OMELIA S. APOLLINARE
Ravenna 23 luglio 1998
1. “Così dice il Signore: ecco, io stesso cercherò le
mie pecore e ne avrò cura”. La promessa profetica rivela che una
delle caratteristiche fondamentali della Nuova Alleanza è un coinvolgimento
diretto e personale del Signore nel destino del suo popolo. E’ un coinvolgimento
che comporta un’attenzione costante a, ed una cura completa di ciascuno:
“io stesso condurrò le mie pecore al pascolo e io le farò
riposare…”.
La profezia trova il suo inaspettato compimento, quando lo stesso
Figlio di Dio “della stirpe di Abramo si prende cura” (Eb 2,18), rendendosi
“in tutto simile ai fratelli, per diventare un sommo sacerdote misericordioso
e fedele” (ib.). E per tanto, Gesù – come avete sentito nel Vangelo
– applica per così dire le parole profetiche a se stesso: “io sono
il buon pastore”. Io sono: parola dal significato insondabile, poiché
rimanda alla coscienza che il Figlio di Dio fattosi uomo ha di sé
stesso, al significato che Egli attribuisce alla sua esistenza umana. Ma
proprio in questo, la pagina evangelica va ben oltre la pagina profetica.
Essa infatti radica la presenza del vero pastore in mezzo agli uomini,
e la sua modalità, nelle stesse relazioni trinitarie: “conosco le
mie pecore e le mie pecore conoscono me, come il Padre conosce me e io
conosco il Padre”.
Ma fin dove si spinge la cura che il vero Pastore ha del suo
gregge? L’autore della Lettera agli Ebrei ci guida ad una riflessione di
sconvolgente profondità. La vera schiavitù che incatena il
cuore umano è la paura della morte; è la fitta oscurità
che grava sull’uomo, quando lasciato alle forze della sua sola ragione,
si interroga sul destino finale del suo esistere. Nulla è più
certo del fatto del morire; nulla è più incerto del significato
del morire. “Il buon pastore offre la vita per le pecore”: l’uomo può
entrare nella morte, perché è già stato preceduto
dal Pastore grande delle pecore, che il Padre ha fatto ritornare dai morti
in virtù del sangue di un’alleanza eterna (cfr. 13,20). Ecco come
il Pastore ha salvato il suo gregge: colla sua morte. Ed è nella
partecipazione a questo mistero che ciascuno trova la sua salvezza.
2. “Fratelli, non vogliamo che ignoriate come la tribolazione … ci ha
colpiti oltre misura… sì da dubitare anche della vita”.
La presenza del Pastore-Cristo continua nei suoi apostoli, così
che l’apostolo ripresenta nella sua carne la stessa vicenda di Cristo.
La morte di Cristo per il suo gregge “genera” la morte dell’apostolo: “abbiamo
… ricevuto su di noi la sentenza di morte”. Trattasi di una partecipazione
così profonda che l’apostolo chiamerà le sue sofferenze «sofferenze
di Cristo», anzi perfino «completamento delle sofferenze di
Cristo» (cfr. Col 1,24).
Chiamato ad essere apostolo di Cristo, il servizio apostolico
implica un coinvolgimento totale della sua persona nella missione: la sua
persona, la persona dell’apostolo, è la sua missione cioè
la missione di Cristo. Questo comporta che l’apostolo ri-produce nella
sua vita lo stesso dono che Cristo ha fatto della propria. Nell’offerta
che l’apostolo fa della sua vita e ri-presenta al vivo la morte di Cristo:
così le comunità cristiane sono generate. Nascono dall’auto-donazione
(eucaristica) del pastore, non dall’organizzazione o dai piani pastorali,
né tanto meno dalla burocrazia ecclesiastica.
3. “Tu hai suscitato nella tua Chiesa Apollinare che, rivestito della
grazia dell’episcopato e della gloria del martirio, unì l’offerta
della vita al sacrifico eucaristico”. Il mistero della morte del buon Pastore
Cristo che dona la sua vita, è sempre presente eucaristicamente
nella Chiesa. Oggi ci troviamo riuniti a celebrare i divini misteri per
rendere grazie al Padre di averci donato Apollinare. Quali sono state le
coordinate fondamentali della sua esistenza? Come la preghiera eucaristica
ci insegna, sono state tre: la grazia dell’episcopato, la gloria del martirio,
l’unione al sacrifico eucaristico. Quale mirabile concessione! Esse circoscrivono
interamente lo spazio della vita di Apollinare.
La grazia dell’episcopato: è il misterioso legame che
unisce Apollinare a Cristo, in forza del quale Cristo stesso si è
reso presente in questa regione ravennate.
La gloria del martirio: il legame sacramentale a Cristo si tradusse
nel dono della vita per questa comunità, generata dal suo martirio.
L’unione al sacrifico eucaristico: il dono che il pastore fa
della sua vita alla sua Chiesa non è il risultato di un impegno
etico. E’ la risposta alla chiamata ad entrare nel sacrificio di Cristo,
sempre eucaristicamente presente.
La memoria del vescovo-martire accompagni il nostro ministero
pastorale perché in esso si esperimenti la presenza del buon
Pastore Cristo; sia di aiuto ai fedeli di questa nobilissima Chiesa ravennate,
perché sappiano essere testimoni del Vangelo “con la santità
e sincerità che vengono da Dio, non con la sapienza della carne,
ma con la grazia di Dio”.
“Ecco, è vivo; ecco, come il buon pastore fa sorveglianza
in mezzo al suo gregge, e non è mai separato nello spirito colui
che nel corpo per un certo tempo ci ha preceduti” (S.Pietro Crisologo,
Sermone 128,3)
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