OMELIA DI SAN GIORGIO
23 aprile 1996 (CATTEDRALE)
1. “Non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo, ma non
hanno potere di uccidere l’anima”.
Siamo riportati oggi, noi comunità cristiana della città
di Ferrara, a ripensare al nostro essere Chiesa nella luce del nostro santo
patrono, cioè nella luce del martirio. Non senza una provvidenziale
ispirazione, infatti i nostri padri hanno scelto S. Giorgio martire come
loro e nostro patrono. E’ dunque necessario che riflettiamo seriamente
sul significato del martirio nella comunità cristiana. Il testo
evangelico appena proclamato deve guidare questa riflessione.
Esso pone la decisione del martire in una comprensione che egli
ha della persona umana. Esiste una vita che può essere soppressa
dal potere di questo mondo: esiste una vita che nessun potere di questo
mondo può sopprimere. Il martire ha permesso che fosse soppressa
la prima, per salvare l’altra. Egli è sembrato essere uno sconfitto,
perché fu rinnegato davanti agli uomini. In realtà egli vinse,
perché fu riconosciuto dal Cristo davanti a Dio. Nel martirio così
accade uno straordinario paradosso: chi è sconfitto, in realtà
è vincitore e chi prevale, in realtà, è uno sconfitto;
chi muore, in realtà vive; chi vive, è in realtà già
morto. Non appena, noi sentiamo descrivere questo evento paradossale, ci
rendiamo conto immediatamente che stiamo parlando dell’evento centrale
della nostra fede: la morte e la risurrezione di Cristo. Il martire ci
rimanda, più di ogni altro (ed in questo sta la sua suprema grandezza),
al mistero di Cristo. Il Cristo non ebbe paura di coloro che uccidevano
il suo corpo perché non potevano uccidere la sua anima. La morte
di Cristo è il suo supremo atto di amore: “nessuno ha un amore più
grande ...”. In essa noi scopriamo che “valiamo più di molti passeri”
agli occhi del Padre, se Egli ha consegnato alla morte il suo Figlio Unigenito
per la nostra salvezza: “siete stati comprati a caro prezzo...”. E’ a causa
di questa morte che accade la vera, unica “rivoluzione” nella condizione
umana, cioè la risurrezione di Gesù Crocefisso ad una Vita
che nessuno più avrà il potere di distruggere. E’ nella luce
quindi del mistero pasquale di Cristo, che possiamo capire il martirio
di S. Giorgio. L’atto della morte di Cristo continua nella nostra morte.
La Chiesa non celebrerebbe in piena verità il sacrifico di Cristo,
ogni volta che celebra l’Eucarestia, se non fosse anche il suo sacrificio.
Ora il sacrificio della Chiesa sono i martiri. La morte dei martiri e la
morte di Gesù non sono che un solo atto di redenzione: la vittoria
continua sul potere dell’inferno. La morte dei martiri sono il segno che
Cristo vince.
Ma se il legame fra la morte e risurrezione di Cristo e la morte
del martire è così stretta, se la morte di Cristo diventa
operativa nella storia attraverso la morte dei martiri, allora ogni discepolo
di Cristo è chiamato, in un certo senso, al martirio. In quale senso?
Dobbiamo ora metterci all’ascolto di S. Paolo.
2. “Noi ci vantiamo anche nelle tribolazioni ... perché l’amore
di Dio è stato diffuso nei nostri cuori”. L’apostolo parla di tribolazione,
di pazienza, di virtù che è messa alla prova. E’ un insegnamento
fra i più chiari sul fatto che l’esistenza cristiana è un
“caso serio”. La testimonianza del cristiano per Cristo prende in consegna
tutta la sua esistenza. Cristo l’ha detto in modo inequivocabile: chi non
pospone tutto, anche la vita, “non è degno di me”, ed ancora: “chi
mi rinnegherà ...” In questa prospettiva, tutta la vita del discepolo
deve essere un morire a se stesso, per vivere per Cristo. L’impegno della
vita in totale e la testimonianza del sangue non sono affatto distinguibili.
Il martirio non è tanto una questione di morte, ma piuttosto una
questione che riguarda ogni istante della nostra vita. In questo senso,
ogni cristiano è chiamato al martirio.
Questa identità del cristiano, alla quale il nostro martire
oggi ci richiama, non deve essere intesa come un dovere, pesante e terribile,
che il discepolo si sente imposto dall’esterno. “La carità di Dio
è stata effusa nei nostri cuori ...” La nostra esistenza deve lasciarsi
espropriare dall’amore di Dio, rivelatosi in Cristo, e che lo Spirito ci
fa ulteriormente sentire: lasciarci conformare all’amore di Cristo, che
giunse fino al dono della vita.
Qui scopriamo la vera natura del martirio cristiano. Il martire
cristiano non muore per un’idea, sia pure assai elevata, per la dignità
dell’uomo, la libertà, la solidarietà con gli oppressi. Egli
muore con Qualcuno, Cristo, che è già morto e risuscitato
per lui. E questa è la nostra vocazione di cristiani. Che il nostro
patrono ci ottenga di recuperare questa identità del nostro essere
cristiani, la nostra vocazione al martirio. Così sia.
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