SEMINARIO DI STUDIO SULLA PASTORALE GIOVANILE
Ferrara, 31 ottobre 1998
[Testo ad uso privato dei partecipanti]
01. La ragione ultima del nostro incontro sono i giovani. Più
precisamente: la loro evangelizzazione. Ma i nostri interlocutori non sono
loro: non parleremo a loro, parleremo di loro. Siamo noi adulti che oggi
dobbiamo metterci in questione, in ordine alla responsabilità che
abbiamo di annunciare il Vangelo di Cristo ai giovani. E’ una responsabilità
che può anche esigere una nostra «messa in questione»:
una conversione per usare la parola esatta. E’ difficile convertirci: scattano
subito meccanismi di auto-difesa. Oppure ci comportiamo come la persona
di cui parla Gc 1,23b-24. Cioè: facciamo riflessioni anche pertinenti,
ma già cominciando da domani mattina, tutto resta come prima. La
nostra comunità cristiana intende proporsi quest’evangelizzazione
come uno dei suoi impegni prioritari e più urgenti. E’ per questo
che ciascuno deve sentirsi realmente, concretamente corresponsabile.
02. Penso che sia necessario dire subito che cosa di proponiamo di raggiungere
con questo seminario di studio (A) e che cosa non ci proponiamo di raggiungere
(B).
(A) Vogliamo chiarirci il meglio possibile che cosa significa,
che cosa comporta annunciare il Vangelo di Cristo oggi ai giovani. Non
nel senso che dobbiamo inventare i contenuti dell’annuncio. Questi sono
già stati inventati dal Padre, fin dall’eternità. Eventualmente,
anzi certamente dobbiamo continuamente meditare, assimilare sempre più
profondamente quei contenuti: per avere “una conoscenza piena della sua
volontà con ogni sapienza ed intelligenza spirituale” (Col 1,9).
Ciò che oggi, in questo incontro, cercheremo di capire
è come quei contenuti debbano essere comunicati ai giovani, così
che ne percepiscano l’intima ragionevolezza, cioè la corrispondenza
fra le loro domande e la risposta che è Cristo.
Il punto nodale, la «causa» dell’evangelizzazione
dei giovani può essere espressa nei termini seguenti: esiste un’originaria
corrispondenza fra il Vangelo e il cuore del giovane, che se non è
resa consapevole, il nostro annuncio passa sulle loro teste oppure, se
accolto, genera o ipocriti o spostati dalla vita. O il rifiuto, o una fede
non pensata, o una fede fuori dalla vita. Il nostro seminario vuole riflettere
su questo: come annunciare il Vangelo in modo tale che quella corrispondenza
emerga nel cuore del giovane.
(B) Non ci proponiamo quindi oggi, né mai, di scrivere
una programmazione di pastorale giovanile. L’annuncio evangelico accade
nel rapporto interpersonale (primato della persona!) che è sempre
un avvenimento irripetibile. D’altra parte però si deve essere immuni
o almeno guardarci dalle più gravi insidie all’attività educativa:
l’incertezza nella proposta e la confusione negli obiettivi o una sorta
di “pendolarismo” sia nell’una che negli altri.
In breve: vogliamo almeno incominciare ad individuare le modalità
in cui quella che ho chiamato la «causa del Vangelo»
debba essere servita.
1. Nella recente Enciclica Fides et ratio c’è un passaggio in
cui si parla esplicitamente dei giovani:
“Con la presente Lettera, desidero continuare quella riflessione concentrando
l’attenzione sul tema stesso della verità e sul suo fondamento in
rapporto alla fede. Non si può negare, infatti, che questo periodo
di rapidi e complessi cambiamenti esponga soprattutto le giovani generazioni,
a cui appartiene e da cui dipende il futuro, alla sensazione di essere
prive di autentici punti di riferimento. L’esigenza di un fondamento su
cui costruire l’esistenza personale e sociale si fa sentire in maniera
pressante soprattutto quando si è costretti a costatare la frammentarietà
di proposte che elevano l’effimero al rango di valore, illudendo sulla
possibilità di raggiungere il vero senso dell’esistenza” (6, cpv.
3).
Questo testo è in perfetta sintonia con la ricerca fatta
in occasione del Congresso Eucaristico Nazionale 1997, e pubblicata in
Giovani e generazioni, a cura di P. Donati e I. Colozzi, ed. Il Mulino,
Bologna 1997.
Comincio col formulare la mia ipotesi esplicativa-interpretativa della
situazione giovanile nel suo profondo disagio; a rispondere cioè
alla seguente domanda: quale è la radice ultima del disagio giovanile?
La mia risposta è: perché i giovani non sanno più
se e perché “vale la pena” di essere liberi. Non sanno più
quale è il senso del loro essere liberi. Si vedono come condannati
al supplizio di una libertà insensata.
Vorrei fermarmi un momento per chiarire un poco il significato
di ciò che ho detto, così che prima di dichiararvi d’accordo
o contrari con questa ipotesi esplicativa del disagio giovanile, vi risulti
chiaro ciò di cui parliamo e discutiamo. La libertà è
una cosa ... strana. Lo vediamo quando tutti noi ci troviamo a vivere quei
momenti in cui ... “non sappiamo che cosa fare”. Siamo liberi (cioè
possiamo scegliere di fare A o il contrario di A), ma non sappiamo per
che cosa, cioè in vista di che cosa siamo liberi. La libertà
stessa chiede di essere orientata. Cioè: la libertà non è
solo “libertà da ...” ma è in primo luogo “libertà
per ...”. Nel momento in cui non so più orientare la mia libertà,
nel momento in cui non so più perché, “in vista di che cosa”
sono libero (non so che cosa fare), la libertà diventa insopportabile,
poiché è la porta principale attraverso la quale entra nella
vita la peggiore malattia spirituale: la noia, la noia di vivere (i Padri
della Chiesa la chiamavano la tristezza). Ciò che dico è
precisamente: oggi il disagio giovanile è il disagio di chi ha smarrito
il significato della libertà; è un’immensa “tristitia cordis”
che è penetrata nel loro cuore. Anche la già citata ricerca
concorda sostanzialmente con questa ipotesi esplicativa (cfr. op. cit.
pag. 280).
Ancora una volta, un testo di Fides et ratio è particolarmente
illuminante:
“E’ da osservare che uno dei dati più rilevanti della nostra
condizione attuale consiste nella «crisi del senso». I punti
di vista, spesso di carattere scientifico, sulla vita e sul mondo si sono
talmente moltiplicati che, di fatto, assistiamo all’affermarsi del fenomeno
della frammentarietà del sapere. Proprio questo rende difficile
e spesso vana la ricerca di un senso. Anzi – cosa anche più drammatica
– in questo groviglio di dati e di fatti tra cui si vive e che sembrano
costituire la trama stessa dell’esistenza, non pochi si chiedono se abbia
ancora senso porsi una domanda sul senso. La pluralità delle teorie
che si contendono la risposta, o i diversi modi di vedere e di interpretare
il mondo e la vita dell’uomo, non fanno che acuire questo dubbio radicale,
che facilmente sfocia in uno stato di scetticismo e di indifferenza o nelle
diverse espressioni del nichilismo.”
2. Se l’ipotesi esplicativa suddetta è vera, da essa deriva una
conseguenza di enorme importanza riguardante le cause di questo disagio
giovanile. La causa principale del disagio giovanile è stata una
carenza, anzi un vuoto educativo. Spiego con una immagine. Immaginiamo
una catena fatta di tanti anelli: l’uno tiene l’altro dal principio alla
fine. Se se ne spezza uno, è l’intera catena che si divide in due
tronchi separati. Si è spezzato l’anello che è costitutivo
della proposta educativa, anzi dall’atto dell’educare. L’intreccio (ho
parlato di anelli della catena) mirabile costituito fra chi educa e chi
è educato è venuto meno. Ma perché il disagio giovanile
trova la sua spiegazione ultima in una carenza, in un vuoto educativo?
La persona umana non decide di venire al mondo: essa è
posta nel mondo. Lo stupore di fronte alla realtà genera nel cuore
di ogni uomo neo-arrivato nel mondo, due domande fondamentali: dove sono
arrivato? Il mondo in cui sono arrivato è buono o ostile? Cioè:
la domanda sulla verità dell’essere e la domanda sulla bontà
dell’essere. Vorrei che rifletteste profondamente su questa condizione
umana. Se io mi trovo buttato in un paese, in un territorio che mi è
completamente sconosciuto e ritengo di non poterlo conoscere, come posso
muovermi in esso? dove vado? come ci vivo? Se io mi trovo buttato in un
paese, in un territorio che mi è completamente sconosciuto e ritengo
di non poter conoscere ciò che mi consente di vivere bene in esso
e ciò che mi può danneggiare, come posso passare la mia vita
in esso? vedete: la libertà (il potermi muovere nel mondo) diventa
una condanna, se non conosco la verità ultima della realtà;
se non so che cosa è bene, che cosa è male. Cioè:
una libertà incapace di orientarsi e quindi disorientata, è
insopportabile.
Venuto a vivere in un territorio che non conosco, devo essere
introdotto in essa da chi già ci vive. L’introduzione della persona
umana dentro la realtà si chiama educazione: educare una persona
significa introdurla nella realtà, cioè renderla libera.
La si rende capace di giudicare ciò che è vero e ciò
che è falso, di giudicare ciò che è bene e ciò
che è male; la si rende capace di amare il bene conosciuto. E questa
è la libertà.
Che cosa è successo? E’ successo che noi adulti abbiamo
prodotto una società fondata sul presupposto che ogni opinione ed
il contrario di ogni opinione ha lo stesso valore; che l’uomo è
mosso ad agire solo dal proprio tornaconto o utile individuale; che tutte
le norme che regolano la convivenza associata sono pure convenzioni; che
i criteri che regolano le scelte individuali di ciascuno sono dettate esclusivamente
dai propri gusti. Si è prodotta una società relativista,
utilitarista, convenzionalista, individualista. Cioè: un mondo nel
quale il giovane non trova più risposta alle sue domande di fondo,
da parte di chi le risposte doveva darle. E’ emersa una condizione giovanile
carica di incertezze, incapace di prendere decisioni definitive, stracolma
di informazioni, ma incapace di essere libera. Ecco: ho spiegato in che
senso alla radice del disagio sta un vuoto educativo.
3. Ovviamente, ogni interpretazione è sempre parziale (il che
non equivale a falsa) e, data anche la natura del Seminario, discutibile.
In ogni caso, la verità dell’interpretazione suddetta non esclude
nel mondo giovanile cose come l’impegno di volontariati varî (anche
se nella gioventù di oggi meno presenti, sembra, che in quella di
ieri), l’attenzione a certi valori e così sia. La nostra preoccupazione
di capire non significa “bilanciare aspetti positivi ed aspetti negativi”
per vedere da che parte pende la bilancia: operazione praticamente impossibile.
La nostra domanda è più semplice e profonda, e
quindi più difficile: quale è il tratto fondamentale che
caratterizza l’ethos giovanile di oggi? La mia risposta è stata
la seguente: la crisi di senso, dovuta principalmente ad un vuoto educativo.
Stando così le cose, esistono modalità di servire
la «causa del Vangelo» che sono sbagliate (3,1), modalità
parzialmente giuste (3,2) e modalità giuste (4).
3,1 [Modalità sbagliate]. Alla radice delle modalità
sbagliate, che descriverò poi brevemente, sta un’attitudine dello
spirito, che impedisce completamente una vera evangelizzazione, anche se
si dona molto tempo ai giovani. Tento di descriverla.
E’ il pensare, e comportarsi di conseguenza, che sia possibile
una qualsiasi forma di evangelizzazione senza nessuna dignità culturale.
Per indegnità culturale intendo, o meglio per evangelizzazione culturalmente
indegna intendo un annuncio della fede (omelie, catechesi, incontri personali
…) che non si esibisce come ragionevole: privo di una sua intrinseca ragionevolezza
ed intelligibilità, e quindi universalità in senso estensivo
ed intensivo. Questa «indegnità culturale» ha solitamente
due origini. O nel ritenere che il pensare in senso forte sia una fatica
inutile, perché destinata al fallimento; o nel ritenere che la fede
sia del tutto neutrale al modo e ai contenuti del pensare della persona
cui è annunciata. Insomma: un annuncio cristiano è culturalmente
indegno quando nasce sia da una fede «debole» sia da una ragione
«debole».
“…sia la ragione che la fede si sono impoverite e sono divenute deboli
l’una di fronte all’altra. La ragione, privata dell’apporto della Rivelazione,
ha percorso sentieri laterali che rischiano di farle perdere di vista la
sua meta finale. La fede, privata della ragione, ha sottolineato il sentimento
e l’esperienza, correndo il rischio di non essere più una proposta
universale. E’ illusorio pensare che la fede, dinanzi a una ragione debole,
abbia maggior incisività; essa, al contrario, cade nel grave pericolo
di essere ridotta a mito o superstizione. Alla stessa stregua, una ragione
che non abbia dinanzi una fede adulta non è provocata a puntare
lo sguardo sulla novità e radicalità dell’essere.” ( Lett.
Enc. Fides et ratio, 48, cpv. 1 in fine).
Alcune modalità sbagliate, perché precisamente nascono
da questa attitudine, sono possibili ed attuali nell’evangelizzazione dei
giovani. Nel ricordo solo tre, limitandomi, per ragioni di tempo, a darne
solamente una descrizione essenziale.
- Ritenere che la domanda veritativa nella catechesi possa essere
ritenuta secondaria o addirittura elusa. Per elusione della domanda veritativa
intendo un’attività catechetica la quale ritiene che in ordine al
culto dovuto al Signore, sia indifferente o secondario ciò che
noi pensiamo del Signore.
- La ricerca dello “straordinario” nell’esperienza della fede,
nella tragica confusione del «credere» col «sentire forti
emozioni sacre». Tragica, perché una tale fede è ad
un passo dalla magia e della superstizione.
- La costruzione di «comunità chiuse» come
effetto della evangelizzazione dei giovani è uno dei segni più
chiari del difetto di dignità culturale di cui sto parlando. Per
comunità chiusa intendo quella in cui l’appartenenza alla Chiesa
è decisa dall’appartenenza alla comunità e non viceversa.
E’ una fede non pensata perché non è più una proposta
universale.
3,2 [Modalità parzialmente giuste]. C’è un testo
biblico assai suggestivo:
“Da questo sappiamo di averlo conosciuto: se osserviamo i suoi comandamenti.
Chi dice «lo conosco» e non osserva i suoi comandamenti, è
bugiardo e la verità non è in lui” (1Gv 2,3-4).
Nel vocabolario giovanneo il termine «verità» ha
un significato molto preciso. Esso connota la Rivelazione compiuta da Gesù
e che è la stessa persona di Gesù (le sue parole e le sue
azioni), ed interiorizzata nel credente dallo Spirito Santo. L’espressione
quindi «la verità non è in lui» significa: la
Rivelazione non dimora nella persona in questione e quindi è una
persona bugiarda, nel senso più forte del termine. Non dice solamente
falsità; è falsità. Ma questa falsificazione dell’essere
e nell’essere accade quando non si «osservano i comandamenti».
Quando, cioè, non si vive il Vangelo che, secondo il N.T., si riassume
nell’amore al prossimo. Non si da conoscenza vera di Cristo se non diventa
agire. La verità evangelica la si conosce facendola.
Quest’affermazione che percorre tutto il N.T., può portare
a pensare che si educa un giovane alla fede solamente se lo si impegna
a fare qualcosa per gli altri; può portare a ridurre l’evangelizzazione
all’impegno per gli altri.
Questa modalità di annunciare il Vangelo ai giovani è
solo parzialmente vera ed, a causa della sua parzialità, è
estremamente pericolosa.
E’ solo parzialmente vera. Essa infatti ignora e quindi nega
nei fatti che il “fondamento e la radice di ogni salvezza è la fede”
(Conc. Tridentino, Sess. VI, cap. VII; DS 1532). Gesù non inizia
il suo annuncio, a diversità di Giovanni il suo precursore, chiedendoci
il cambiamento dei costumi. Egli ci chiede il cambiamento della mente (la
metanoia) e la fede. Uno può esercitare le virtù dell’onestà
anche non credendo: sono virtù proprie dell’uomo. Ma di per sé
questo esercizio non porta a Dio; anzi può anche allontanarci da
Lui al punto tale che prostitute e pubblicani possono precedere gli onesti
nel Regno. Nella vita cristiana tutto nasce dalla fede: la fede poi nasce
dall’ascolto; l’ascolto dall’annuncio (cfr. Rom 10,17).
E’ estremamente pericolosa. Rischia di ridurre il cristianesimo
ad una dottrina morale, di sostituire alla persona viva e reale del Cristo
risorto un impegno morale come essenza del cristianesimo. La perfezione
è la carità, ma senza la fede esiste sì una benevolenza,
ma non la carità che ci unisce a Dio, non la carità che è
la vita di Dio, non la carità che è la comunione di amore
con Lui ed i fratelli.
4. Come dunque servire la «causa del Vangelo» nell’evangelizzazione
dei giovani? Forse la domanda diventa più semplice se formulata
nel modo seguente: quali esigenze deve rispettare oggi l’evangelizzazione
dei giovani?
Prima di rispondere devo fare una premessa. Non intendo qui richiamare
le esigenze che devono essere rispettate in ogni evangelizzazione, chiunque
sia il destinatario ed il tempo in cui avviene. La mia risposta presuppone
questo e si limita al tema del nostro Seminario odierno. Dunque, ritorniamo
alla domanda.
L’evangelizzazione dei giovani deve soprattutto oggi rispettare
le seguenti tre esigenze.
4,1: L’esigenza della ragionevolezza della fede. C’è un
testo di S. Tommaso di straordinaria importanza per tutta la nostra riflessione
di oggi: “sic enim fides praesupponit cognitionem naturalem, sicut gratia
naturam, et ut perfectio perfectibile” (1,2,2 ad1um). Cioè: “la
fede presuppone la conoscenza naturale, come la grazia suppone la natura
e la perfezione il perfettibile”. La fede presuppone la conoscenza naturale!
Chiunque ha responsabilità educative non rifletterà mai abbastanza
su questo tema dell’Aquinate.
Esso in primo luogo significa che se il giovane non è
condotto ad una comprensione della proposta cristiana, tale da non trovare
in essa (proposta cristiana) alcunché di semplicemente insensato
e contraddittorio, ma anzi da trovare in essa l’unica risposta interamente
vera alle sue domande di senso, noi chiederemmo al giovane un fede irragionevole,
quindi inumana, quindi immorale.
Ma il testo tommasiano ha anche un secondo e più profondo
significato. La fede, il credere, presuppone la ragione, il pensare – dice
il grande maestro – “come la perfezione il perfettibile”. Cioè:
l’evangelizzazione è veramente tale quando conduce la persona del
giovane ad una «esaltazione» delle sue naturali perfezioni
o capacità (è il centuplo per uno di cui parla Gesù!);
quando gli ridona un gusto nella e della sua vita di ogni giorno, nel fare
gli umili gesti della sua vita quotidiana, che prima non conosceva: il
gusto di studiare o lavorare, il gusto dell’amicizia, il gusto nell’amare
la sua/il suo ragazzo/a e così via.
Dovrei ora mostrare a quali insidie oggi è esposta l’osservanza
di questa esigenza, quali difficoltà incontra, quali luoghi privilegiati
in cui chiede di essere più consapevolmente rispettata. Lo lascio
alla vostra riflessione ed al nostro dibattito.
4,2: L’esigenza del cristocentrismo (eucaristico). Vorrei chiarire
prima di tutto il significato o contenuto di questa esigenza.
Con «cristocentrismo» qui intendo due cose. La prima:
evangelizzazione non significa in primo luogo condurre all’adesione di
una dottrina o all’accettazione di un codice morale, ma condurre all’incontro
con la persona stessa di Gesù Cristo, a vivere un rapporto reale
con la sua persona. La seconda: questo incontro colla persona stessa di
Gesù è la chiave di volta, la «chiave interpretativa»
dell’intera esistenza umana. E’ quel senso ultimo e fondante di cui
il cuore del giovane è naturalmente alla ricerca.
Ma ho parlato di cristocentrismo eucaristico. O l’evangelizzazione
del giovane lo porta a vivere la celebrazione dell’Eucarestia come “fonte
e culmine” della sua vita, e quindi a dare importanza somma all’adorazione
eucaristica, o essa è completamente fuori strada. Penso che la banalizzazione
dell’Eucarestia cui oggi a volte assistiamo, sia la tragedia più
grave che possa accadere in una comunità cristiana. Essa porta inevitabilmente
a banalizzare la persona di Cristo.
Anche a questo punto dovrei mostrare quali insidie e difficoltà
oggi incontra un’evangelizzazione che voglia essere cristocentrica eucaristicamente.
Lo lascio alla riflessione ed al dibattito seguente.
4,3: L’esigenza della cattolicità. Quest’esigenza era
già stata implicata nelle due esigenze precedenti: deve però
essere esplicata.
Con esigenza di cattolicità intendo l’esigenza che ha
la fede cristiana, cioè l’incontro col Cristo, a com-porsi con ogni
esperienza umana: nihil humani a me alienum puto! La com-posizione va nel
senso discendente di una fede che intende ispirare e governare ogni esperienza
umana, e nel senso ascendente di un’umanità (di ogni persona) che
si esalta nella fede. Evangelizzare un giovane significa farne un uomo
vero perché ha incontrato Cristo, farne un vero credente perché
fedele interamente alla sua umanità.
E’ nel contesto di questa esigenza che devo presentare al giovane l’ineliminabile
dimensione ascetica, cioè di rinnegamento di se stesso (del se stesso
falsificato dalla sua libertà fuori di Cristo), che deve accompagnare
ogni esperienza cristiana.
E’ difficile rispettare quest’esigenza nell’educazione del giovane,
portato come è all’«aut-aut», piuttosto che all’«et-et».
Esiste un’esperienza, un luogo in cui concretamente è possibile
un’evangelizzazione del giovane, rispettosa veramente di queste tre esigenze?
Ne esiste uno solo e questo luogo è la Chiesa. Per cui, evangelizzare
è far dimorare la Chiesa nel cuore del giovane ed il cuore del giovane
nella Chiesa: nelle forme concrete in cui la Chiesa prende corpo. Quale
è il senso di quest’equivalenza sola capace di rispettare quella
triplice esigenza?
Il senso fondamentale è la verità dogmatica fondamentale
riguardante la Chiesa: essa è la presenza storica, visibile di Cristo
in mezzo a noi. E’ particolarmente vero per il giovane: l’evanescenza della
Chiesa dal suo cuore coincide e comporta l’evanescenza della persona di
Cristo.
E’ mediante la Chiesa, nelle forme in cui essa prende corpo, che il
giovane incontra ragionevolmente Cristo (eucaristico) e diviene interamente
vero nella sua umanità: la Chiesa gli è madre e maestra.
E’ nella Chiesa, nelle forme in cui essa prende corpo, che il giovane vive
l’esperienza di Cristo: la Chiesa è il corpo di Cristo e la sua
Sposa.
CONCLUSIONE
Questo Seminario vuole essere l’inizio di un cammino di riflessione
seria che intendiamo fare nell’anno corrente.
Durante il recente Congresso Eucaristico Nazionale, un giovane
chiede al Papa: “quante sono le vie della vita?” ed il Papa rispose: “una
sola, Gesù Cristo”. Vogliamo imparare a far percorrere al giovane
questa via.
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