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Comitato "Cardinale Carlo Caffarra"


L’oggettività del giudizio morale
Madrid, 21 novembre 1988


La questione dell’oggettività del giudizio morale è fra le più complesse e fra le più importanti, non solo per la riflessione etica, ma anche per chi è impegnato nel ministero sacerdotale. Essa esige di essere trattata in maniera assai articolata.

In via preliminare, per “giudizio morale” intendo un atto della nostra ragione, espresso attraverso una proposizione nella quale il soggetto grammaticale è costituito da un termine che connota un atto della persona, il predicato è costituito da una delle due qualificazioni etiche essenziali: lecito/ illecito. Per esempio: “la contraccezione è illecita” è un giudizio morale.

Non possiamo, in via preliminare, dare una definizione di oggettività, poiché precisamente questo è il nostro problema. Essa pertanto dovrà essere pazientemente scoperta.

 

1. La negazione dell’oggettività: questione di “gusti”

 

Per cominciare, è sempre esistita ed esiste tuttora la negazione pura e semplice dell’oggettività dei giudizi morali. Non è necessario nel contesto di questo nostro incontro di studio percorrere tutta la vicenda storico-teoretica di questa negazione. È sufficiente soffermare la nostra attenzione su quella che oggi è dominante.

Il punto di partenza di questa negazione è un preciso concetto di oggettività che risulta essere non applicabile al giudizio morale, al quale, pertanto, viene coerentemente negato.

Immaginiamo di trovarci in un laboratorio chimico. Sul tavolo è disposto un microscopio ottico, sotto il quale è disposta una cellula ancora vivente. Poiché non è possibile guardare tutti in una volta, ci si mette in fila e uno dopo l’altro si guarda. Alla fine, ciascuno fa la descrizione di ciò che ha visto e la descrizione risulterà sostanzialmente identica. Nel caso che così non fosse, si riguarda più attentamente o si mette meglio a fuoco il microscopio o se ne sceglie uno maggiore.

Questa semplice immaginazione racchiude in sé un concetto molto preciso di oggettività, che ora cercherò di astrarre.

Primo: nella visione attraverso il microscopio, chiunque può prendere il posto di chiunque e nessuno è insostituibile. Tutto ciò che caratterizza ognuno — la sua lingua, la sua cultura, la sua religione e così via — non ha qui alcuna interferenza: è completamente irrilevante in ordine a ciò che si vede.

Secondo: a risultato, cioè a visione avvenuta, possono certo esserci contrasti fra chi ha visto. Questi contrasti, tuttavia, possono essere vanificati — la visione, cioè, di uno dei contendenti può essere falsificata, dimostrata falsa — richiamandosi ancora e sempre alla stessa operazione (riguardare attraverso il microscopio), eventualmente rendendola più fine e non ad altri elementi di disturbo. Queste due constatazioni ci danno ormai il preciso concetto di oggettività: tutte e solo le conoscenze raggiunte attraverso l’esclusione dal processo conoscitivo di qualsiasi interferenza della singolarità del conoscente; tutte e solo le conoscenze che, così raggiunte, possono essere continua mente verificate-falsificate colla ripetizione dello stesso processo conoscitivo che... sono da ritenersi oggettive. Esclusione di ogni interferenza della soggettività e ripetitività sine limite del processo falsificante sono le due proprietà essenziali della conoscenza oggettiva.

Storicamente, sembra ormai certo che il primo a elaborare questo concetto di oggettività sia stato Galileo Galilei. La verità delle proposizioni scientifiche è precisamente questa.

Se ora applichiamo questa definizione di oggettività al giudizio morale, dobbiamo concludere che essi ne sono completamente carenti.

Infatti, se c’è un processo conoscitivo nel quale la singolare soggettività di ciascuno è implicata all’estremo, è quello che conduce alla verità etica. Già Aristotele annotava che “qualis unusquisque est, talis finis videtur ei”. E, inoltre, che senso ha parlare di una “falsificazione della proposizione morale”? Non certo la ripetizione del processo conoscitivo, per la ragione appena detta; non certo attraverso il riferimento alle conseguenze: riferimento per altro sempre rifiutato, come criterio di verifica, da tutti i grandi testimoni della verità etica.

La negazione dell’oggettività al giudizio morale ha una conseguenza immediata. Poiché — come è ovvio — “conoscenza non oggettiva” è una contraddizione in adjecto, si deve semplicemente smettere di parlare di conoscenza etica. Le proposizioni morali non esprimono affatto nessun atto razionale di conoscenza; esse esprimono altri atti psichici: emozioni, gusti, provvedimenti puramente positivi per poter vivere in società, o altro ancora. L’etica è senza verità: discutere se un giudizio morale è vero o falso ha lo stesso senso che discutere sul colore di una sinfonia di Mozart. La verità/falsità è straniera nel territorio dell’etica. Ogni proposizione etica è sempre preceduta da un: “mi sembra che...” o “a me piace/dispiace che...” o “io sento che…”, ma non da un “è vero/falso che…”.

A questa negazione pura e semplice dell’oggettività del giudizio morale si possono muovere molte obiezioni. Mi limito ad alcune che mi sembrano più decisive per dimostrarne la totale inconsistenza teoretica.

La prima è molto generale e vale contro ogni forma positivista di pensare. Chi propone questo concetto di oggettività è incapace di giustificarlo, di darne ragione, e pertanto la sua “posizione” è irrazionale. Infatti, la proposizione seguente: “sono oggettive tutte e solo le proposizioni che...” è una proposizione oggettiva (nel senso che stiamo discutendo)? Una proposizione cioè che possa essere dimostrata attraverso quel processo che sopra abbiamo descritto? Certamente no: questo processo conoscitivo, infatti, raggiunge conoscenze solo particolari, settoriali. E allora delle due l’una: o la proposizione “sono oggettive tutte e solo...” ammette un’eccezione e allora è falsa (non è vero che tutte e solo...) o la stessa proposizione è semplicemente posta senza nessun fondamento razionale.

La seconda difficoltà è più particolare. Se noi facciamo attenzione all’esperienza etica che ciascuno di noi vive quotidianamente, vediamo che certamente in essa è coinvolto ciascuno di noi nella sua irripetibile singolarità: nessuno può prendere il nostro posto, quando si tratta di decisioni che sentiamo in coscienza di dover prendere. Ma, nello stesso tempo, sentiamo anche che chiunque al nostro posto dovrebbe prendere quella decisione: si tratta cioè di decisioni che sono richieste a me (=singolarità), in quanto esigenze del mio essere umano (=universalità). L’esigenza etica, cioè, non ha solo validità singolare, ma anche universale. Ora, questa seconda dimensione è semplicemente ignorata. E i fatti non si spiegano, ignorandoli o negandoli.

 

2. L’oggettività parzialmente affermata: “valent ut in pluribus

 

Questa seconda posizione è oggi comunemente affermata dai teologi cattolici e, poiché, a mio umile giudizio, essa è errata, cercherò di esporne le ragioni e contro-ragioni colla massima chiarezza possibile.

Devo premettere alcune nozioni semplici di logica. Esiste una differenza essenziale fra proposizioni generali e proposizioni universali. Mentre le prime sono vere de facto, le seconde sono de jure: la proposizione che nega le prime è falsa, ma non contraddittoria e quindi possibile, la proposizione che nega le seconde non è solo falsa, ma contraddittoria e quindi non può ammettere eccezioni in contrario. Un esempio. La proposizione: “tutti i gatti hanno quattro gambe” è di carattere generale. Essa, infatti, si fonda su una constatazione di fatto: tutti i gatti finora visti hanno quattro gambe e pertanto, è ragionevole presumere che così sarà anche in futuro. Tuttavia, non si può escludere in assoluto che possa esistere un gatto con sei gambe: non implica contraddizione. La proposizione: “tutti gli spiriti sono immortali” è di carattere universale. Essa, infatti, non è il risultato di una constatazione di fatto: si fonda sulla natura stessa dello spirito: san Tommaso dice che l’immortalità appartiene allo spirito come la rotondità al cerchio. Pertanto, si deve escludere assolutamente che possa esistere uno spirito mortale: tale esistenza è contraddittoria. In breve, solitamente si dice: le proposizioni generali “valent ut in pluribus”; le proposizioni universali “valent semper et pro semper”.

A quale di queste due categorie appartengono le proposizioni morali? Per esempio, la proposizione: “l’uccisione di un innocente è illecita” è generalmente o universalmente valida? Se generalmente non si può escludere che in certe situazioni l’uccisione di un innocente sia lecita; se universalmente, si deve escludere assolutamente che possano darsi situazioni nelle quali sia lecita.

Quali sono le ragioni che sono portate dai sostenitori della validità esclusivamente generale delle proposizioni morali? La loro argomentazione si articola nel modo seguente.

Primo. Nel momento in cui enuncio una proposizione morale (per esempio: l’atto contraccettivo è illecito), compio un processo di isolamento dell’atto, connotato dal soggetto della proposizione, dalla persona che lo compie e dalla circostanza o contesto storico in cui è compiuto (per definire “atto contraccettivo” non ho bisogno di sapere né chi lo compie, né per qua le ragione lo compie, né in quale contesto lo compie). Si tratta di una definizione “ex obiecto”.

Ora, se è vero che questo processo di isolamento astrattivo non è necessariamente falsificante, è però altrettanto vero che esso è limitante, al punto tale che la realtà connotata dal soggetto della proposizione non esiste. Non esiste “l’atto contraccettivo”: esiste una persona che per particolari ragioni in determinate circostanze agisce, compiendo un atto contraccettivo.

Secondo. La proposizione morale non è (a) né universalmente valida; (b) né puramente soggettivamente valida; (c) è solo generalmente valida.
(a) Se si afferma la validità universale della proposizione morale o si attribuisce all’intelligenza creata un potere conoscitivo che è proprio solo di quella divina o si attribuisce alla proposizione morale un carattere meramente tautologico, svuotando le di ogni significato. Infatti, perché si possa escludere in assoluto che il contrario sia vero (“è assolutamente falso che l’atto contraccettivo possa essere lecito”) si deve avere una conoscenza completa di tutte le persone che sono ricorse, ricorreranno alla contraccezione, di tutte le ragioni per cui lo faranno e lo hanno fatto, di tutte le circostanze in cui hanno agito e agiranno: ovviamente solo la divina intelligenza può questo. Se, al contrario, si dice che non è necessaria una tale conoscenza per enunciare una proposizione morale, poiché si dà una connessione semplicemente necessaria fra soggetto e predicato, si cade nell’affermazione che le proposizioni morali sono mere tautologie. Infatti, prendiamo la proposizione “l’uccisione di un innocente è illecita” e analizziamola attentamente. È chiaro che il soggetto non connota puramente e semplicemente l’atto fisico dell’uccidere, ma questo atto è specificato dal suo termine “un innocente”. Ora, che cosa significa “innocente”? Significa, nel nostro contesto, uno che non hai il diritto di uccidere o — il che è lo stesso — uno che ha il diritto alla vita. Pertanto la proposizione significa: l’uccisione ingiusta è ingiusta. Una mera tautologia.
(b) Da ciò non si deve, tuttavia, concludere che la nostra conoscenza nel campo etico sia destinata al fallimento: conoscenza limitata, infatti, non significa conoscenza falsa.
(c) In che senso, allora, essa è valida? Nel senso che la proposizione morale esprime, in sintesi, ciò che generalmente è lecito/illecito. Essa, infatti, si fonda su una conoscenza di dati che finora offrono una sufficiente base per poter affermare la liceità/illiceità di un atto.

Terzo. Siamo ora in grado di definire rigorosamente il concetto di oggettività, secondo questa tesi.

Le proposizioni morali sono oggettive nel senso che esse esprimono una conoscenza approssimativa della verità sul bene e sul male, orientativa verso la verità sul bene e sul male.

Le proposizioni morali non sono oggettive nel senso che esse non esprimono ciò che ora, in questo contesto, per questa persona è certamente illecito: questa conoscenza compete esclusivamente alla coscienza morale del singolo. Il giudizio della coscienza è singolare, nel senso che non è né generalizzabile né universalizzabile; non è soggettivo, nel senso che non corrisponde alla realtà dell’atto concreto, dal punto di vista etico.

Ci può essere una contraddizione fra giudizio della coscienza e proposizione morale, senza che questa contraddizione comporti necessariamente errore nell’una o nell’altra, poiché la loro competenza noetica si pone a livelli diversi.

Poiché i sostenitori di questa parziale oggettività sono teologi cattolici, possiamo e dobbiamo dimostrare l’inconsistenza teoretica di questa tesi dal punto di vista teologico. In sintesi, la nostra argomentazione, ex analogia fidei, si riduce al seguente assioma: l’attribuzione di questo tipo di oggettività al giudizio morale esige, coerentemente, una reinterpretazione di alcune fondamentali verità di fede, il che non è conforme alla Tradizione cattolica. 

Dal punto di vista ecclesiologico. Se tale è l’oggettività dei giudizi morali, il Magistero della Chiesa non ha, in quanto tale, una competenza vera e propria nell’insegnare le norme morali.

Secondo la dottrina cattolica, esposta nella Lumen Gentium , ciò che specifica l’insegnamento del Magistero, diversificandolo da qualsiasi altro insegnamento, è la sua autenticità, che, teologicamente, significa che è un insegnamento dato “nomine et auctoritate Christi”. Il rapporto, pertanto, che il fedele deve avere nei confronti di questo insegnamento è di obbedienza della fede, la quale non è dovuta a nessun altro insegnamento. Obbedienza della fede che, ovviamente, conosce vari gradi di intensità, a seconda del grado con cui il Magistero impegna la sua autorità: sed magis vel minus non mutant speciem.

Ma, nell’ipotesi che i giudizi morali siano oggettivi nel senso che stiamo discutendo, il giudizio ultimo sulla verità/falsità di una norma morale compete e non può non competere esclusivamente che alla coscienza del singolo, per le ragioni già dette.

Quindi, è giustificata de jure la disobbedienza del fedele al Magistero, nel senso che il fedele de jure può sempre giudicare falso ciò che il Magistero insegna come vero.

Contro questa argomentazione, si può sussumere che essa dà per dimostrato ciò che precisamente si deve dimostrare e cioè che i giudizi morali hanno un’oggettività diversa da quella che stiamo discutendo. Ma, il fatto che un giudizio morale sia insegnato dal Magistero non muta la loro natura, e quindi il contrasto sopra ipotizzato non è vero, poiché competenza conoscitiva del Magistero e competenza conoscitiva della coscienza si collocano su due piani diversi.

È necessario, allora, a questo punto specificare ulteriormente la natura del Magistero morale della Chiesa. Come il Concilio Vaticano II ha richiamato continuamente, il Magistero morale della Chiesa è uno dei momenti essenziali del servizio pastorale apostolico. Esso è chiamato ad indicare la via che conduce l’uomo alla vita. La Verità, infatti, che esso deve santamente custodire e fedelmente esporre, è la Verità che non solo deve essere creduta nella fede, ma anche realizzata nella vita.

Ma se i giudizi morali avessero solo una validità generale, il Magistero non potrebbe svolgere veramente il suo ministero salvifico. Infatti, i giudizi morali da esso insegnati in realtà non guiderebbero il credente: lo lascerebbero assolutamente solo nel momento decisivo della sua esistenza.

Dal punto di vista cristologico. La riflessione precedente mostra tutta la sua forza, se ne cogliamo il suo fondamento cristologico.

Il Verbo, facendosi carne, ha vissuto interamente la nostra vicenda umana, “dandoci l’esempio perché ne seguiamo le orme” e la forza per farlo: ci ha mostrato la santità dell’esistenza umana. Quella santità in vista della quale ciascuno di noi è stato creato.

Ma, se si dice che i giudizi morali insegnati dalla Chiesa hanno solo una validità generale, si deve anche coerentemente affermare che la mediazione ecclesiale — la sacramentalità della Chiesa — è esclusa dall’evento della salvezza della persona, la quale precisamente si realizza essenzialmente nella santità della vita. Per cui, supposta la validità generale dei giudizi morali, delle due l’una: o la salvezza operata da Cristo non ha nulla a che vedere coll’agire intra-mondano dell’uomo (cioè: non esiste un’etica specificamente cristiana) e così viene evacuata la croce di Cristo: o la salvezza ha a che fare coll’agire intra-mondano dell’uomo, ma la Chiesa non ha un ruolo meditativo rilevante e così viene evacuato il mistero della Chiesa.

Dal punto di vista teologico. Questa tesi della validità generale dei giudizi morali implica un concetto sbagliato di Provvidenza ed in ultima analisi di Dio.

 

3. L’oggettività - soggettività dialetticamente superata 

 

Questa posizione è la più difficile da comprendere e pertanto è necessario procedere molto lentamente.

Le due posizioni precedenti hanno un comune concetto di “oggettività”; essa connota una proprietà del nostro conoscere, in forza della quale esso si adegua alla realtà. Conoscere è essenzialmente diverso da “provare un’emozione, avere il mal di testa” e simili. Questi sono stati del soggetto, sue condizioni o modi di essere: nulla più. Conoscere è certamente un atto del soggetto, ma è un atto — dicono i filosofi — dotato di intenzionalità. Vale a dire muove, per così dire il soggetto verso l’altro da sé, nel senso che rende presente l’altro nel e al soggetto, senza trasformarlo nel soggetto stesso. Si dà una dualità: soggetto conoscente e oggetto conosciuto. L’oggettività connota questo rapporto di adeguazione.

Questo accenno, anche nella sua imprecisione, è sufficiente per poter iniziare la nostra riflessione.

La posizione che stiamo per esporre parte, precisamente, dal superamento di questo concetto di “oggettività”, nel modo che espongo subito.

Per non rendere troppo complessa la mia esposizione, la svolgerò esclusivamente in riferimento all’uomo. Ogni dottrina etica presuppone sempre, anzi si fonda su una visione dell’uomo. La prima e fondamentale domanda etica è: che cosa è l’uomo? Dalla risposta a questa domanda dipende tutta l’etica. È noto che la risposta che l’uomo ha dato non è stata la stessa: donde le diverse dottrine etiche, i diversi codici morali.

Se, tuttavia, qualcuno vuole sapere non semplicemente come X o Y hanno risposto, ma se la risposta di X o Y è vera o falsa, chi parte dal concetto sopra esposto di oggettività, verifica le due risposte confrontandole, commisurandole colla realtà umana.

È da questo preciso momento che questa terza posizione comincia a divergere radicalmente. Fra l’essere-uomo (“chi è l’uomo?”) e ciò che l’uomo pensa dell’uomo (=la coscienza che ha di sé) non esiste una distinzione reale: l’uomo è la sua auto-coscienza. Questa è l’affermazione centrale di questa terza posizione.

Per capirne l’enorme portata, dobbiamo ora vederne le principali implicazioni antropologiche ed etiche.

La prima. L’essere-uomo è intrinsecamente storico e parlare di una realtà o natura umana immutabile non ha alcun senso. O meglio ne ha uno solo: la natura umana è quella di essere in continuo di venire, dal momento che si identifica colla sua auto-coscienza.

L’implicazione etica corrispondente a questa implicazione antropologica, è pertanto, la seguente: l’unica norma morale permanente è puramente formale (o meglio:“trascendentale”), come “devi essere giusto, devi essere pio...” cioè: devi essere umano. Ma il contenuto di questa norma non può essere “fissato” semper et pro semper : che cosa significa essere umano? Questo è determinato dalla coscienza che l’uomo ha di sé.

La seconda. L’auto-coscienza umana è, in un certo senso, creativa. Per comprendere questa implicazione, molto importante, possiamo partire dall’esempio dell’opera d’arte. L’ispirazione artistica è creativa, nel senso che — caso, per esempio, della scultura — essa modella una materia informe, facendola divenire questa statua e non un’altra. E l’opera d’arte è riuscita nella misura in cui si adegua all’ispirazione e non viceversa. Analogamente: la natura umana prende forma — diviene ciò che è — nella e mediante l’auto-coscienza del soggetto.

L’implicazione etica corrispondente a questa implicazione antropologica è la seguente: i giudizi morali esprimono la coscienza che l’uomo ha di sé e non altro; essi sono “creazione della auto-coscienza umana”.

L’implicazione etica corrispondente: il compito dell’etica — intesa come disciplina scientifica — non è quello di sapere una verità sul bene e sul male che sia metastorica, ma di interpretare l’auto-coscienza dell’uomo nella sua storia, in ordine all’elaborazione delle corrispondenti, correlative norme di comportamento. L’etica è l’ermeneutica dell’auto-coscienza umana quale è venuta esprimendosi nel passato e tende ad esprimersi oggi in norme di comportamento.

Se ora rivolgiamo a chi tiene questa posizione la seguente domanda: i giudizi morali sono oggettivi? La risposta è la seguente: distinguo. Se per oggettività si intende che i giudizi morali fanno conoscere una realtà altra dal conoscere stesso, sono una norma morale fondata su una natura della persona umana, indipendente nella sua consistenza onto-assiologica dell’auto-coscienza, non sono oggettivi. Se per oggettività si intende che i giudizi morali esprimono l’auto-coscienza dell’uomo, la quale è identicamente la sua realtà ontologica, sono oggettivi. La soggettività è l’oggettività e l’oggettività è la soggettività.

Passando ora ad una riflessione critica, non esito a dire che questa posizione è la completa distruzione dell’etica: non ha più senso alcuno parlare di bene/male morale. La critica più radicale e, credo, teoreticamente, irrefutabile è stata costruita da S. Kierkegaard (La malattia morale e Postilla conclusiva alle Briciole di Filosofia).

Questa posizione, se vissuta e non solo pensata o insegnata, porta alla disperazione, intesa non come stato psicologico, ma nel senso filosofico e teologico del termine: fa ammalare mortalmente lo spirito.

Lo sviluppo dell’auto-coscienza umana è governata da leggi intrinseche che interiormente lo necessitano oppure esso è esclusivamente dominato dalla pura possibilità di tutte le possibilità? È, cioè, uno sviluppo necessario o possibile? Nel primo caso, la libertà della persona sarebbe chiamata ad inserirsi dentro un’impersonale totalità — quella dello sviluppo storico — che farebbe della propria singolarità un momento, che in se stesso considerato, è privo di assoluto. Nella seconda ipotesi, la persona non avrebbe nessuna ragione ultima per fare questo o il contrario di questo: la vita sarebbe totalmente allo sbando; tutto e il contrario di tutto avrebbe lo stesso senso e valore.

Ma dal punto di vista cristiano, ciascuno di noi — singolarmente preso — ha un valore assoluto: è più che il tutto della storia e dell’universo. La nostra libera scelta si colloca in una relazione con Dio e ciascuno di noi sarà giudicato in base ad essa: non tutto e il contrario di tutto ha lo stesso valore davanti a Dio. È l’atto della mia libertà che è giudicato dal Signore. Non l’apporto che esso darà o non alla storia. E sarà giudicato non in ragione del momento occupato nello sviluppo della autocoscienza umana.

La disperazione, la malattia mortale che colpisce lo spirito, consiste precisamente in questo: l’uomo è spossessato, privato precisamente di ciò che lo fa essere spirito, cioè la sua decisione libera.

Dal punto di vista semplicemente razionale, quando ciascuno di noi vive l’esperienza etica, non è affatto rimandato a un futuro storico, che integra il nostro momento presente e lo giustifica. Ora - qui: ciascuno di noi è chiamato a decidere di se stesso.

 

4. La vera oggettività dei giudizi morali

 

Affrontando ora personalmente il problema dell’oggettività dei giudizi morali, si deve subito precisare che certamente nell’elaborazione dei giudizi morali, più che altrove, non si tratta solo di un’attività esclusivamente razionale: molti fattori spirituali e psicologici vi influiscono. È altrettanto chiaro che la conquista della verità sul bene e sul male è difficile e progressiva (o involutiva).

Il problema, pertanto, è il seguente: la persona umana, mediante i suoi giudizi morali, può conoscere quali azioni umane sono sempre e comunque illecite / quali azioni umane sono sempre lecite, indipendentemente da qualsiasi contesto storico, dipendentemente dalla stessa natura della persona umana? Oggettività, dunque, dei giudizi morali, è quella proprietà dei medesimi, in forza della quale la persona conosce mediante essi l’essere dell’atto umano dal punto di vista etico (= l’atto x è — e non: penso che l’atto x sia — sempre e comunque — e non generalmente — illecito).

La soluzione può essere cercata e teologicamente e filosoficamente. Poiché non è possibile percorrere ambedue le strade, mi limiterò esclusivamente alla riflessione teologica.Cercheremo cioè la soluzione alla luce della Rivelazione, che giunge a noi attraverso la Scrittura - Tradizione - Magistero.

L’esistenza dei giudizi morali oggettivi nel senso predetto è stata recentemente affermata varie volte dal Magistero Pontificio. Mi limito per brevità a due sole citazioni.

(1) Discorso al partecipanti al I Congresso di Teologia morale (10/4/1986), in Persona, verità e morale - Atti del Congresso internazionale di Teologia morale, Ed. Città Nuova, Roma 1987, p. 8: «Ridurre la qualità morale delle nostre azioni, relative alle creature, all’intento di migliorare la realtà nei suoi contenuti non etici equivale, alla fine, a distruggere lo stesso concetto di moralità. La prima conseguenza, infatti, di questa riduzione è la negazione che, nell’ambito di quelle attività, esistano atti che siano sempre e comunque in se stessi e per se stessi illeciti. Ho già richiamato l’attenzione su questo punto nell’Esortazione Apostolica Reconciliatio et Poenitentia (cfr n. 17). Tutta la tradizione della Chiesa ha vissuto e vissuto e vive basando si sulla convinzione contraria a questa negazione».

(2) Discorso ai partecipanti al II Congresso di Teologia morale (12/XI/1988) in L’Osservatore Romano, 13 Novembre 1988: «L’esistenza di norme particolari in ordine all’agire intra-mondano dell’uomo, dotate di una tale forza obbligante da escludere sempre e comunque la possibilità di eccezioni, è un insegnamento costante della Tradizione e del Magistero della Chiesa che non può essere messo in discussione dal teologo cattolico».

Quali sono i fondamenti teologici di queste affermazioni? È ciò che ora dobbiamo vedere.

A me sembra che una delle affermazioni centrali nella Rivelazione sia l’affermazione dell’importanza decisiva che hanno le nostre libere decisioni, in ordine alla nostra salvezza eterna: l’affermazione, cioè, che ciascuna singola persona è chiamata, mediante l’atto della sua libertà a decidere di sé in ordine alla sua eternità. Questo rapporto dell’uomo coll’eternità è un rapporto del singolo; è un rapporto che è costituito non dalla qualità dell’intelligenza, non dalla costituzione fisica o psicologica, ma esclusivamente dalla libera decisione della volontà. L’atto libero, in quanto atto che ordina la persona al suo fine ultimo, è il vertice della vita spirituale.

Strettamente connessa con questa affermazione, è l’affermazione che l’uomo è giudicato dal Signore non su altro che sulla qualità delle sue scelte libere: qualità che viene indicata con “giustizia - ingiustizia”, “bontà - malizia”, o simili. La qualificazione è, cioè, esclusivamente etica. Il bene del corpo è la salute; il bene dell’intelligenza è la conoscenza della verità; esiste anche il bene della volontà nell’esercizio della sua libertà ed è il bene morale. 

Ora, questa bontà morale — la qualità propria della scelta e decisione libera, o meglio, della persona in quanto soggetto che agisce — consiste, essenzialmente, secondo la Rivelazione, nella conformità o obbedienza alla Legge di Dio: esercitare la propria libertà contro la Legge di Dio significa perdere sé stessi eternamente. Da ciò deriva il fatto della rivelazione che Dio fa della sua Legge all’uomo: rivelazione naturale e soprannaturale.

Nessuna di questa triplice serie di affermazioni è negata sia da chi sostiene la seconda posizione sia da chi sostiene la terza. E, in realtà, il problema comincia precisamente a questo punto. La “materia del contendere” è costituita dal modo con cui si intende questa rivelazione che Dio fa all’uomo della sua Legge. Dobbiamo procedere molto lentamente.

 

A/ La Rivelazione che Dio fa della sua Legge giunge fino a insegnare che esistono atti sempre e comunque illeciti (ex obiecto), oppure essa si limita ad indicazioni o norme generali? Fino a venti anni fa circa, nella Chiesa cattolica non si era mai dubitato sulla verità della prima ipotesi. Quali sono le ragioni di questa certezza? Mi limito ad esporne una sola, per brevità.

La negazione dell’esistenza di giudizi morali oggettivi, nel senso di universalmente veri, porta coerentemente alla negazione dell’esistenza di una natura immutabile della persona umana.

Ma questa seconda negazione porta coerentemente alla negazione della verità della Creazione come è intesa nella fede della Chiesa.

Primo: dalla negazione dell’oggettività dei giudizi morali alla negazione dell’esistenza di una natura della persona umana. Come ogni giudizio, anche il giudizio morale esige un criterio: in ragione di che cosa diciamo che l’azione x è buona o cattiva? in riferimento a che cosa? delle due l’una: o in ragione delle conseguenze dell’azione x o in ragione della stessa costituzione intrinseca dell’azione x.

Se affermiamo il primo criterio — il criterio consequenzialista — in realtà non risolviamo il problema, ma solo lo rimandiamo. Infatti, in base a quale criterio si dice che la conseguenza x1 è buona (e pertanto x è buona?) in ragione del fatto che X1 causa la conseguenza X2 ? si istituisce un procedere all’infinito che, come si sa, non conduce ad alcuna conclusione razionale. Il criterio consequenzialista viene, infatti, accompagnato e congiunto dal criterio proporzionalista: x è buona, perché la sua conseguenza X1 consiste in un accrescimento di beni e in una diminuzione di mali maggiori che non ponendo l’azione contraria. In realtà, questo criterio proporzionalista non sfugge alla stessa critica. Infatti, questi beni che si accrescono e mali che si diminuiscono sono o beni morali o beni pre-morali. Se beni morali, in base a quale criterio si afferma la loro bontà morale? e si ricade nello stesso procedere all’infinito. Se beni pre-morali, si esce certo dalla “petitio principii” ma si afferma con ciò stesso che la rettitudine intrinseca della scelta/decisione libera dipende da qualcosa d’altro che dalla scelta/decisione libera stessa: il che coincide coll’evacuazione dell’etica stessa.

Si deve dunque dire: in ragione della costituzione intrinseca dell’atto stesso per cui, se (moralmente negativo) è fatto oggetto della scelta/decisione libera, la persona si realizza in una “forma” contraria alla Legge di Dio.

Ma cosa significa “in ragione della costituzione dell’atto stesso”? significa, semplicemente e profondamente, che fra la persona sul punto di scegliere/decidere e l’azione x possibile oggetto della sua scelta/decisione, esiste una contraddizione. Contraddizione nel senso che l’azione x non realizza la persona, non la fa essere secondo la sua natura di persona umana.

Secondo: dalla negazione della natura della persona alla negazione della verità della Creazione.

La negazione della natura della persona umana, come referente della moralità degli atti umani, comporta logicamente l’affermazione che l’uomo non si riceve dalle mani di Dio, che il nostro actus essendi non è il termine di un dono di Dio, ma è qualcosa che ci appartiene in proprio e di cui la nostra libertà è il costitutivo ultimo. Ultimo, nel senso che essa non ha un referente ulteriore, ma è in sé stessa e a sé stessa referente ultimamente decisivo. Ultimo, cioè, che non esiste l’essere e la verità prima dell’atto libero. È ovvio che questa visione dell’uomo è la negazione pura e semplice dell’atto creativo di Dio.

Ma — si dirà — per il consequenzialista e proporzionalista esiste un referente ulteriore all’atto libero: la massimalizzazione dei beni premorali    la minimalizzazione dei mali premorali.

Questa“scappatoia” è ancora più grave: essa fa dipendere la salvezza della persona da qualcosa che non dipende dalla persona stessa. Il che coincide coll’affermazione che Dio non ha creato la persona per sé stessa.

 

B/ Sulla base della verità della creazione, da cui consegue che l’uomo — come ogni creatura — ha, come direbbe Agostino, un suo modus - species - bonum, la fede della Chiesa ha sempre insegnato che l’uomo può conoscere — o mediante la sua ragione semplicemente o illuminata dalla Rivelazione — la verità oggettiva sul bene e sul male. Che esistono cioè giudizi morali oggettivi.

Non ci è possibile, per ragioni di tempo, mostrare la base cristologica di questa convinzione, né mostrare come tutti i grandi maestri del pensiero cristiano hanno pensato in questo modo.

Un corollario assai importante. Se questa è la base dell’oggettività dei giudizi morali, l’introduzione nella coscienza dei fedeli della negazione di quell’oggettività, a breve o lungo termine, avrà come effetto l’oscurarsi della verità della Creazione. Ora questa verità è il fondamento di tutta la vita cristiana: “hoc est primum quod debent (fideles) credere, scilicet quod sit unus Deus” (San Tommaso, in Symbolum Apostolorum expositio, art. 1).

 

Conclusione

 

Questo corollario appena esposto ci ha già introdotto nella riflessione finale.

Le tre tesi esposte non sono rimaste scritte solo sui libri: sono diventate possesso comune di molti fedeli nella Chiesa. La coscienza dell’opinabilità dei giudizi morali, la certezza che essi ammettano sempre eccezioni, l’idea che i giudizi morali sono semplicemente figli della cultura, sono fatti che tutti noi possiamo constatare quotidianamente. E la pura ed inevitabile conseguenza è il rifiuto del Magistero morale della Chiesa come istanza cui si deve l’obbedienza della fede. Esso è spesso considerato come una opinione fra le altre.

La situazione, dunque, interpella non in primo luogo i teologi, ma i Pastori della Chiesa: coloro cui è affidata, per mandato di Cristo, la guida della comunità cristiana.

Certo, una così grave epidemia spirituale non potrà mai essere superata nello spazio di un giorno. Ma non diventiamo noi stessi consequenzialisti: a noi il Signore non chiede di far trionfare la giustizia, ma di agire con giustizia; non chiede di far trionfare la verità, ma di dire/testimoniare sempre la verità.

Il resto appartiene all’insondabile mistero — mistero di giustizia e di misericordia — della Provvidenza divina: non si è trovato nessuno in cielo, in terra e sotto terra che fosse in grado di aprire il libro chiuso con sette sigilli, all’infuori dell’Agnello crocifisso e trafitto.