origine: l’atto creativo. Esso è assolutamente libero; esso è un atto di amore puramente gratuito. Il termine dell’atto creativo è il nostro atto di essere, il quale è, pertanto, un puro dono. Esso ci appartiene in quanto ci è continuamente donato: la conservazione nell’essere è una continua creazione. Il primo e fondamentale riconoscimento della nostra condizione di creatura consiste allora nel dono totale che ciascuno di noi fa di sé al Creatore: nell’atto di adorazione. Ma il fatto che il nostro essere sia in sé e per sé dono, struttura anche la relazione con le altre persone, la ispira e la governa: una relazione che si istituisce nell’auto-donazione reciproca.
Ciascuno di noi è stato creato in vista del Cristo e solo nella partecipazione alla sua condizione di Figlio si compie il nostro destino eterno. Il dono dello Spirito, che perfeziona questa partecipazione, inserisce nella nostra soggettività la stessa, sia pure partecipata limitatamente, divina capacità di comunione interpersonale.
Prima dell’avvenimento cristiano, l’uomo e la donna conoscevano una sola forma per realizzare questa vocazione: la forma coniugale. Cristo ha svelato e reso possibile un’altra forma: la forma verginale. Questa nuova possibilità ha illuminato di nuova luce anche quella precedente. Ha costretto a ripensare tutta l’etica del dono, la struttura della comunione personale e, alla fine, a rimeditare il mistero della persona umana.
Verginità - sponsalità - maternità: nella nuova Eva si sono incontrate e simultaneamente realizzate. È stato possibile questo “miracolo esistenziale” perché la libertà di Maria si realizzò interamente nel dono: “Si faccia di me secondo la Tua parola”.
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