CONSEGNA DEL MESSAGGIO DI GIOVANNI PAOLO II
IN OCCASIONE DELLA GIORNATA MONDIALE DELLA PACE 1997
Sala del Sinodo, Palazzo Arcivescovile
28 dicembre 1996
Signore,
Signori,
vi sono profondamente grato per aver accolto anche quest’anno il mio
invito a scambiarci un vero augurio. Fin dal primo momento in cui il Signore
ha voluto, nel disegno imperscrutabile della sua Provvidenza affidarmi
il governo di questa Santa Chiesa di Ferrara-Comacchio, ho ritenuto essere
mio dovere grave mantenere un rapporto di vero rispetto e di sincera cooperazione
con chi governa la società civile. Dopo il primo anno del mio servizio
pastorale, vi devo dare atto di aver trovato in voi attitudini di grande
rispetto, attenzione ed anche non raramente sostegno. Ve ne ringrazio di
cuore.
“Soltanto tre anni ci separano dall’aurora di un nuovo millennio, e
l’attesa si fa carica di riflessione, suggerendo una sorta di bilancio
del cammino compiuto dall’umanità davanti allo sguardo di Dio, signore
della storia” (1,1). se questo “carico di riflessione” si impone ad ogni
uomo, molto più esso si impone a chi, in un modo o nell’altro, ha
responsabilità di comunità umane. Il Messaggio di Giovanni
Paolo II per la Gionata della Pace è un invito a questa riflessione
e ce ne offre gli spunti fondamentali.
Chi ha responsabilità di comunità umane, a qualunque
titolo, sa bene che il primo e fondamentale dovere è di assicurare
una convivenza ordinata e pacifica. Solo, infatti, una tale convivenza
assicura ai singoli un pieno sviluppo della propria persona. In questo
senso, il bene della pace intesa come la tranquillità dell’ordine,
è il bene fondamentale di ogni comunità umana. Ora, come
dice il Santo Padre, “il mondo moderno, nonostante i numerosi traguardi
raggiunti, continua ad essere segnato da non poche contraddizioni” (2,1).
Da una parte, infatti, la quantità dei beni a disposizione dell’uomo
non è mai stata così grande; i mezzi della comunicazione
hanno raggiunto una tale perfezione tecnica da trasformare tutto il mondo
in un villaggio in cui tutti sanno tutto di tutti, ed ogni piccolo villaggio
in un mondo in cui arrivano informazioni su tutto; gli sviluppi delle scienze
biologiche e chimiche hanno consentito alla medicina di liberare l’uomo
da malattie che durante il trascorso millennio, avevano distrutto intere
comunità; la diffusione sempre più penetrante della istruzione
ha liberato interi popoli dalla gravissima malattia spirituale dell’ignoranza.
Dall’altra parte, “purtroppo la scena del mondo contemporaneo presenta
anche non pochi fenomeni di segno contrario. Tali sono, ad esempio, il
materialismo ed il disprezzo crescente per la vita umana, che sono venuti
assumendo dimensioni inquietanti. Molti sono coloro che impostano la loro
vita seguendo come uniche leggi il profitto, il prestigio, il potere” (2,2).
E così non sono pochi coloro che definiscono l’impresa, la costruzione
culturale della modernità che occupa tutta la seconda metà
del millennio che sta per concludersi, una promessa mancata. Una promessa
di libertà - che ha visto in questo millennio il sorgere delle due
più terribili dittature che la storia umana ha conosciuto.
Ma una tale “presa d’atto” della situazione attuale non gioverebbe molto
ai responsabili della cosa pubblica, se non fosse seguita dal tentativo
(almeno) di fare una diagnosi e di individuare orientamenti per il futuro.
Ed è ciò che fa il Santo Padre nel suo Messaggio.
1. Diagnosi della situazione attuale. Benché il documento pontificio
non dedichi una parte specifica all’elaborazione di un giudizio diagnostico
sulla situazione attuale, tuttavia non mancano in esso elementi per costruire,
da parte nostra, un tale giudizio. Elaborazione che deve partire da una
domanda molto semplice, ma profonda: in che cosa consiste fondamentalmente,
di che natura è il “malessere” che attraversa la nostra società,
anche la nostra società ferrarese? E’ di natura prevalentemente
economica? È di natura prevalentemente sociale? È di natura
prevalentemente culturale. Cioè: il malessere è dovuto alla
scarsità di beni di uso o consumo messi a nostra disposizione? Oppure
è dovuto al senso di estraneità alla costruzione della nostra
vita associata e alle decisioni che la determinano? Oppure è dovuto
alla perdita del “gusto di vivere”, delle “ragioni per cui vale comunque
la pena di vivere”? Il malessere comunque esiste e si mostra in un segno
inequivocabile. La crisi in cui versano i due “simboli” del futuro di un
popolo lo mostrano: il dono della vita; l’istituzione matrimoniale. Il
problema demografico, un fatto della cui gravità forse non siamo
ancora pienamente consapevoli, mostra che la speranza di un futuro si va
paurosamente oscurando; la crisi dell’istituzione matrimoniale indica un
popolo che ha paura del definitivo, e dunque un popolo profondamente incerto.
Senza dunque negare che il malessere abbia anche dimensioni economiche
e sociali, sono convinto che esso è di carattere prevalentemente
spirituale, culturale. Consentitemi di sottoporre alla vostra benevola
attenzione alcune riflessioni al riguardo, maturate dal confronto fra la
mia esperienza precedente l’episcopato ed il mio attuale ministero apostolico.
Esiste come una sorta di ripiegamento, di ritirata dell’umano che è
in ciascuno di noi, dentro limiti ed orizzonti definiti solo dall’utilità
individuale. E’ una sorta di restringimento della propria umanità
dentro la prevalente (non dico esclusiva) ricerca del bene-utile. E’ la
ricerca di una sazietà che però genera solo noia ed indifferenza.
Può essere che qualcuno di voi possa pensare che ci stiamo portando
dentro discorsi che non hanno più attinenza con la vita di ogni
giorno, coi problemi che voi quotidianamente dovete affrontare. In realtà
non è così. Anche per produrre di più, anche per avere
il gusto della libera impresa in tutte le sue forme, anche per appassionarsi
alla vita dei propri municipi e della propria nazione, è necessario
avere il gusto, la passione di vivere. Un gusto, una passione che nell’uomo
si estingue quando riduce il suo desiderio alla sola ricerca dell’utilità
e non a tutto l’orizzonte del suo desiderio stesso: a tutto ciò
che è vero, bello, giusto, arduo - il Santo Padre parla di una impostazione
della vita “seguendo come uniche leggi il profitto, il prestigio, il potere”
(2,2).
Non voglio dilungarmi ulteriormente su questo tentativo di diagnosi
del nostro malessere, poiché la cosa più importante è
l’individuazione degli orientamenti del nostro agire. Individuazione alla
quale soprattutto il documento pontificio è dedicato.
2. Orientamenti operativi. Prima di riflettere su questo vorrei richiamare
la vostra attenzione su un passaggio assai importante del messaggio pontificio.
Esso dice: “La sofferenza di tanti fratelli e sorelle non ci può
lasciare indifferenti! La loro pena fa appello alla nostra coscienza, interiore
santuario in cui ci troviamo faccia a faccia con noi stessi e con Dio”
(2,4).
Quando affrontiamo i problemi dell’uomo, quelli economici come quelli
spirituali, quelli sanitari come quelli culturali, dobbiamo sentirci coinvolti
non in un qualsiasi modo. Coinvolti in quanto soggetti che hanno una coscienza
morale. E’ sempre alla nostra coscienza morale che il nostro fratello,
la nostra sorella fa appello, quando si rivolge a noi responsabili della
cosa pubblica. La nostra coscienza: il luogo cioè in cui risuona
un imperativo che semplicemente ci obbliga in quanto persona umana, la
cui inosservanza ci degrada in quanto persona umana. E’ dentro questo legame,
il legame della coscienza morale, che ci unisce a ciascuna persona umana,
che dobbiamo scoprire gli orientamenti del nostro agire.
Ora il Santo Padre ci dice che la via fondamentale per ricostruire
il tessuto stesso della socialità umana è il perdono, per
cui è dall’offerta del perdono che riceviamo la pace. La proposta
è semplicemente sconcertante, perché il Vangelo sconcerta
sempre. Che cosa significa che il perdono reciproco è una via maestra
per la ricostruzione della nostra società? Che cosa è il
perdono di cui parla il Santo Padre? E’, in fondo, il rifiuto di rispondere
alla violenza con la violenza, all’opposizione del proprio interesse con
la contrapposizione del proprio interesse; è risalire ad un punto
di vista superiore dal quale voler il bene non come equilibrio fra interessi
opposti, ma come ciò che è dovuto a ciascuno in ragione della
sua dignità. Ecco perché perdonare in sostanza significa
credere fino in fondo all’umanità dell’altro: affermarla anche contro
ogni evidenza. Perdonare è quindi l’altro volto della giustizia.
Che cosa significa infatti essere giusti se non dare a ciascuno ciò
che è dovuto, restituirlo quando è stato tolto, riconoscerlo
quando è negato? “...presupposto essenziale del perdono e della
riconciliazione è la giustizia, che ha il suo criterio ultimo nella
legge di Dio e nel suo disegno di amore e di misericordia sulla umanità”
(5,3). Ecco perché la riparazione del torto inflitto è la
prima esigenza del perdono.
Ma la giustizia implica che si conosca ciò che è dovuto
all’uomo e quindi che si conosca chi è l’uomo, quali i suoi fondamentali
beni: non ci può essere giustizia là dove impera un relativismo
circa la verità sull’uomo. “Là dove fioriscono menzogna e
falsità, fioriscono sospetto e divisione” (5,1). Non c’è
giustizia se non sulla base della verità! I nostri guai maggiori
vengono dal fatto di non sapere più chi siamo. La situazione in
cui ci troviamo ci costringe a prendere sempre più sul serio la
domanda: che persone siamo e dobbiamo essere perché il nostro parlare
di giustizia nella società abbia senso? Ha ancora senso se siamo
e dobbiamo essere solo soggetti in cerca della propria utilità?
Così inteso, il perdono è una via fondamentale per ricomporre
profondamente il tessuto stesso della nostra vita associata.
Conclusione
Può essere che il messaggio di quest’anno vi sembri lontano dalla
vostra esperienza, dai vostri problemi di ogni giorno. E’ una impressione
non fondata, come potrete rendervene conto leggendolo poi con attenzione.
Esso in fondo ci dice che i rapporti fra le persone umane devono essere
costruiti sulla verità della persona umana e sulla giustizia che
ne deriva. La violenza consiste nella negazione di quella verità
e conseguente rifiuto di dare ad ogni persona umana ciò che le è
dovuto. Una situazione di violenza, così intesa, non può
essere superata con una contrapposizione di una violenza ancora più
grande. Lo può essere solo ristabilendo verità e giustizia.
Il Vangelo ci dice che questo significa in primo luogo perdonare.
In sostanza non è questo il vostro sublime compito? Assicurare
verità e giustizia nei rapporti sociali? Ed allora ecco che cosa
vi dice il Santo Padre: “Voi, politici, chiamati a servire il bene
comune, non escludete nessuno dalle vostre preoccupazioni, prendendovi
cura particolarmente dei settori più deboli della società.
Non ponete al primo posto il vantaggio personale cedendo all’esca della
corruzione e, soprattutto, affrontate anche le situazioni più difficili
con le armi della pace e della riconciliazione”.
|