OMELIA DI POMPOSA
10 novembre 1995
1. “Dio Padre ci ha dato, per sua grazia, una consolazione eterna e
una buona speranza”. Il Signore Iddio ci ha chiamati questa sera in questo
luogo così suggestivo e ricco di memoria di tanti santi, per farci
un regalo stupendo: il regalo di “una consolazione eterna e di una buona
speranza”. E chi non ha bisogno di speranza? Si può forse vivere
senza speranza? Ma non una qualsiasi speranza ci dona questa sera il Signore.
Non solo. A chi è oppresso ed afflitto, Egli dona una consolazione
non qualsiasi, ma eterna. Quale speranza? Quale consolazione? La speranza
e la consolazione “che i orti risorgono”. Questa sera il Signore ci ha
chiamati per dire al nostro cuore: “spera, consolati perché l’ultima
parola sulla tua vita non la dirà la morte”. Ma sua quale base,
su quale fenomeno ci viene detto che risorgeranno? “Che poi i morti risorgono...”
Dunque, la ragione della nostra buona speranza e consolazione eterna è
che “Dio non è Dio dei morti, ma dei viventi, perché tutti
vivono in Lui”. E’ un punto centrale, questo, della nostra fede. Per averne
una qualche comprensione, lasciamo per un momento il testo sacro e riflettiamo
su una esperienza umana che molti di noi hanno vissuto.
In nessuna situazione noi sentiamo l’assurdità della morte,
come quando muore una persona amata. La persona amata per noi dovrebbe
sempre vivere: una madre per i propri figli non dovrebbe mai morire, la
sposa per lo sposo. Tuttavia, il nostro amore non è più forte
della morte. Se un figlio potesse impedire la morte della madre, non lo
farebbe? Certamente. L’amore esige che la persona amata esista sempre.
L’amore dice alla persona amata: “come è bello che tu esista!” Ma
l’amore umano non è onnipotente: non può fare per la persona
amata tutto ciò che desidera. Ed è per questo che muoiono
anche le persone che noi amiamo.
Ed ora, tenendo presente questa esperienza, ritorniamo al testo
sacro. Se Dio ci ama, potrà Egli permettere che noi moriamo definitivamente?
Certamente no. Se Egli può impedire che noi moriamo, non lo farebbe?
Certamente sì, poiché Egli è onnipotente. Egli ci
ama e perciò non vuole che noi moriamo definitivamente; Egli è
onnipotente e perciò non vuole che noi moriamo definitivamente;
Egli è onnipotente e perciò impedisce che noi moriamo definitivamente:
“Egli è il Dio di Abramo...” cioè il Dio di te, di me perché
io , tu viva sempre in Lui. Il suo amore non può essere vinto dalla
morte. Radice della nostra certezza è che Dio è il Dio “di”:
Egli appartiene a noi e noi a Lui. Che grande parola il Signore ci dice
questa sera in questo luogo stupendo! Egli ci rivela la passione che Egli
ha per la vita di ciascuno di noi: ci rivela questa sera che la sua gloria
è che l’uomo viva.
Il Padre ha già rivelato questo suo amore onnipotente
in un fatto molto preciso: ha risuscitato Gesù da morte. Nella risurrezione
di Gesù, ciascuno di noi ha già vinto la sua morte: è
già risorto, anche se dobbiamo passare ancora attraverso la morte
fisica. Questa tuttavia non interrompe il nostro stare con il Signore.
Non è la caduta in un nulla eterno: è lo schiudersi in pienezza
di una vita di comunione di cui già possediamo il germe.
2. “Siamo pronti a morire...” La prima lettura è una delle pagine
più drammatiche di tutta la S. Scrittura. Un tiranno cerca di ridurre
un popolo in schiavitù. C’è chi cede la propria libertà,
ma c’è chi - come i sette fratelli di cui parla la prima scrittura
- non cede e preferisce morire piuttosto che tradire le ragioni per cui
vale la pena di vivere. Ora che cosa sostiene questa lotta per la libertà
contro la tirannia, per la dignità contro la schiavitù? La
fede nella risurrezione. Che il Signore mi aiuti a spiegarvi chiaramente
questo punto! Che sia Lui stesso a spiegarvelo dentro il vostro cuore!
Perché la fede nella resurrezione è la radice di
una vera resistenza contro ogni forma di tirannia? Per la ragione molto
semplice. Come vi ho già detto, la certezza che noi non moriremo
definitivamente nasce dalla certezza che Dio possiede una vera “passione”
per la vita di ciascuno di noi, dalla certezza che Egli è
il nostro Dio e che noi a Lui apparteniamo ed a nessun altro. L’esperienza
profonda di questa nostra appartenenza suscita in noi la consapevolezza
della nostra incomparabile dignità. E’ esattamente questo “essere
di Dio” che rende l’uomo, ogni uomo, dal suo concepimento fino alla sua
vecchiaia, un essere tangibile ed adorabile. Cioè: un essere davanti
al quale tutto si deve curvare compre il Potere ed in funzione del quale
tutto di deve muovere. Il Cristianesimo è questa passione per l’umano
e quindi è passione per la libertà. Ora, di fatto il Potere,
che è una grande ricchezza umana, è sempre tentato ad interessarsi
di più a ciò che può sostenerlo o mantenerlo che a
ciò che costituisce il bene della persona. Solo la coscienza vigile,
la coscienza che è capace anche di dire “E’ belo anche morire...”,
sa costruire un mondo, una cultura, una società degna dell’uomo.
E’ l’esperienza che è accaduta a Pomposa. Uomini che hanno
creduto nella risurrezione di Cristo, e quindi lo hanno seguito fino al
sacrificio della loro vita, si sono qui riuniti. Ed hanno lavorato, bonificato,
costruito: hanno creato cultura vera, hanno reso questo mondo più
abitabile, hanno ridonato dignità a se stessi e ai loro fratelli.
La loro esperienza ha avuto inizio nella fede della risurrezione di Cristo.
La gioia che ne scaturì fu la forza che consentì loro di
introdurre nella quotidiana esistenza umana, nella nascita e nel mondo
la bellezza, la verità, la bontà.
Donde veniva loro questa forza, questa capacità creativa
in grado di produrre non solo beni di consumo? Dal fatto che nel loro cuore
avevano vinto la paura della morte a causa della loro fede nel “Dio dei
vivi e non dei morti”. Togli all’uomo la fede nell’incontro col “Dio dei
vivi” e ridiventerà schiavo della morte. E’ una schiavitù
col “Dio dei vivi” e ridiventerà schiavo della morte. E’ una schiavitù
terribile perché insidia, corrompe la nostra gioia di vivere. E’
una schiavitù che deforma tutto. L’assenza dalla nostra cultura,
dalla nostra società dell’incontro del “Dio dei vivi” è una
vera tragedia. Ci rende incapaci di fare cultura, deforma il nostro volto,
spegne nell’amore coniugale il deserto di fecondità. Infatti, fino
a quando l’uomo non incontra in Cristo il “Dio dei vivi”, si crede degno
di morire, considera la morte sua alleata.
In questo luogo è fiorita una grande cultura perché
ci furono uomini che vivevano nella certezza che l’uomo non appartiene
alla morte, appartiene al Dio dei vivi.
Ho voluto dare inizio solenne al mio ministero episcopale anche
in questo luogo, dopo Ferrara e Comacchio, per radicarlo sempre più
nella stupenda certezza della “passione” del padre per la dignità
dell’uomo; per rendere più esplicitamente partecipi anche voi di
un profondo stupore di fronte al “Dio dei vivi e non dei morti”; perché
questa nostra società riacquisti la gioia di vivere, di lavorare,
l’interesse non solo per ciò che è utile, ma anche e soprattutto
per ciò che è bello, vero, buono: come i nostri padri di
Pomposa. A gloria della Trinità Santa. Amen.
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