IL PADRE E LA QUESTIONE DELL’ORIGINE
Ferrara 18 dicembre 1998
Che la paternità abbia attinenza all’origine (di qualcosa/qualcuno)
è convinzione che appartiene alle evidenze originarie dello spirito.
Che cosa significhi, quale sia il contenuto di questa attinenza è
forse il problema più difficile da risolvere dal punto di vista
speculativo, e da vivere dal punto di vista pratico.
Partiamo da un fatto, il più evidente ed il più
enigmatico: il fatto del nostro esserci. Nessuno forse fra i moderni ha
descritto meglio di Montale lo «choc» che lo spirito vive quando si incontra col fatto del suo esserci.
Forse un mattino andando in un’aria di vetro,
arida, rivolgendomi, vedrò compiersi il miracolo:
il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro
di me, con un terrore di ubriaco.
Poi come s’uno schermo, s’accamperanno di gitto
Alberi case colli per l’inganno consueto.
Ma sarà troppo tardi; ed io ne n’andrò zitto
Tra gli uomini che non si voltano, col mio segreto.
[da Ossi di seppia, in Tutte le poesie, Milano 1990, 42]
L’uomo «rivolgendosi», cioè guardando alla
sua origine, volendo sapere che cosa sta alle sue spalle, «con un
terrore di ubriaco» ha la percezione vertiginosa che non si è
fatto da sé e vede «il nulla alle sue spalle» e «il
vuoto dietro di lui». La più inconfutabile evidenza è
che non ci siamo fatti da noi stessi!
Per prendere coscienza pienamente chiara di quest’originaria
esperienza, dobbiamo fin dall’inizio liberare il nostro spirito da un’illusione
che ci impedisce di entrare, semplicemente entrare, dentro al problema.
Alla domanda: «che cosa sta alla mia origine?» si può
pensare di rispondere immediatamente nel modo seguente. La mia origine
è dovuta a reazioni bio-chimiche che, come in una catena non
interrotta di anelli, perpetuano la vita di una specie vivente.
Questa risposta non solo non risolve, ma non tocca neppure il
vero problema di cui stiamo parlando: il problema di sapere perché
esisti tu, perché esisto io, quando chiunque altro avrebbe potuto
esserci al tuo posto, al mio posto. La risposta suddetta spiega perché
esistono tanti individui destinati ad essere sostituiti da altri individui.
Ma il fatto da cui nasce la poesia di Montale non è questo. E’ il
fatto del mio «io» irripetibile ed unico, che non trova spiegazione
nei meccanismi della riproduzione della specie.
Dobbiamo avere allora una coscienza molto intensa dell’esserci
del nostro «io»: della superiorità – direbbe Kierkegaard
– del singolo sul genere (o specie). E quindi di fronte al «nulla
alle mie spalle, il vuoto dietro di me» due sono le ipotesi verificabili:
o sono stato voluto da un Altro oppure la realtà è una
favola, un inganno senza consistenza. Nella poesia citata, noi vediamo
un uomo proprio nel momento in cui decide di non verificare neppure la
prima ipotesi, per cui «s’accampagno di gitto/ alberi case colli
per l’inganno consueto». E’ dentro a questo dramma esistenziale che
si pone la questione del Padre.
1. La risposta di F. Kafka e di Teresa di G. Bambino
La questione del Padre ha percorso, ha attraversato tutta la modernità,
dominata come è stata, nella sua riflessione, dal problema del cominciamento.
Verso la fine di questo percorso, due grandi esperienze spirituali ne hanno
come espresso i due esiti possibili: l’esperienza di F. KAFKA e l’esperienza
di S. TERESA DI GESU’ BAMBINO. Più precisamente mi riferisco per
il primo a la Lettera al padre (1919) e per la seconda soprattutto al Manoscritto
B e C.
In questo primo punto della mia riflessione cercherò di dare
almeno uno schizzo delle due risposte alla questione dell’origine, del
modo di essere di fronte al Padre da parte di questi due spiriti.
1,1. Il documento kafkiano è dominato da un’insostenibile
tensione dialettica: da una parte esso manifesta un bisogno estremo di
paternità, dall’altra esso diagnostica il fallimento totale dell’esistenza
a causa della presenza in essa della paternità. Ma cercherò
di procedere nel modo più analitico possibile.
“Da quando ho l’uso della ragione tanto mi tormenta il problema
della sopravvivenza spirituale che tutto il resto m’è indifferente
(= geistige Existenzbehauptung = affermazione spirituale dell’esistenza)”
(F. Kafka, Confessioni e diari, ed. Mondadori, Milano 1996, pag. 673).
Che cosa significa «affermazione spirituale dell’esistenza»?
Pienezza di significato nella vita: gli antichi parlavano di «beatitudine»
e Tommaso di «plenitudo essendi», pienezza di essere. Kafka
è dominato dal senso di un’intrinseca fragilità dell’esistere,
«poiché io non ero mai sicuro di nulla e ad ogni istante volevo
una nuova conferma della mia esistenza, poiché non possedevo nulla
che fosse assolutamente, inequivocabilmente , unicamente mio e determinato
soltanto dal mio possesso, poiché in fondo ero un figlio diseredato»
(pag. 674).
Vedremo che Teresa vive la stessa identica esperienza, forse
in un modo ancora più drammatico: la consapevolezza di non possedere
nulla di proprio. La stessa esperienza di Montale. Ma continuiamo a percorrere
il cammino di Kafka.
E’ da questa consapevolezza che nasce in Kafka, e si struttura
completamente l’esperienza della paternità: invocata e condannata.
Che cosa è accaduto perché si giunga alla condanna più
radicale della paternità, credo, pronunciata nella modernità,
da parte di chi ha espresso anche in modo unico il suo bisogno? “Talvolta
mi par di vedere spiegata una carta della terra mentre Tu vi sei
disteso sopra trasversalmente. Allora ho l’impressione che a me rimangono
per viverci solo le regioni che tu non copri e che sono fuori della tua
portata. Secondo l’idea che mi sono fatto della tua grandezza, le regioni
sono poche e non molto gradevoli” (pag. 684). E’ accaduto che la presenza
paterna è sperimentata come un presenza invadente ed opposta alla
sua libertà: esattamente la stessa esperienza da cui inizia il figlio
minore della parabola evangelica. Essa “dipende dal fatto che tu in quanto
mano che forgia e io in quanto materiale da forgiare eravamo tanto estranei
l’uomo all’altro … e osavo muovermi soltanto quando il tuo potere, almeno
direttamente, non mi raggiungeva più” (pag. 650). Forse qui tocchiamo
il punto nevralgico centrale dell’esperienza di Kafka, e della modernità.
Biblicamente (cfr. Isaia e Geremia soprattutto), Kafka ricorre
al grande simbolo della «mano che forgia» e del «materiale
da forgiare» per definire il rapporto padre-figlio. Esso viene interpretato
in ciò che esprime di dipendenza, come estraneità: chi forgia
non può non essere completamente altro da chi è forgiato.
E l’alterità non può che essere pensata in termini di «padrone-servo»:
“tu ti ergevi davanti a me, e tutto ti sembrava ribellione, mentre era
soltanto la conseguenza naturale della tua forza e della mia debolezza”
(pag. 650). Cioè: fra l’affermazione della dipendenza creaturale
da Dio-Padre e l’affermazione della libertà della persona creata
esiste contraddittorietà sul piano dell’esistenza, poiché
si è perduta la visione intelligente di ciò che significa
«creare dal niente una persona».
Kierkegaard in una pagina del suo Diario aveva visto con grande
profondità che su questo l’annuncio cristiano avrebbe giocato il
suo futuro, sul piano della sua ragionevolezza.
“La cosa più alta che si può fare per un essere, molto
più alta di tutto ciò che un uomo possa fare di essa, è
renderlo libero. Per poterlo fare, è necessaria precisamente l’onnipotenza.
Questo sembra strano, perché l’onnipotenza dovrebbe rendere dipendenti.
Ma se si vuol veramente concepire l’onnipotenza, si vedrà che essa
comporta precisamente la determinazione di poter riprendere se stessi nella
manifestazione dell’onnipotenza, in modo che appunto per questo la cosa
creata possa, per via dell’onnipotenza, essere indipendente.”
[S. Kierkegaard, Diario 1840 1847, vol. 3, a cura di C. Fabro, ed.
Morcelliana, Brescia 1980, pag. 240]
Ritornando a Kafka possiamo per così dire segnalare i
seguenti momenti fondamentali nel suo percorso di rifiuto della paternità.
Il punto di partenza va situato nel problema della «geistige Existenzbehauptung
» (affermazione dell’esistenza spirituale), cioè dell’affermazione
di sé come «libertà sensata». Secondo momento:
questo bisogno si scontra colla consapevolezza del «non possedere
nulla che sia assolutamente, inequivocabilmente, unicamente» dell’uomo
e «determinato dal suo possesso». Terzo momento: questa condizione
di tensione fra bisogno – mancanza – affermazione pone la persona nella
necessità logica ed esistenziale di cercare una pienezza fuori di
sé. Quarto momento: Kafka rifiuta che possa trovarsi in un esperienza
di paternità, poiché questa connota pura affermazione di
se stessa contro ogni affermazione dell’altro.
Ed allora l’universo dell’essere viene così configurato:
“il mondo era diviso per me in tre parti: nell’una vivevo schiavo, sottoposto
a leggi inventate solo per me e alle quali io, non so per quali ragioni,
non sapevo pienamente assoggettarmi; nella seconda, infinitamente lontano
dalla mia, vivevi tu, partecipe al governo, occupato a dare ordini e a
irritarti quando non erano obbediti; ed infine c’era un terzo mondo dove
la gente viveva felice e libera da comandi ed obbedienze” (pag. 648).
Vorrei attirare la vostra attenzione sull’ultima parte della
citazione. Kafka ipotizza qui la possibilità di una salvezza (cfr.
Confessioni e diari, ed. Mondadori, Milano 1972, pag. 794 “…il Signore
passi per caso nel corridoio, guardi in faccia il prigioniero e dica: costui
non rinchiudetelo più. Ora viene con me”) oppure prelude già
al gaio nichilismo contemporaneo come unica uscita di sicurezza? “Era un
congedo intenzionalmente prolungato che prendevo da te; solo che, da te
costretto, questo distacco volgeva però nella direzione da me voluta”
(pag. 672). Quale direzione? Evidentemente da una paternità sperimentata
come negazione della propria esistenza spirituale ad una paternità
come affermazione della libertà senza alcuna estraneità (“figlio
tutto ciò che è mio, è tuo”: Lc. 15,31). Fu «presentimento»
nell’infanzia, “poi come speranza, più tardi ancora come disperazione”
(pag. 672).
1,2. E’ singolare che il cammino percorso da Teresa di Gesù
Bambino sia esattamente lo stesso di quello di Kafka nelle prime tre tappe,
nei primi tre momenti sopra indicati. La divaricazione essenziale accade
dal quarto momento in poi. Questa divaricazione ora cercherò di
descrivere.
Il punto di partenza di Teresa è la consapevolezza incredibilmente
intensa in una ragazza della sua età, della miseria umana da una
parte, e dall’altra della presenza nel cuore umano di desideri infiniti:
il filo d’erba assetato, di cui parla Agostino.
E’ in questa condizione che Teresa scopre la paternità
di Dio come unica soluzione vera per la ragione e buona per la libertà,
al problema posto dalla condizione paradossale dell’uomo. In che cosa consiste
questa scoperta? Quale è il suo contenuto?
Essa non consiste precisamente nella pura accettazione della
propria debolezza, che condurrebbe l’uomo o alla disperazione oppure alla
visione pagana della vita (creatura=limite) oppure al gaio nichilismo contemporaneo
(mi accontento della mia debolezza). Essa non consiste neppure nella unilaterale
esaltazione dell’Onnipotenza-Misericordia di Dio (come fece Lutero: la
gloria di Dio sulle ceneri dell’uomo!): questo distrugge l’uomo, come vide
chiaramente Kafka.
La scoperta della paternità di Dio consiste nell’incontro
bruciante delle due affermazioni suddette: paternità di Dio significa
intrinseco, naturale e libero orientamento di Dio a donare pienezza
di essere al «vuoto» della creatura; essere creatura significa
riceversi completamente nella consapevolezza del “povero nulla” della propria
persona. La ragione dell’essere non è contesa da due abitanti
estranei l’uno all’altro, come in Kafka. Essa è la glorificazione
dell’Amore che dona gratuitamente. L’immagine che spaventava Kafka, e l’esperienza
dalla quale egli ha cercato, senza riuscirvi, di uscire con la professione
e il tentativo di matrimonio, diventa l’attrazione di Teresa: quella dell’infanzia
che si riceve interamente dal Padre. Essa, quindi, non connota nessuna
falsa mistica debolezza e nessun desiderio di annullarsi nella propria
soggettività singolare ed unica. Al contrario. E’ la risposta al
problema della «geistige Existenzbehauptung» o, nei termini
di Teresa, al «voglio tutto».
Perché Teresa ha trovato questa risposta? Dove ha scoperto
questa risposta? Non è semplicemente una questione di pensiero,
di sentimenti, di atteggiamenti, di scelte.
“Detto altrimenti: paternità di Dio e infanzia dell’uomo resterebbero
irriducibilmente distanti – per quanto piccolissima si faccia la creatura,
per quanto ella voglia ciecamente abbandonarsi – se la «piccola via»,
che si estende fra l’una e l’altra non fosse, in realtà, ontologicamente
offerta in una concreta persona, essenzialmente filiale, la cui duplice
natura umana e divina garantisce lo scambio realizzato tra l'infinita ricchezza
di Dio e l’infinita povertà della creatura”.
[A.M. Sicari, La teologia di S. Teresa di Lisieux dottore della Chiesa,
Ed. OCD/Jaca Book, Milano 1997, pag. 449).
E’ solo nell’incontro con Cristo, l’Unigenito Figlio, che noi alla fine
scopriamo la paternità di Dio: “ Dio nessuno l’ha mai visto [ecco
la condizione dell’uomo – Kafka]; proprio il Figlio unigenito, che è
nel seno del Padre, lui lo ha rivelato” (Gv. 1,18). In Cristo noi scopriamo
che il Mistero stesso di Dio è il mistero di una natura posseduta
in eterna consustanziale relazione paterna-filiale nella comunione dello
Spirito Santo: una relazione fatta tutta di dono. L’essere del Padre è
tutto e solo nel donare; l’essere del Figlio è tutto e solo nel
ricevere. E’ in questa relazione che ciascuno di noi è stato pensato
e voluto, come figlio: figlio nel Figlio, la filialità definisce,
alla lice della fede, la nostra costituzione ontologica.
2. Chi ha ragione: Kafka o Teresa di Lisieux?
L’esperienza di questi due grandi spiriti, se attentamente meditata,
ci conduce ad alcune domande fondamentali, ai «nodi teoretici»
della questione del Padre e dell’origine: nodi teoretici che decidono la
risoluzione ultima della verità dell’esistenza per l’uomo itinerante
nel tempo. Li richiamo brevemente.
2,1. Nella riflessione teoretica contemporanea (e moderna) è
andata completamente smarrita la verità della creazione. Non ho
detto: l’affermazione dell’atto creativo. Sto parlando dell’oscurarsi completo
dell’intelligenza della verità della creazione. Ciò è
dovuto in ultima analisi al rifiuto della ragione di passare dai fenomeni
al fondamento: alla spiegazione radicale e fondante dell’universo dell’ente.
Ma non è su questo che ora voglio attirare la vostra attenzione.
Dal punto di vista teoretico, la verità della creazione
è il punto di arrivo dell’esigenza metafisica che l’ente finito
ha di essere fondato radicalmente all’essere infinito, pena altrimenti
la necessità o di negare ciò che l’esperienza attesta inconfutabilmente
o di affermare il contraddittorio. Il «dal nulla» che entra
nella definizione dell’atto creativo non indica altro che l’inconsistenza
fondamentale dell’ente finito se separato dalla causa del suo essere. L’essere
finito non presuppone all’atto creativo un soggetto o materia di
derivazione: da sé l’essere finito è puro nulla. L’atto creativo
lo pone in essere tutto. Nella creatura non c’è nulla che non sia
da Dio, ma tutto è da Dio perché da se stessa la creatura
è nulla. La creatura è dunque pura relazione al Creatore,
nel senso preciso che essa dipende totalmente nel suo essere da Dio.
2,2. Ma è qui che si pone un secondo nodo teoretico, che dal
punto di vista esistenziale è quello decisivo da sciogliere. Se
questa è la costituzione ontologica della creatura, essa allora
è – nulla: solo Dio è. Ricordate la figura di Kafka, dell’universo
dell’essere come una regione, sulla quale il Padre è disteso ed
occupa ogni posto.
L’essere di Dio e l’essere della creatura non sono univocamente «sommabili»:
Essere increato + essere creato = Essere totale. E’ in senso analogico
che parliamo di essere creato: la luce del sole non diviene più
splendente se cresce il numero degli oggetti illuminati. Questi non aggiungono
nulla alla luce del sole, dal momento che ricevono interamente da esso
la loro luminosità: nessuna luminosità che non derivi
loro dal sole. La ragione che va alla ricerca ultima del fondamento scopre
che la «logica» intima dell’essere è ternaria: essere
(principio di identità), ricevere (principio di causalità-partecipazione),
donare (principio di finalità). La fede ci rivelerà che l’Essere
è trinità di persone. Hegel, l’ateo per eccellenza, pone
una «logica binaria»: fenomeno-realtà, finito-Infinito,
per cui l’essere finito non possiede nessuna consistenza sino a quando
non è pensato come necessaria manifestazione dell’essere Infinito.
Nel nichilismo attuale diventa, perso ogni pensiero dialettico, l’universo
diventa di puri dati dove non esiste più nessun Donatore.
“Non è più la situazione di esseri che sanno di non essere
l’essere ma di averlo avuto (…), e di averlo a loro volta per darlo … Ormai
la situazione è quella di esseri che assurdamente si considerano
come, uno per uno, posti, non si sa come, in assoluto, di contro ad altri
esseri che si considerano a loro volta posti in assoluto”
(G. Sommavilla, Il bello e il vero, ed. Jaca Book, Milano 1996, pag.
57).
2,3. E siamo così al terzo ed ultimo nodo teoretico della questione
del Padre: quello della libertà, della realtà di una libertà
creata «di fronte» alla libertà di Dio. La più
grande analisi moderna di questo problema è quella di S. Kierkegaard
in La malattia mortale. E’ possibile sul piano del pensiero, è realizzabile
una vera libertà creata? (a) Dire libertà creata è
dire circolo quadrato: è la risposta di Sartre. Non è pensabile
l’affermazione della libertà in una visione creazionistica. Ma questa
affermazione della libertà fatta a spese della verità della
creazione costa un alto prezzo: la negazione che l’uomo sia libero per
qualcosa. E’ una libertà in-sensata. (b) Dire libertà creata
è dire libertà in opposizione alla libertà increata
o in schiavitù della stessa. Ma questa affermazione della libertà
conduce dove giunge Kafka: alla morte della soggettività umana.
(c) Dire libertà creata è dire libertà del consenso
dell’amore (libertà mariana) sul piano della fede e libertà
di teonomia partecipata sul piano della ragione.
La verità della creazione ci mostra il volto di Dio rivolto
alla persona creata come eminente Amore-che-dona: il porre in essere è
«donare tutto». “L’«amore-che dona»: questo è
il «Volto» con il quale Dio «è rivolto verso il
contingente»” (F. Rivetti Barbò, Dio Amore vivente. Lineamenti
di teologia filosofica, ed. Jaca Book, Milano 1998, pag. 102). Esso pertanto
coinvolge eminentemente la libertà creata.
“La creazione dal nulla esprime a sua volta che l’onnipotenza può
render liberi. Colui al quale io assolutamente devo ogni cosa, mentre però
assolutamente conserva tutto nell’essere, mi ha appunto reso indipendente.
Se Iddio, per creare gli uomini, avesse perduto qualcosa della Sua potenza,
non potrebbe più rendere gli uomini indipendenti”.
[S. Kierkegaard, op. cit., pag. 241]
Conclusione
La riflessione che abbiamo condotto, come avete potuto constatare,
entra nel dramma essenziale del destino umano. E non c’è dubbio
che è stato grande merito della modernità l’averlo fatto
emergere con tale intensità. E’ stato un percorso che ha avuto in
molti come esito la perdita dell’esperienza della paternità, e quindi
della filialità. E’ l’insidia più grave tesa all’uomo: insidia
costante e subdola, diabolica. Agostino aveva già in qualche modo
percepito il «nodo» della questione:
“Credo in Dio Padre onnipotente. Come si fa presto a dirlo, ma quanto
è grande! Egli è Dio, egli è Padre; Dio per la potestà,
Padre per la bontà. Come siamo felici di avere come padre il nostro
Dio! Crediamo dunque in lui e tutto ci possiamo ripromettere dalla sua
misericordia perché egli è l’Onnipotente: noi infatti crediamo
in Dio Padre onnipotente”.
[Discorso 213,2; NBA XXXII/1, pag. 205]
Gli fa eco S. Kierkegaard, che pure visse un’esperienza col suo
Padre terreno che richiama quella di Kafka:
“Soltanto l’onnipotenza può riprendere se stessa mentre si dona,
e questo rapporto costituisce appunto l’indipendenza di colui che riceve.
L’onnipotenza di Dio è perciò identica alla sua bontà.
Perché la bontà è di donare completamente ma così
che, nel riprendere se stessi in modo onnipotente, si rende indipendente
colui che riceve”
(l.c. pag. 240)
E’ in questa «sintesi» di paternità-onnipotenza
tutto il mistero della nostra origine.
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