Lezione Magistrale " IL LAVORO COME OPERA"
Istituto "Veritatis Splendor"
12 febbraio 2005
È necessario che esponga subito, a modo di premessa generale, la prospettiva della mia riflessione. Necessario per me perché non accada che … un calzolaio non si limiti a parlare solo di scarpe; necessario per voi perché non rimaniate delusi in vostre eventuali aspettative.
La mia – comincio un po’ alla larga – è una prospettiva esclusivamente antropologica. In un duplice senso.
Sono sempre più convinto che le varie controversie che oggi travagliano la coscienza occidentale nascono dalla radicale domanda sull’uomo: dalla domanda sulla verità circa l’uomo. La mia riflessione dunque vuole porsi dentro alla questione antropologica.
Volendo stringere più da vicino la "materia antropologica del contendere", penso che la vera posta in gioco oggi sia la categoria di persona: la questione antropologica verte sul "principio-persona". Come è noto, questa categoria venne elaborata dal pensiero cristiano per avere una comprensione vera e giusta dei due misteri principali della nostra fede,
il mistero trinitario ed il mistero cristologico. Oggi essa è la chiave di volta della controversia contemporanea circa il mistero dell’uomo.
Mentre la controversia antica era una controversia fra cristiani, la controversia attuale è una controversia fra uomini alla quale i cristiani hanno particolari titoli per parteciparvi, essendo coloro che dell’humanum hanno una bimillenaria esperienza.
La mia riflessione quindi intende porsi dentro alla questione antropologica in quanto questione circa la categoria di persona come chiave di volta della nostra visione dell’uomo.
Quale è la porta attraverso la quale questa mattina intendo entrare in questa controversia? Il lavoro. L’ipotesi in sostanza che intendo verificare è che la riflessione sul lavoro è una delle strade più adeguate per entrare nella verità dell’humanum, nella sua più profonda ricchezza ed autenticità.
Vorrei mostrare che, positivamente, il rapporto persona-lavoro è tale che in esso la persona prima e più che produrre dei beni, dice e realizza se stessa; negativamente, vorrei mostrare che quando il rapporto della persona col suo lavoro non si realizza nel modo dovuto, il lavoro è uno dei luoghi in cui più profondamente la persona perde se stessa.
Ho interpretato così la formulazione del tema "il lavoro come opera": il lavoro come atto della persona.
L’esposizione del mio pensiero percorrerà come due cammini che sono come le due semi-circonferenze del medesimo circolo teoretico: dalla persona al lavoro; dal lavoro alla persona.
1. Come intendere il "principio-persona" sulla base del lavoro
La riflessione classica sull’agire umano, da Aristotele a Tommaso d’Aquino, distingueva due forme di attività umana: l’azione "transitiva" e l’azione "immanente" [Per Aristotile cfr. Met. Θ, 8 1050a.23; EN.Z 1140a.1; per Tommaso cfr. per es. Qq. Dd. de Veritate q.8,a.6; q.14, a.3; C. Gentes II, cap. 1; cap. 23; III, cap. 22; 1,q.18, a.3, ad 1um; q.54, a.2; 1,2, q.74, a.1; Qq. Dd. de Potentia q.3, a.15].
La prima connota un agire umano che ha un effetto, che produce qualcosa al di fuori di chi agisce; la seconda connota un agire umano che ha il suo termine ultimo nel soggetto stesso che agisce. Potremmo anche dire: il primo cambia la realtà in cui l’agente vive; il secondo cambia l’agente stesso.
Considerando però le cose con più attenta profondità, ci rendiamo conto che nell’uomo non esiste un’attività talmente "transitiva" da non essere anche sempre "immanente". Quando l’uomo compie qualsiasi opera, in qualche modo realizza se stesso e diventa se stesso; non trasforma solo l’oggetto del suo operare, ma anche se stesso.
Questo inizio della mia riflessione, un inizio così ovvio da provarne quasi vergogna, ci introduce però nella comprensione di una verità antropologica assai importante, una verità che enuncerei nel modo seguente: priorità della persona nei confronti del suo agire. Partendo cioè da una considerazione ancora superficiale dell’agire umano inteso in tutta la sua estensione, il "principio-persona" deve essere compreso come l’affermazione della priorità dell’uomo nei confronti della sua azione, nei confronti del suo lavoro. Vediamo dunque di precisare il significato di questa priorità. Esso è duplice: significa due affermazioni circa la persona.
Il primo significato è di carattere ontologico, riguarda cioè la priorità dell’essere della persona nei confronti del suo operare: operari sequitur esse, dicevano gli scolastici [l’operare segue all’essere]. È la persona a decidere circa il suo operare. Esiste cioè un "nucleo intangibile", l’io della persona, la sua interiorità sostanziale, che non è il risultato casuale o necessario di forze impersonali che la precedano e la costituiscono. L’autogenerazione mediante l’agire è frutto della libertà della persona. È frutto dell’auto-determinazione della persona. "Il termine auto-determinazione significa che l’uomo, in quanto soggetto della sua azione, non solo la determina come agente (o come "causa efficiente"), ma che attraverso questo atto egli determina contemporaneamente anche se stesso" [K. Woitila, Metafisica della persona, ed. Bompiani, Milano 2004, pag. 1440].
Vorrei ora dire la stessa cosa, esplicitare il primo significato in un modo negativo. E lo faccio partendo da un testo di Aristotile il cui significato oserei dire profetico non era sfuggito neppure a K. Marx (cfr. Il Capitale I, cap. 13,3): "Se ogni strumento riuscisse a compiere la sua funzione o dietro un comando o prevedendolo in anticipo (e) … così anche le spole tessessero da sé e i plettri toccassero la cetra, i capi artigiani non avrebbero davvero bisogno di subordinati, né i padroni di schiavi" [Politica, A 4 1253 b 33 – 1254 a 1].
Quando l’agire non è più sperimentato da chi lo compie come propria auto-determinazione e quindi propria auto-realizzazione, esso cessa di essere opera della persona: cessa di essere semplicemente umano. Quando il lavoro non è più realizzazione della propria persona se non in maniera indiretta, mediante cioè il salario che se ne percepisce, in quanto non è più espressivo della persona, perché essa non comprende più il senso di ciò che sta facendo, è inevitabile che il lavoro sia sperimentato come una schiavitù. L’agire diventa sempre più transitivo e sempre meno immanente, la persona perde il suo primato e viene come svuotata di se stessa. È un processo di degradazione dalla sua priorità ontologica, che la conduce alla schiavitù. Che cosa è la schiavitù se non la condizione in cui la persona come tale non conta più, e che quindi può essere scambiata con una macchina quando è più vantaggioso farlo?
Abbiamo spiegato il primo significato della priorità della persona nei confronti della sua opera. Vediamo ora quale è il secondo significato di questa medesima priorità. Esso tiene maggiormente in considerazione l’aspetto "transitivo" del lavoro, dell’operare umano.
È ovvio che mediante il suo lavoro l’uomo trasforma il mondo in cui vive. Non intendiamo la parola "mondo" solo nel senso materiale, come "natura" manipolabile dal lavoro dell’uomo. Intendiamola anche e soprattutto come "ambiente" in cui l’uomo vive, come "dimora" che egli costruisce col suo lavoro, colla sua opera. Il modo con cui l’uomo si pone dentro alla realtà, si colloca nell’universo dell’essere, e quindi si costruisce in esso la propria dimora, si chiama "cultura". Si istituisce quindi un rapporto molto profondo fra il lavoro come opera della persona e la cultura di un popolo.
Considerando, intendendo la dimensione transitiva del lavoro in questo modo, scopriamo una verità più profonda circa l’affermazione del "principio-persona" nel mondo del lavoro. Vorrei ora riflettere un poco su questo punto.
Nella società umana possiamo distinguere due elementi costitutivi, due tipi di causalità.
Il primo elemento o tipo di causalità è materiale: gli uomini si associano per la loro utilità; si associano perché vi sono spinti dal bisogno. Nessun uomo basta da solo a se stesso. È il modo umano con cui si realizza qualcosa che accade anche nel mondo animale. Anche gli animali si associano spinti dal bisogno; la modalità umana consiste nel fatto che si persegue un’utilità consapevolmente e liberamente. La spinta della natura viene assunta dentro un consapevole, libero e programmato movimento verso scopi precisi e condivisi. Questa condivisione di fini e di mezzi crea già un’unità fra le persone, una unità spirituale, ma essa non è che la proiezione nello spirito di un istinto materiale. Ma questa non è la sola causalità che spiega la società umana.
Il secondo elemento o tipo di causalità è spirituale: gli uomini si associano perché "quanto è buono e quanto è soave che i fratelli vivano insieme", come dice un Salmo [133 (132), 1]. Se il sociale umano non può prescindere dal primo elemento, è però l’elemento spirituale che lo costituisce nel senso più profondo del termine, che fa sì che la società sia veramente umana. La persona deve il suo essere persona al suo essere spirito, e l’unità dei soggetti spirituali si costituisce mediante la comunione nella verità e nel bene, nell’amore. Solo questa unità … unifica senza distruggere il molteplice, poiché – come scrive profondamente S. Tommaso – l’unità non si oppone alla molteplicità ma alla divisione.
Questa duplice causalità "produttiva" della società umana si riflette pienamente nell’agire, nell’operare della persona umana.
In ogni azione, in ogni opera umana noi possiamo distinguere ciò che essa significa e ciò che essa produce. Ci sono attività la cui unica ragione per cui sono fatte, è la comunicazione di un senso. Penso, per esempio, all’opera d’arte. Essa è materialmente un prodotto, il risultato di un lavoro umano. Ma il suo valore consiste esclusivamente in ciò che significa, in ciò che comunica. Essa si pone nella comunione interpersonale.
Ci sono invece attività nelle quali ciò che è prodotto è la loro principale ragione d’essere, quando non l’esclusiva. Sono i beni di consumo. È un’attività che si pone nel contesto di quella che ho chiamato la "causalità materiale" della società umana. Essa si pone nel contesto della comunicazione ratione utilitatis.
Ora siamo in possesso di tutti gli elementi per cogliere il secondo significato del "principio-persona" in rapporto al lavoro. Esso può essere enunciato nel modo seguente: "principio-persona" significa che tutto quanto è prodotto dal "principio materiale" deve essere inserito nel, e subordinato al "principio spirituale". Vorrei ora riflettere brevemente su questo significato.
Esso non nega il valore delle categorie-cardine del sistema economico, produzione e consumo, ma le contestualizza in una visione antropologica che impedisca, teoreticamente e praticamente, di fare perfino della persona umana un mero elemento del sistema "produzione-consumo". Che impedisca una visione "produttivistica-consumistica" dell’uomo.
Più profondamente. Il movimento attraverso il quale la persona mediante la sua opera si esteriorizza [dimensione transitiva dell’operare] esige il movimento inverso mediante il quale la persona è se stessa, non perde se stessa nel suo operare. La superiorità della persona [altra formulazione del "principio-persona"] "si identifica con il riconoscimento di ciò che è intransitivo nell’operare dell’uomo, che condiziona il suo proprio valore e nello stesso tempo costituisce la "qualità" umana del suo valore. L’"intransitivo" è quindi più importante di ciò che è "transitivo", che si obiettivizza in qualche prodotto e che serve alla trasformazione del mondo, oppure al suo sfruttamento!" [K. Woitila, Metafisica della persona, cit., pag. 1452].
Il Concilio Vaticano II aveva già posto il problema nei suoi termini essenziali quando constatava: "si moltiplicano i rapporti dell’uomo con i suoi simili e a sua volta questa "socializzazione" crea nuovi rapporti, senza tuttavia favorire sempre una corrispondente maturazione della persona e rapporti veramente personali ("personalizzazione")" [Cost. past. Gaudium et spes 6,5; EV 1/1336]. Il processo di "socializzazione", stimolato da ciò che ho chiamato la causalità materiale della società umana [industrializzazione, produzione, consumo], è chiamato ad inscriversi in un corrispondente processo di "personalizzazione". Se al primo non corrisponde il secondo, il lavoro cessa di essere opera della persona. Né vale appellarsi al fatto incontestabile che in ogni caso l’umanità ora si trova in possesso di una quantità di beni mai prima avuta. A parte il fatto che non si deve ignorare il problema di un’equa distribuzione della medesima, non si deve confondere ciò che è condizione perché la vita umana possa essere umana con ciò che decide che la vita umana sia veramente umana.
Ancora una volta il Concilio Vaticano II aveva individuato chiaramente il problema quando aveva scritto: "L’uomo vale più per quello che è che per quello che ha … Pertanto questa è la norma dell’attività umana: che secondo il disegno di Dio e la sua volontà essa corrisponda al vero bene dell’umanità, e permetta all’uomo singolo o posto entro la società di coltivare e di attuare la sua integrale vocazione" [ibid. 35; EV 1/1428-1429].
Il testo conciliare introduce il tema della cultura [integrae vocationis cultum]; essa è un concetto sintetico. Attraverso il lavoro inteso come opera della persona si costruisce una vera cultura poiché la persona umana può coltivare e realizzare [impletio, dice il Concilio] la sua umanità.
Si pone nella realtà in modo adeguato alla sua dignità: questa è la cultura. Quando ciò accade, il lavoro è veramente opera della persona.
Quando ciò non accade, l’uomo mette seriamente in pericolo se stesso proprio mediante ciò che lo esprime, il suo lavoro. L’ipnosi dell’avere lo anestetizza dalla tragica sofferenza della perdita dell’essere: questo è ciò che oggi non raramente accade. Come svegliare l’uomo da questa ipnosi? È questa una domanda essenziale perché l’uomo possa rientrare dall’esilio; dall’esilio di se stesso. Una via fondamentale di ritorno è il suo lavoro; o comunque questo ritorno non può accadere a prescindere dal lavoro. Ma con questo sono già entrato nella seconda parte della mia riflessione.
2. Come intendere il lavoro sulla base del "principio-persona"
Nella seconda parte della mia riflessione vorrei in un certo senso fare il percorso inverso a quello compiuto nella prima. Non più intendere il "principio-persona" sulla base del lavoro, ma piuttosto intendere il lavoro sulla base del "principio-persona". Non più entrare nella comprensione della persona attraverso il lavoro, ma entrare nella comprensione del lavoro attraverso la persona. In concreto: quali conseguenze ha nel "mondo del lavoro" il "principio-persona" di cui abbiamo esplicitato i due significati fondamentali? Cercherò di rispondere a questa domanda.
Lo farò non andando alla ricerca di una risposta completa, di cui non sarei capace. Mi limiterò ad alcune considerazioni, possibili corollari di ciò che ho detto prima. Gli interventi infatti che seguiranno, si costruiranno in questa prospettiva, e con ben altra competenza che la mia.
Il primo corollario, il più importante credo, è che la preparazione della persona al lavoro non è in primo luogo né principalmente in ordine al "sapere fare", ma al "saper essere". L’educazione integrale della persona è la prima conseguenza di tutto ciò che ho detto.
Non voglio ora riesporre la visione cristiana dell’educazione. La considero nota. Il "principio-persona", come ho detto nella prima parte della mia riflessione, significa in primo luogo il primato della persona nei confronti del suo agire, la sua non totale riducibilità alla sua opera.
Perché la persona custodisca intatto questo primato, essa deve essere immunizzata da due insidie. L’insidia che viene da un’esperienza del lavoro individualisticamente inteso come puro scambio di beni in vista del proprio interesse; e l’insidia che viene da un’esperienza del proprio lavoro strutturalmente inteso come un semplice ingranaggio all’interno di una struttura dotata di una sua propria autonomia. Come si esce vittoriosi da questa duplice insidia? La mia risposta è: attraverso una vera educazione della persona alla libertà.
Mi spiego partendo da una tesi centrale nel pensiero filosofico di Giovanni Paolo II, che condivido pienamente. La tesi è la seguente. Il dinamismo proprio della scelta libera non consiste solamente nel muoversi o dirigersi verso quel bene/valore che motiva la scelta stessa. Esso consiste anche e principalmente nella decisione di determinare o configurare se stesso mediante la scelta che sto compiendo. La scelta della povertà che Francesco ha compiuto è consistita principalmente nella decisione di con-formare se stesso a Cristo: nella scelta della povertà è implicata un’auto-determinazione. Una decisione circa il proprio modo di essere.
L’esempio da me scelto non è casuale. A prima vista infatti questo modo di pensare l’esercizio della libertà potrebbe farci pensare ad una visione "solipsistica" della persona: il proprio io è fine e confine del proprio operare. In realtà non è così: "l’uomo non è il confine dell’autodeterminazione, delle proprie scelte e dei propri atti di volontà, indipendentemente da tutti i valori verso i quali quelle scelte e quegli atti della volontà si rivolgono" [K. Woitila, Metafisica… cit. pag. 1413]. L’uomo non si chiude in se stesso, ma proprio autodeterminandosi entra in un contatto vivo con l’intera realtà. Nello stesso tempo questo contatto vivo ha luogo – deve avere luogo – all’interno della persona; all’interno della sua scelta libera nella quale il contatto colla realtà prende inizio, sulla quale si fonda, alla quale conferisce forma.
Questo modo di operare genera una vera partecipazione nella stessa umanità, un vera comunità umana, inattaccabile dal rischio della alienazione presente sia nelle società neo-liberiste sia nelle società neo-stataliste.
Ora persone capaci di essere ed agire liberamente possono essere generate solo da una prassi educativa che intenda l’educazione come introduzione alla realtà, e non come istruzione a "sapere fare". "Non c’è, infatti, alcun dubbio che il lavoro umano abbia un suo valore etico, il quale senza mezzi termini e direttamente rimane legato al fatto che colui che lo compie è una persona, un soggetto consapevole e libero, cioè un soggetto che decide di se stesso" [Giovanni Paolo II, Lett. Enc. Laborem exercens 6,3; EE 8/229]. Questa verità nel magistero della Chiesa viene indicato come "lo stesso fondamentale e perenne midollo della dottrina cristiana del lavoro umano" [ibid.]. E questo "midollo" dice per sua natura ordine alla necessità di una teoria e prassi educative che precisamente siano capaci di generare una persona, cioè "un soggetto consapevole e libero", "un soggetto che decide di se stesso".
Vorrei ora richiamare la vostra attenzione su un altro fatto oggi bisognoso di urgente attenzione, che possiamo e dobbiamo considerare sulla base del "principio-persona": il fatto della immigrazione per lavoro. Mi limito ad alcune osservazioni, e così concludo.
Il "principio-persona" significa che l’immigrato per lavoro non abbia un trattamento di svantaggio nel mondo del lavoro in confronto degli altri.
Tutto ciò che abbiamo detto finora vale esattamente e nella stessa misura sia per l’immigrato sia per ogni altro lavoratore: lo status di immigrato non giustifica che il lavoro di questi debba essere misurato nel suo valore con metri diversi da quello con cui si considera il lavoro degli altri.
Una conseguenza di questo è la necessità di contrastare – secondo le responsabilità di ciascuno – il "lavoro nero", vero scandalo morale e sociale.
Che tutto questo che ho detto sull’immigrazione per lavoro significhi da ogni punto di vista compreso quello legislativo, non è di mia competenza il dirlo.
Conclusione
L’ingresso nel mistero della persona attraverso la riflessione sul lavoro è una via maestra, non una porta di servizio. L’ingresso nell’intelligenza e nell’organizzazione del lavoro attraverso il "principio-persona" è l’unica modalità adeguata di pensare e realizzare l’agire umano. La connessione persona-lavoro è il "fondamentale e perenne midollo della dottrina cristiana del lavoro". La tragedia in cui viviamo è di avere rotto questa connessione: la "transitività" è cresciuta in misura gigantesca ma non pervasa dall’"immanenza" della persona. In altri termini: la crescita dell’avere non ha comportato una crescita nell’essere. Un mondo così fatto è un mondo dato in preda al desiderio e/o alla paura.
Il lavoro è uno dei luoghi fondamentali in cui l’uomo oggi è posto di fronte al dilemma fondamentale riguardante il suo futuro: o far sì che la persona mediante il suo operare ritrovi se stessa o lasciare che l’operare finisca col consumare pienamente la persona.
Non sono le utopie che devono guidarci; non è la rassegnazione. È l’insonne fatica di unire la dimensione transitiva colla dimensione immanente dell’agire umano; assicurare la reciprocità delle persone nella co-operazione del lavoro.
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