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Comitato "Cardinale Carlo Caffarra"


Introduzione al Corso di Bioetica Generale
luglio 1993


È nota la definizione di bioetica data dalla Encyclopedia of Bioethics: “studio sistematico della condotta umana nell’area delle scienze della vita e della cura della salute, esaminata alla luce dei valori e dei principi morali” (New York 1978, vol. I, p. XIX). Un sapere dunque etico che ha un duplice oggetto, l’agire dello scienziato e l’agire del medico.

Anche a chi poco conosce la storia della medicina risulterà subito chiaro che almeno prima facie la bioetica ha il suo precedente nell’etica e/o nella deontologia medica. Tuttavia, come vedremo, non si tratta in realtà della stessa disciplina. L’etica medica ha un ambito (un “oggetto materiale”) molto più ristretto. Essa riguarda solamente la pratica della medicina, mentre la bio-etica non è per sé limitata a questa pratica. Anche se alcuni problemi che la bioetica affronta devono di solito, nelle nostre società, essere risolti dai medici.

Riferendosi all’area delle scienze della vita, la definizione suscitata potrebbe indurci a pensare che la bioetica, in sostanza, si identifica coll’etica della scienza. Comunemente oggi si intende per etica della scienza l’insieme delle leggi che devono regolare l’uso della ragione che vuole esibirsi come uso scientifico. Più precisamente: i criteri per discernere un processo razionale scientifico da un processo razionale non scientifico. Questa definizione tende a identificare etica della scienza ed epistemologia della scienza, sulla base dell’assioma che è disonesto affermare come verità scientifica ciò che è affermato senza il rispetto del metodo scientifico propriamente detto. È facile vedere come un’etica della scienza così intesa non possa esaurire la definizione di bio-etica. Per una sola e semplice ragione, almeno: l’uomo può usare bene o male un sapere raggiunto nel rispetto assoluto delle regole del sapere scientifico. Ed è questo uno se non il problema centrale della bio-etica.

La definizione dell’Encyclopedia of Bioethics deve dunque essere rigorosamente ripensata, non necessariamente abbandonata.

Può essere utile cominciare col delimitare l’ambito o oggetto materiale della bio-etica. Esso, possiamo dire ancora in modo molto generico, è costituito dall’ambito della vita: è bio-etica. Ma l’ambito proprio dell’etica è esclusivamente l’agire umano: è bio-etica. In conclusione: l’oggetto materiale della bio-etica è l’agire umano nell’ambito del regno della vita. Ora l’agire umano può essere ricondotto al sapere e all’agire strettamente inteso (uso del sapere). Dunque, l’ambito della bioetica è la conoscenza scientifica della vita e l’uso di questo stesso sapere.

Da questa definizione di bioetica, sulla quale credo esista oggi un consenso sia pure sotto formulazioni anche diverse, deriva subito un corollario assai importante. La bio-etica non è altro se non un campo particolare della riflessione etica generale: è una nuova etica speciale. Da ciò deriva ancora che compito della bio-etica non è di individuare, elaborare nuovi principi etici generali, ma di applicare ai nuovi problemi, posti all’azione umana nel regno della vita, i principi generali. Ma è precisamente a questo punto che sorgono tutti i problemi epistemologici della bioetica sui quali la presente introduzione intende riflettere, anche al fine di collocare teoreticamente la presente opera nel contesto della letteratura bioetica contemporanea.

Ho detto che si tratta “di applicare ai nuovi problemi… i principi generali”. La formula è solo apparentemente semplice. Che cosa significa “applicare”? primo problema; che cosa significa “nuovi problemi”? secondo problema; che cosa significa “principi generali”? terzo problema. Poiché è buona norma didattica iniziare dal più facile, partiamo dalla seconda domanda che delle tre è senza dubbio la più semplice.

 

1. Quale novità?

Non è difficile rispondere alla prima domanda. Si tratta certo di una novità, diciamo, di contenuti: in questi ultimi decenni l’etica ha dovuto affrontare problemi nuovi dovuti allo sviluppo della ricerca scientifica. Tuttavia non è questa la novità su cui voglio sopratutto attirare l’attenzione. Si tratta piuttosto di vedere come quello sviluppo possa aver prodotto problemi tali da esigere un profondo ripensamento della teoria etica come tale. Ci sarà di aiuto l’analisi di Hans Jonas alla quale tuttavia è necessario apportare alcune precisazioni.

La tesi di Jonas è sostanzialmente la seguente: fino ad ora tutte le teorie etiche erano tacitamente fondate su pochi presupposti fondamentali; ma la ricerca scientifica attuale e la tecnica da essa generata hanno messo in questione radicale quei presupposti; dunque l’etica precedente non è più capace di affrontare e risolvere i nuovi problemi. Dunque, avremmo una triplice novità.

La prima. Esistono oggi problemi che sono del tutto nuovi o che l’etica tradizionale non poteva neppure prevedere. Per esempio, che non si potessero porre le condizioni del concepimento di una persona umana fuori dall’atto sessuale era talmente ovvio che l’etica non poteva neppure sospettare che potesse sorgere una domanda come questa: solo l’atto sessuale (coniugale) è degno di porre le condizioni del concepimento? È la novità che sopra abbiamo chiamato di contenuti.

La seconda. Secondo Jonas, però, la più grande novità è la messa in questione dei presupposti di ogni teoria etica. Quali erano questi presupposti? Erano tre, secondo l’illustre pensatore. La condizione umana, determinata dalla natura dell’uomo e dalle cose, era fondamentalmente sempre identica, data una volta per tutte. Data la permanenza della condizione umana, era possibile stabilire quale fosse il bene dell’uomo o comunque, la domanda sul bene dell’uomo come tale era una domanda sensata. La portata dell’azione umana e quindi della responsabilità umana era rigidamente definita. Ora, perché e come questi presupposti sono stati messi in questione? In primo luogo, la scienza ha dato all’uomo un tale potere sull’uomo da poter modificare anche strutture della persona che si ritenevano intangibili. Scrive suggestivamente Jonas: “La città degli uomini, un tempo una nicchia nel mondo extraumano, si estende all’intera natura terrestre e ne usurpa il posto. Tra naturale e artificiale non esiste più differenza: il naturale viene assorbito nella sfera dell’artificiale e al tempo stesso la totalità degli artefatti, le opere dell’uomo che influiscono su di lui e mediante lui, genera una propria natura, cioè una necessità con cui la libertà umana deve confrontarsi in un senso completamente nuovo” (in Dalla fede antica all’uomo tecnologico, pag. 52). Questo fatto genera la messa in crisi di un altro presupposto. Le conseguenze dell’agire umano si sono ampliate fino all’infinito. Si pensi all’applicazione della tecnica del DNA ricombinante alle cellule germinali umane: una possibilità che se applicata potrebbe avere conseguenze sulla specie umana come tale. E di conseguenza viene da chiedersi se in queste condizioni ha ancora senso chiedersi quale sia il vero bene dell’uomo, dal momento che l’essere umano stesso è divenuto sfuggente.

La terza e più importante novità è costituita dal fatto, secondo Jonas, che l’etica tradizionale non è più in grado di affrontare teoreticamente questa situazione. E parla della esigenza di “nuove regole etiche e forse anche una nuova etica” (pag. 60). Quando, tuttavia, egli diviene più propositivo, parla della necessità di fondare l’etica “sul terreno di una dottrina dell’essere, cioè la metafisica” (pag. 51). Ma questa è precisamente la grande tradizione etica cristiana. La ragione che ha abbandonato la dimora dell’essere, si è trovata in un esilio fatto di tanta miseria, da invocare ormai per sé un ritorno alla sua casa propria?

Senza addentrarci ora in un confronto critico col pensiero di Jonas su questa diagnosi, credo che si possa ritenere come un guadagno acquisito la consapevolezza che la novità non è solo né principalmente al primo livello. Essa ha certamente investito anche la coscienza che l’uomo ha di se stesso. Se poi teniamo presente, come si deve, il fatto che questo evento spirituale accade nel contesto di una cultura umana fondamentalmente atea, si può capire la drammatica incertezza in cui versa la coscienza morale dell’uomo contemporaneo. L’allucinante profezia di Nietzsche si è avverata puntualmente. Una drammatica incertezza che si rivela sopratutto nel campo della bioetica.

Certamente l’analisi di Jonas sembra avvenire nel quadro di un universo teoretico che non è più in grado di offrire risposte. Penso, per esempio, al concetto di natura e alla contrapposizione fra naturale e artificiale visto come problematizzazione dell’etica tradizionale. Bisognerebbe, infatti, chiarire che significa, anche cronologicamente “tradizionale”. Il concetto di natura nell’etica di Agostino, nell’etica di Tommaso d’Aquino è ben diverso o comunque ha un contenuto ben diverso dal concetto, per esempio, cartesiano.

E allora sorge una ben più difficile domanda nel dibattito bioetico contemporaneo: quale etica è messa in questione? O, il che è lo stesso: quale etica costituisce il sapere bio-etico?

Se riflettiamo attentamente è facile vedere che questa domanda implica due problemi. Come ogni sapere che si esibisca come sapere argomentato, verificabile e discutibile, anche l’etica è la messa in atto della ragione, rappresenta una forma di razionalità messa in esercizio per raggiungere determinati risultati, cioè conoscere. Quale razionalità? Quale conoscenza? 0, per usare la terminologia oggi più in uso nel dibattito bio-etico, come avviene l’applicazione (primo problema) dei principi etici (secondo problema). A questi due problemi dunque saranno dedicati i due punti seguenti di questa introduzione.

 

2. Quale razionalità?

La distinzione elaborata la prima volta nella cultura occidentale da Aristotele, fra ragione speculativa e ragione pratica, è stata una scoperta teoretica da ritenersi definitiva. E infatti nessuno dopo di lui ha rifiutato questa distinzione. Così come la conseguente affermazione che la razionalità implicata nell’agire umano è precisamente la razionalità pratica. Tuttavia, quando si comincia a chiarire il concetto di razionalità pratica ci si incontra in un vero “ginepraio teoretico” nell’attuale dibattito bio-etico: quale razionalità pratica è usata nella soluzione dei problemi della bio-etica, oggi? Come giudicare questa situazione?

Per procedere con un certo ordine, cominciamo coll’individuare i problemi fondamentali che sono affrontati dalla razionalità pratica. Partendo da Aristotele, il primo a elaborare una rigorosa teoria della ragione pratica, possiamo dire come Robert Audi che questi problemi sono quattro.

Il primo: in che modo un problema pratico riceve una soluzione razionale? Quando, cioè, la soluzione data a un problema pratico può essere detta “soluzione razionale o ragionevole”? Per capire questa, come le domande successive, si tenga sempre presente nella propria mente che problema speculativo è: “come stanno le cose?”, problema pratico è “che cosa posso o devo fare?”. Per esempio: che cosa devo fare per risolvere il problema dell’aborto clandestino? è domanda o problema pratico. Quando posso dire che la soluzione data è una soluzione ragionevole?

Il secondo: che cosa significa per la persona che agisce, agire per una ragione, cioè agire sulla base della ragione, cioè — più semplicemente ancora — agire razionalmente? Questo problema è successivo a quello precedente. Infatti, una volta scoperta la soluzione al problema pratico, una soluzione che puo essere detta “razionale”, ci si chiede: “quando l’azione può dirsi fondata sulla ragione e quindi può dirsi azione ragionevole?”.

Il terzo: esiste un modello o un paradigma che sia in grado di spiegare ogni azione razionale, anche quella compiuta contro la ragione? La domanda può apparire del tutto priva di senso, in realtà è uno dei momenti fondamentali per elaborare una teoria della razionalità pratica. Essa prende avvio da un’esperienza umana quotidiana: noi possiamo agire contro la soluzione giudicata razionale. Per definizione, quindi, si tratta di atto irrazionale. La domanda significa: azione fondata sulla ragione (azione ragionevole) e azione non fondata sulla ragione (azione irragionevole) possono essere spiegate con un solo e identico modello o paradigma?

Il quarto: che cosa è che opera il passaggio dalla ragione per agire all’agire stesso? il passaggio “dal dire al fare”? O, quale causalità esercita la ragione nei confronti della volontà? Il problema è molto importante non solo per una teoria antropologica, ma anche per l’etica: è, in fondo, il problema del rapporto tra ragione e libertà.

Il quinto problema costituisce l’ingresso vero e proprio nella riflessione etica. Supposto che l’atto della persona sia fondato sulla ragione (sia ragionevole), questa ragionevolezza rende l’atto solamente intelligibile o anche giusto, solamente comprensibile o anche giustificabile? oppure giustizia è più che intelligibilità/razionalità?

E siamo cosi arrivati al sesto e ultimo problema che una teoria della razionalità pratica deve risolvere: in che cosa si distingue la razionalità pratica dalla razionalità speculativa?

Per capire quale razionalità pratica è in atto nelle discussioni bioetiche contemporanee, sarebbe necessario vedere la risposta che in esse si danno ai sei problemi sopracitati. Sarebbe un lavoro che va ben oltre ai fini di una introduzione generale, e del resto nell’opera che stiamo introducendo esistono analisi molto fini al riguardo.

Non solo, ma riflettendo più attentamente si vede che dei sei problemi solo il primo, il quinto e il sesto sono di decisiva importanza per la costituzione di una teoria etica generale e quindi anche per la bio-etica. Gli altri tre interessano più direttamente chi deve giudicare l’atto compiuto o che sta per compiersi. Interessano cioè maggiormente l’imputabilità dell’atto ragionevole piuttosto che la ragionevolezza dell’atto imputabile.

Forse, semplificando molto, sembra potersi dire che nella nostra cultura occidentale ai tre problemi suddetti sono state date fondamentalmente tre risposte, quella di David Hume, quella di Immanuel Kant e quella di san Tommaso d’Aquino (che riprende e perfeziona su punti essenziali la risposta di Aristotele). Credo allora che sia utile presentare uno schizzo delle tre risposte suddette (A), vederle poi in atto nel dibattito etico contemporaneo (B) e compiere la nostra scelta teoretica (C).

 

(A) Cominciamo dalla esposizione sintetica delle tre risposte, quella di Hume, quella di Kant, quella di san Tommaso.

(A1) Secondo Hume la ragionevolezza di un atto umano consiste nella sua capacità di soddisfare il desiderio che lo ha motivato. Per capire questo concetto di ragionevolezza, bisogna tener presente la descrizione che Hume compie dell’atto umano. Secondo il filosofo scozzese, la ragione non ha nessuna capacità motiva e motivante: solo le passioni spingono ad agire. L’atto, infatti, è sempre compiuto per raggiungere l’oggetto di un desiderio. E la ragione si inserisce precisamente fra desiderio e oggetto (del desiderio), elaborando un modello di condotta che possa portare il desiderio al suo oggetto.

La risposta alla seconda domanda è quindi coerente.

L’atto ragionevole è giustificabile quando il modello di condotta elaborato dalla ragione è tutto considerato quello che, in una data situazione, è previsto essere più adeguato (al raggiungimento dell’oggetto) di qualsiasi altro modello possibile.

Le due risposte precedenti risultano ancora più chiare, tenendo conto della risposta al terzo problema. In senso proprio, non esiste una verità pratica: la ragione pratica (nel senso suddetto, cioè strumentale alla passione) non pronuncia giudizi di verità/falsità (descrittivi), ma solo giudizi che possono essere in grado di indicare o non quale atto conduce alla soddisfazione del desiderio.

(A2) Profondamente diversa è la concezione kantiana della razionalità pratica. Dobbiamo limitarci solo ad alcune indicazioni essenziali.

La ragione pratica è la sua (della ragione) capacità di agire partendo da principi. Ora, e questo è essenziale nella concezione kantiana, la ragione può determinarsi ad agire o puramente (cioè incondizionatamente ) (ragione pura pratica) o non puramente (cioè condizionatamente). La ragione pratica è pura quando si determina ad agire senza nessuna condizione empirica (per raggiungere, per es. un determinato scopo): quando si determina secondo dei principi assoluti a priori.

Così intesa, un atto ragionevole è giustificabile quando esso è frutto di una volontà mossa dalla pura ragione pratica. Cioè: quando l’unico motivo determinante è la forma della legge morale, cioè la legge in quanto legge; quando la determinazione è rappresentata come principio pratico valido per essere una legislazione universale per ogni volontà razionale.

Pertanto la ragione, in quanto speculativa è capacità di pensare (non di conoscere: solo i sensi conoscono) a partire da principi; in quanto pratica è capacità di agire a partire da principi.

(A3) Vorrei fermarmi più lungamente sulla concezione di san Tommaso, poiché è quella che ritengo essere vera.

La razionalità pratica è, secondo Tommaso, la conoscenza del bene dell’uomo. Il bene dell’uomo è il suo fine: la realizzazione perfetta della sua umanità. Il fine (e quindi il bene dell’uomo) può anche essere definito ciò a cui le naturali inclinazioni dell’uomo sono originariamente orientate.

Tuttavia, si tratta ancora di una definizione formale di fine-bene (ultimo). E, infatti, Tommaso nota spesso come varie risposte siano state date alla domanda sul fine-bene ultimo, pur partendo tutte dalla stessa definizione formale. Il primo atto della razionalità pratica è dunque di scoprire la verità sul fine ultimo dell’uomo, di rispondere alla domanda sulla destinazione finale, sul significato ultimo dell’esistenza umana.

Tuttavia questa conoscenza del fine ultimo non è sufficiente a condurre la nostra vita. Il raggiungimento del fine ultimo avviene attraverso i nostri atti. La ragione pratica ha lo scopo di conoscere la verità dell’atto umano in quanto buono/cattivo, cioè in quanto capace di realizzare la persona in ordine al proprio fine ultimo (vero).

Questa conoscenza dell’atto si realizza solitamente in tre momenti o passi successivi. Si ha la conoscenza della natura dell’atto, dell’atto nel suo genere morale, dell’atto dal punto di vista del suo oggetto. Per esempio, quando la ragione dice “la contraccezione è illecita”, ha raggiunto una conoscenza di questo genere. Ha conosciuto un atto umano dal punto di vista del suo oggetto. Questa è ciò che chiamiamo legge morale (naturale). Essa, dunque, è un giudizio della ragione mediante il quale la persona conosce la qualità morale di un atto dal punto di vista del suo oggetto.

Tuttavia questa conoscenza non è sufficiente. L’atto umano così come è conosciuto mediante la legge morale non esiste nella realtà: l’atto esiste anche sempre nelle circostanze storiche in cui la persona concreta è chiamata ad agire. Non è sufficiente sapere se la contraccezione è illecita, è necessario sapere se questo atto è un atto contraccettivo e quindi se questo atto può/non può essere compiuto. La ragione pratica deve raggiungere una conoscenza particolare. Ora esistono, secondo Tommaso, due tipi di conoscenze pratiche particolari: l’una è la conoscenza raggiunta mediante il giudizio coscienziale (il giudizio che è la coscienza morale), l’altra è la conoscenza raggiunta mediante il giudizio prudenziale (il giudizio che è l’atto proprio della virtù della prudenza). La diversità fra i due non consiste nella loro validità noetica. Essi hanno ambedue una validità particolare: valgono per la persona singola. In questo ambedue si distinguono dalla legge morale. Essi si distinguono più profondamente poiché il primo, il giudizio di coscienza, è un giudizio della pura ragione pratica (che, di fatto, può essere contraddetto dalla volontà: si può agire contro il giudizio della propria coscienza). Al contrario, il secondo, il giudizio prudenziale è certamente un giudizio razionale, tuttavia di una ragione mossa, ispirata, governata dalla volontà e quindi questo giudizio è sempre seguito dalla volontà.

Possiamo ora rispondere con san Tommaso alle nostre tre domande.

Un atto umano è ragionevole quando è prudente, quando è frutto della volontà che segue la propria coscienza, illuminata e guidata dalla legge morale.

Quando un atto ragionevole è un atto eticamente giustificabile? La risposta di san Tommaso è più complessa. Quando è un atto veramente prudente, quando il giudizio della coscienza è vero, cioè illuminato e guidato dalla legge morale. Per sé, dire veramente prudente è pleonastico, poiché nel caso di un giudizio non veramente prudente, in realtà si ha un giudizio imprudente: un atto cioè che non è più virtuoso semplicemente. Tuttavia, sulla base della Sacra Scrittura che distingue una vera da una falsa prudenza, Tommaso parla di atto prudente in realtà e prudente solo in apparenza. Più importante è la seconda precisazione. Solo seguire la coscienza vera fa sì che l’atto sia giusto; seguire la coscienza (incolpevolmente) falsa non rende l’atto giusto, ma solamente non imputabile come colpa.

Appare anche chiara la distinzione fra ragione pratica e ragione speculativa. La prima è la ragione in quanto capacità di conoscere la verità sul bene della persona: capacità di conoscere il bene. La seconda è la ragione in quanto capacità di conoscere la verità di ciò la cui esistenza non dipende dalla libertà umana. In questo senso, a volte san Tommaso dice che la verità conosciuta dalla ragione speculativa è la verità necessaria.

 

(B) Visti quali sono i problemi principali che una teoria della razionalità pratica deve affrontare, viste quali sono le tre principali teorie della razionalità pratica elaborate dalla nostra tradizione filosofica, dobbiamo ora finalmente vedere come queste tre teorie possano generare costruzioni teoretiche, architetture bioetiche profondamente diverse fra loro.

Come dicevo alla fine del primo paragrafo, si deve vedere concretamente quale è il modello fondamentale secondo il quale si passa all’applicazione dei principi etici: è in questa applicazione, infatti, che vediamo in opera la concezione di razionalità pratica.

(B1) Il modello utilitarista è l’espressione più chiara, nel dibattito bioetico contemporaneo, della razionalità pratica di discendenza humiana: e ci sembra essere oggi quello di fatto prevalente.

Con il termine “modello utilitaristico” denoto l’argomentazione etica che si propone di giustificare una proposta pratica in base alle sue conseguenze positive e negative, confrontate secondo un bilanciamento di beni e mali previsti. In breve: è l’argomento della misurazione dell’utilità che consegue da un’azione, secondo il criterio di maxi-min.

 Questo modello fornisce una serie di direttive per indicare quali operazioni intellettuali si devono compiere per risolvere i problemi di bio-etica. Queste operazioni intellettuali si propongono di individuare quale soluzione, fra le varie possibili, ha la maggiore utilità. Utilità qui significa valore delle conseguenze e probabilità che esse si verifichino se la soluzione proposta viene attuata.

Per fare un esempio, tutti coloro che accettano questa razionalità pratica, accettano e propongono gli esperimenti sugli embrioni anche al solo fine di ricerca scientifica, anche se questa sperimentazione comporta la morte dell’embrione. È una proposta pienamente coerente col modello utilitarista. La misurazione o il bilanciamento delle conseguenze delle due possibili proposte: nessun esperimento coi soli fini della ricerca/esperimenti ai fini della ricerca, va a favore del secondo, in quanto i benefici che molte persone potranno ricevere dall’acquisizione di nuove conoscenze sono superiori al male che un solo essere umano può avere. Ovviamente l’obiezione che una persona non può mai essere usata non smuove minimamente l’utilitarista, avendo questi rifiutato quel concetto di razionalità che solo rende possibile l’affermazione del valore incondizionato di ogni singola persona. In ogni caso, sia detto incidentalmente, si veda come il modello utilitarista non sia in grado di comporre il valore della felicità o del benessere e il valore dell’uguaglianza.

(B2) Non è assente dal dibattito bioetico contemporaneo neppure la razionalità pratica di ascendenza kantiana, sotto forma di quei modelli di argomentazione (applicazione) che mettono al centro della propria teoria applicativa il principio di universalizzazione (G.M. Singer, R.M. Hare, J. Habermas). Ho parlato di ascendenza kantiana nel senso che questo modello applicativo parte dal presupposto fondamentale che la moralità delle azioni è da fondarsi indipendentemente dalla volontà, dalle preferenze, dai desideri e inclinazioni dei singoli soggetti empirici: non è importante, non è rilevante per il giudizio etico chi pensa, chi vuole, chi desidera, chi agisce. Mi sembra particolarmente importante la formulazione di Habermas, in quanto essa non è affatto assente dai dibattiti bioetici contemporanei.

Semplificando un poco, mi sembra che questo modello applicativo si basi su due principi fondamentali o meglio regole procedurali. La prima: è da ritenersi giusta quella soluzione alla quale si è giunti in modo tale che (a) ogni soggetto capace di parlare e di agire vi ha preso parte, (b1) ciascuno puo problematizzare qualsiasi affermazione, (b2) ciascuno può introdurre nel discorso qualsiasi affermazione, (b3) ciascuno puo esternare le sue aspirazioni; (c) a nessuno sia impedito di avvalersi dei diritti enunciati in b1,2,3. La seconda: è da ritenersi giusta quella soluzione, quando le condizioni e gli effetti secondari prevedibilmente derivanti dalla sua osservanza universale per la soddisfazione degli interessi di ciascun individuo, possono venir accettati senza costrizione da tutti i soggetti coinvolti. Molto brevemente: la procedura condiziona la giustizia della soluzione, quando la procedura assicura l’imparzialità e quindi l’universalità.

Per riprendere l’esempio già fatto, non si può stabilire se esperimenti sugli embrioni ai soli fini della ricerca siano leciti o non, sulla base di una presupposta verità della persona (dell’embrione). Si può statuire tale liceità/illiceità solo realizzando quella procedura di discorso che risponda alle caratteristiche della prima regola. Si pongono però due domande. E l’embrione, che è il soggetto… più interessato, può partecipare a questa comunicazione discorsiva? Sulla base di che cosa si entra in questa comunicazione, se non sulla base di un idea già presupposta di bene, di giustizia?

(B3) Dobbiamo ora prendere in esame il modello argomentativo che si ispira alla concezione tomista di razionalità pratica. Credo sia più chiaro, se lo vediamo in atto nell’esempio più volte sopra riferito. Il problema, dunque, è il seguente: è lecito compiere esperimenti sull’embrione ai soli fini della ricerca scientifica, anche col rischio della morte del medesimo?

La risposta, all’interno della razionalità pratica tomista, si articola fondamentalmente nel modo seguente: non è mai lecito usare una persona; ma l’embrione è persona e gli esperimenti fatti… costituiscono un uso dell’embrione; quindi essi sono illeciti.

Come si vede si ha una conoscenza di principi, l’uno di carattere antropologico (l’embrione è persona) e l’uno di carattere etico (la persona non può mai essere usata): si ha l’affermazione di una legge morale secondo la quale l’embrione non può essere usato. Si ha una conoscenza di una procedura tecnica (gli esperimenti che si intendono fare) alla luce della conoscenza morale: questa procedura si configura o non come “uso dell’embrione”?

Come si vede questo modello di razionalità pratica si radica profondamente nella razionalità teoretica, cioè: il bene dell’uomo può essere conosciuto solo alla luce della verità dell’uomo. L’etica si radica nell’antropologia.

 

(C) Concludo questa seconda parte della mia riflessione con alcune osservazioni critiche, per suggerire le ragioni per cui ritengo vera la concezione tomista della razionalità pratica.

La prima ragione è che la questione (o le questioni) sulla validità di una norma di comportamento non può essere slegata dalla questione su ciò che è bene per l’uomo, dalla questione sulla vita buona. In base a quale criterio, infatti, i singoli possono giudicare della ragionevolezza dei loro desideri, dei loro interessi se non in base a cio che è degno dell’uomo come tale? Se non è degno che si usi di una persona per raggiungere determinati risultati nella ricerca scientifica, non è ragionevole volere questi risultati in questo modo. Il punto di partenza, quindi, di ogni riflessione bioetica non può non essere la domanda sul vero bene dell’uomo come uomo: è la domanda originaria della razionalità pratica. Insomma, una costruzione della bioetica come norma per l’agire assolutamente imparziale e impersonale è impossibile. È il bene a cui la persona umana è inclinata che deve essere affermato.

Questa è la verità nascosta nell’errore utilitarista.

La seconda ragione è che precisamente il modello utilitarista è semplicemente l’evacuazione, la distruzione dell’etica.

L’utilitarista è sensista nella gnoseologia, perché è materialista in metafisica. Dati questi presupposti gnoseologici e metafisici, si arriva ad affermare che esistono inclinazioni naturali solo perché possono essere sentite e che, quindi, è bene solo ciò che sentiamo come bene. E poiché non tutti sentono come bene lo stesso bene, è necessario istituire un modello di convergenza di interessi opposti (l’interesse dell’embrione è opposto all’interesse di altri a conoscere) secondo il massimo di bene, per il maggior numero possibile di persone. Tuttavia, non esiste nell’uomo solo un’inclinazione a questo bene in quanto è il mio bene, ma esiste anche un’inclinazione al bene in quanto è il bene; materia del volere umano non è solo il bene sensibilmente dato, ma può essere anche il bene in ragione della sua pura e semplice essenza di bene. La dottrina della virtù, capacità di volere il bene perché è bene, è centrale nella dottrina tomista. L’esercizio della ragione pratica, in tutti e tre i livelli (universale, particolare-coscienziale, particolare-prudenziale), tende a conoscere precisamente ciò che è bene in quanto tale. E quali sono questi beni?

E questo ci ha già portati al terzo e ultimo paragrafo.

 

3. Quali princìpi?

In realtà è questo il nodo di tutto il dibattito bio-etico contemporaneo: quali sono le ragioni ultime in base alle quali risolvere i problemi della bioetica? Mi sembra che le risposte possano essere ordinate nel modo seguente.

La prima differenziazione e la seguente. C’è chi sostiene non esservi nessuna ragione ultimamente decisiva a risolvere i problemi della bio-etica, che non siano le preferenze, i desideri di ciascuno. In sostanza, a ogni soluzione data deve sempre ritenersi premesso: io penso che… oppure, io preferisco che… io desidero che.... E c’è chi sostiene che esistono ragioni ultimamente decisive, poiché esiste una verità su ciò che è bene/male, universalmente valida.

All’interno della prima posizione si ha poi una ulteriore e importante diversificazione. La prima: stante l’imprescindibilità dal soggetto empirico concreto, la ragione ultimamente decisiva nella soluzione di un problema di bioetica è la sua utilità in termini di benessere per il maggior numero di persone. La seconda: stante l’imprescindibilità dal soggetto empirico concreto, la ragione ultimamente decisiva nella soluzione di un problema di bioetica è che questa è costruita secondo una procedura nella quale ciascuno vi ha preso parte (il consenso fa la giustizia della soluzione).

La seconda posizione si vede impegnata alla costruzione di una antropologia al servizio della bioetica. Si tratta cioè di individuare quali sono le verità sull’uomo che devono stare alla base di ogni soluzione data ai problemi della bioetica: non tutta l’antropologia, ma quella che deve porsi al servizio della bioetica. Ma questo è solo il primo momento.

Si tratta poi di individuare “i passaggi” dall’antropologia all’etica: di individuare cioè e formulare quei principi pratici supremi che rendono operative le verità antropologiche in bioetica.

Ritorniamo al nostro esempio, L’affermazione che la persona è il grado supremo di essere, è un’affermazione metafisica-antropologica. Essa entra al servizio della bioetica, quando ne deduco che nessuna persona umana può essere usata semplicemente come mezzo. Ho formulato un supremo principio pratico che ha reso operativa in bioetica una verità antropologica.

Ma a questo punto, il compito di una introduzione è terminato. Nel manuale, infatti, saranno ampiamente ed esplicitamente esposti verità antropologiche e supremi principi pratici. Il nostro compito era solo di introdurre appunto il lettore nello studio della bioetica rendendolo consapevole dei tre problemi centrali che sono oggetto del dibattito contemporaneo e delle varie soluzioni proposte.

 

BIBLIOGRAFIA

 

F.BELLINO, I fondamenti della bioetica. Aspetti antropologici, ontologici, e morali, Ed. Città Nuova, Roma 1993. 

H. JONAS, Dalla fede antica all’uomo tecnologico, Ed. Il Mulino, Bologna 1991. 

E. LECALDANO, Hume e la nascita dell’etica contemporanea, Ed. Laterza, Bari 1991.

F. O’FANELL, Per leggere la critica della ragione pratica di Kant, Ed. P.U.G., Roma 1990.

R. McINERNY, Aquinas on human action, A theory of practice, Ed. CUA Press, Washington DC 1992.

S. BIDO, (a cura di), La questione dell’utilitarismo, Ed. Marietti, Genova 1991.

T. BARTOLOMEI VASCONCELOS, (a cura di), Etiche in dialogo. Tesi sulla razionalità pratica, Ed. Marietti, Genova 1990.