Contributo al Congresso Tomista
«La reciproca influenza di intelletto e volontà nella conoscenza della verità morale»
27 settembre 1990
L’intelligenza della reciproca influenza di intelletto e volontà costituisce uno dei nodi teoretici centrali nella riflessione etica. L’estrema difficoltà del tema mi costringe a chiudere la mia riflessione entro limiti assai precisi. Essa intende esclusivamente prendere in considerazione la dottrina di san Tommaso, attentamente studiando quei “momenti”, nella storia della nostra libertà, nei quali le due facoltà spirituali interferiscono massimamente.
0, 1. “...hae pontentiae suis actibus invicem se includunt” (Summa theologiae I, q. 82, a. 4, ad 1um). Prima di addentrarmi nella riflessione specifica sulla verità morale, vorrei attirare l’attenzione sull’affermazione della inclusione” o “insidenza” delle due facoltà, legge fondamentale della vita dello spirito.
La vita dello spirito si produce attraverso questa inclusione di intelligenza e volontà, poiché la vita dello spirito è ricerca, scoperta e possesso della verità e della bontà. La connessione trascendentale (nel senso classico, non moderno) fra la verità e la bontà (l’una è “contenuta” — continetur — sotto l’altra) è la ragione d’essere ultima di quella connessione: il bene è conosciuto come tale e, pertanto, è oggetto dell’intelligenza; il vero è voluto come il bene dell’intelletto e, pertanto, è oggetto della volontà. Sul bene la facoltà intellettiva pronuncia un giudizio: questo è bene / questo è male; sul vero la facoltà volitiva si muove e muove l’intelletto: è bene conoscere il vero / è male ignorare il vero.
È in questa mirabile dialettica — in cui consiste la nostra vita spirituale — che si inserisce una precisazione teoretica, di decisiva importanza. Si tratta di definire rigorosamente la vera natura dell’influsso della volontà sull’intelletto e, rispettivamente, dell’intelletto sulla volontà: solo attraverso questa rigorosa definizione sapremo in che modo la facoltà intellettiva abita nell’intimo della volontà e la facoltà volitiva nell’intimo dell’intelletto.
Anche una scarsa attenzione alla nostra vita interiore ci mostra che si tratta di reciproco influsso causale: nessuno capisce niente, se non vuole capire; nessuno può volere ciò che ignora. Questo ci attesta la nostra vita interiore. Questa testimonianza può essere concettualizzata nel modo seguente. L’intelletto causa l’atto volitivo, in quanto e nel senso che esso (l’intelletto) ne costituisce la “forma”: l’intelletto informa l’atto volitivo, in ragione del fatto che presenta l’oggetto. La volontà causa l’atto intellettivo (come l’atto di ogni altra facoltà), in quanto e nel senso che essa — e solo essa — è il principio dal quale, nella vita spirituale, primariamente dipende ogni atto di ogni altra facoltà. In sintesi: l’intelletto abita nella volontà esercitando nei suoi confronti una causalità finale-formale; la volontà abita nell’intelletto esercitando nei suoi confronti una causalità efficiente. In questo preciso significato “hae pontentiae suis actibus invicem se includunt”.
0, 2. “...ad modum principii formalis” (S.t. I-II, q. 9, a. 1, co.).
La premessa precedente chiarisce la legge che regola la reciproca inclusione di intelletto e volontà, nel loro agire. Questa seconda e ultima premessa costruisce il passaggio da una considerazione generale sulla vita dello spirito alla riflessione etica propriamente detta. E, infatti, san Tommaso ritorna sul tema dell’influsso reciproco fra volontà e intelletto nell’analisi che egli fa dell’atto umano. E si ha un progresso teoretico e di linguaggio nei confronti della riflessione della prima pars.
Sulla scia dei padri greci soprattutto, san Tommaso pone l’essenza dell’attività umana in quanto umana nell’atto della volontà: nell’emanazione (nella “spirazione”) dalla facoltà volitiva del suo atto proprio (la voluntas ut actus) è la sorgente originaria di ogni attività che voglia dirsi umana.
Tuttavia poiché questa emanazione può essere causata dalla facoltà volitiva solo nella luce di un bene intelligibile, nella costituzione dell’atto umano entra anche l’intelletto. E così si ripropone il problema del rapporto fra le due facoltà. È importante, tuttavia, notare subito il contesto teoretico in cui il problema ora è posto, diverso da quello precedente.
Si tratta di sapere, dunque, il ruolo che l’intelletto funge nella costituzione dell’atto umano in quanto umano. Poiché la costituzione dell’humanitas dell’atto della persona dipende primo et per se dall’atto proprio della volontà, interrogarci sul ruolo dell’intelletto nella detta costituzione equivale a chiedere se e come l’intelletto influisca, muova la volontà alla “spirazione” da sé, in sé e per sé dell’atto della volitio. Il problema del rapporto intelletto-volontà, nel contesto dell’analisi dell’atto umano, è sempre posto in questo modo (cfr. il decisivo art. 1 della q. 6, I-II).
La risposta alla domanda riceve una risposta assai articolata e fine, che merita di essere attentamente studiata.
Una delle categorie che nell’analisi dell’agire umano ricorre nei momenti teoreticamente decisivi è quella del “movimento”, usata sia in senso metaforico sia in senso rigorosamente metafisico, passaggio dalla potenza all’atto. Ecco: questo è il punto preciso e misterioso in cui nasce l’atto umano in quanto tale, cioè come la volontà (potenza) vuole.
Il punto di partenza della risposta si ha nella distinzione fra l’agire (e il non agire) e “ciò che” si agisce: fra l’esercizio di una facoltà e il contenuto-specificazione di esso. Ovviamente non si tratta di realtà separate: sono le due dimensioni di ogni atto di volizione. La volontà non ha nessun principio da cui provenga il suo esercitarsi all’infuori di se stessa: è la volontà che muove se stessa e niente/nessuno all’infuori di essa. Tuttavia, “muovere se stessa” significa qui precisamente quell’attività spirituale che la persona fa sgorgare da se stessa, quando ella è posta di fronte a un “bene intelligibile”; significa quell’attività spirituale che è la risposta della persona al bene intelligibile. Avendo il carattere di risposta, l’atto della volizione pre-suppone la presenza interiore del bene intelligibile; e questa presenza è costituita dall’atto intellettivo: “sicut praesentans ei obiectum suum”. Essendo costretti a fare uso di un vocabolario che può richiamare esperienze di temporalità secondo un “prima” ed un “poi”, può sfuggire la finezza di questa risposta. L’atto della volizione è specificato formalmente dal bene intelligibile: esso bene, quando voluto e non ancora fruito, muove “ad modum principii formalis”. Quando posseduto è la causa formale della volizione: ciò per cui una volizione è ciò che è. È nell’ambito di questa causalità formale, e non fuori di essa, che deve collocarsi l’influsso dell’intelletto sulla volontà; non, dunque, nell’ambito della causalità efficiente. Ciò che fa essere l’atto umano in quanto umano è solo la volontà (e pertanto, solo la volontà può essere moralmente buona o cattiva).
D’altra parte, è la volontà ad essere strutturalmente intenzionata al bene come tale. Da questa costituzione naturale della volontà deriva che tutta la vicenda della persona umana — dunque anche la ricerca, scoperta dal vero — dipende dalla volontà. Dunque, dipende dalla volontà anche la ricerca e la scoperta del bene intelligibile, nel senso che è essa a spingere la intelligenza a chiedersi quale sia il vero bene della persona umana e come raggiungerlo. La causalità della volontà è dell’ordine della causalità efficiente: è la facoltà che fa essere la persona ciò che è.
Per esemplificare, concludendo questa seconda premessa: ciò che è il cristianesimo non dipende dalla mia volontà; il fatto che io sia o non sia cristiano, dipende dalla mia volontà. Non si diventa più cristiani pensando di più il cristianesimo; ma, semplicemente ed esclusivamente, decidendo di diventarlo.
Alla luce di queste due fondamentali premesse, possiamo ora vedere come la storia della nostra esistenza si costruisca nella reciproca influenza ed attraverso la reciproca influenza di intelletto e volontà: la storia della nostra esistenza, nel suo nucleo originario, è costituita da questa “inclusione” di intelligenza e volontà. E la riflessione etica ha precisamente il mistero di questa inclusione.
1. Primo atto: la determinazione formale-esistenziale del fine ultimo
“Primum quod tunc (seu cum usum rationis habere inceperit) homini cogitandum occurrit, est deliberare de seipso. Et si quidem seipsum ordinaverit ad debitum finem…” (I-II, q. 89, a. 6). Il testo è assai noto e, in questi ultimi anni, giustamente è stata sottolineata la sua importanza.
All’inizio, dunque, della vicenda spirituale dell’uomo, si ha un atto libero, la cui natura è connotata dal termine “deliberare”; l’oggetto di questo atto libero-deliberazione è la persona stessa che delibera; ma la persona in quanto oggetto, è considerata nel suo rapporto a un fine ultimo; fine ultimo che può essere qualificato come “debitum” o “indebitum”. Si ha la descrizione precisa del primo atto del dramma della libertà umana: dobbiamo analizzarne i singoli elementi.
In primo luogo, si tratta di una “deliberatio”. San Tommaso ha esposto la natura di questo atto della volontà alle qq. 13-14, trattando della “electio” e del “consilium”. Si deve, tuttavia, notare subito che propriamente parlando, l’oggetto di questa deliberazione non è “il fine” (ultimo): secondo san Tommaso non si dà deliberazione circa il fine (ultimo). L’oggetto è la persona che delibera. Che significa? Per definizione stessa, la deliberazione presuppone e implica almeno (come in questo caso) due possibili corsi di azione. Dunque: sono possibili due modi di essere, o meglio, due modi di rapportarsi al fine ultimo e la deliberazione verte precisamente circa questa duplice possibilità. Anzi, per essere più precisi: non si tratta di due modi di rapportarsi... ma della possibilità di rapportarsi al fine (ultimo) dovuto e alla possibilità di rapportarsi al fine (ultimo) sbagliato. Dunque sembra doversi ammettere una deliberazione circa anche il fine, nel senso che la persona può deliberare o di porsi in relazione al fine ultimo dovuto o di porsi in relazione al fine ultimo non dovuto.
La nostra attenzione teoretica, pertanto, deve ora portarsi precisamente sulla determinazione-deliberazione del fine ultimo. L’affermazione del “finis debitus” è, come è ben noto, l’affermazione originaria di tutta la scienza etica, secondo san Tommaso: la domanda etica fondamentale, cioè, è la seguente: quale è il fine ultimo, verso che/chi devo orientare me stesso, ultimamente? E non: in base a quali criteri devo giudicare la moralità dell’atto umano? La scienza etica, cioè, è la scienza della determinazione del fine ultimo. Al riguardo, si deve distinguere fra la “ratio finis ultimi” e “id in quo finis ultimi ratio invenitur”. Fermando la nostra attenzione sul secondo aspetto della problematica, osserviamo che è possibile una duplice determinazione dell’id in quo finis ultimi ratio invenitur: una determinazione che chiamerei formale e una determinazione che chiamerei esistenziale. La prima determinazione avviene in due momenti: il primo è costituito dalla rigorosa definizione della essenza, dell’eidos, la “ratio” di “fine ultimo”; il secondo dalla ricerca della realtà nella quale quella ratio o essenza si trova a essere pienamente realizzata. La seconda determinazione consiste nella decisione di porre la “ratio finis ultimi” in una realtà piuttosto che in un’altra.
Ora siamo finalmente in grado di porci la domanda: nella determinazione formale ed esistenziale del fine ultimo si dà un reciproco influsso di intelletto e volontà? Le due facoltà del nostro spirito interferiscono anche (soprattutto?) nella scoperta della verità etica originaria, quella sul fine ultimo?
Per dare un certo ordine alla mia risposta, ho pensato di distinguere prima le due determinazioni e poi di tentare un confronto fra le due.
1, 1. La determinazione dell’id in quo finis ultimi ratio invenitur percorre una duplice via: negationis seu remotionis e affirmationis. Il primo percorso porta all’esclusione di ogni bene creato come capace di realizzare perfettamente la ratio finis ultimi; il secondo porta all’affermazione di Dio come il solo in cui la ratio finis ultimi si adempie perfettamente. È la determinazione formale.
Essa è opera della ragione: è un atto della ragione, facoltà che conosce l’ordine dell’essere. Si tratta di una domanda riguardante l’essere come tale: chi/che cosa è il bene-fine ultimo dell’uomo. E, infatti, l’analisi è sempre condotta sulla base di un rigoroso studio e della realtà che via via si esibisce come avente in sé ragione di fine ultimo e dell’uomo che pone la domanda. Si tratta, dunque, di una determinazione che è opera esclusiva della ragione, il cui risultato pertanto si esibisce e a pieno diritto come dotato di universalità e necessità. La proposizione, cioè, “Dio è il fine ultimo dell’uomo è universalmente e necessariamente vera: non si tratta di una semplice decisione. La base dell’etica è un atto di conoscenza.
Resta, tuttavia, il fatto che già all’interno della determinazione formale della prima verità etica, osserviamo diversità di opinioni: e san Tommaso lo nota varie volte. Come è spiegata questa diversità? quale è la sua radice? È nella risposta a questa domanda che troviamo, scopriamo l’influsso della volontà nel lavoro della ragione, secondo san Tommaso.
Come ho già detto, l’argomentazione si costruisce su due dati dell’esperienza. Il secondo, e più importante, è costituito dalla coscienza che ciascuno ha del suo io spirituale: meglio, della potenziale infinità della sua propria intenzionalità spirituale. E in questo si racchiude il nodo teoretico essenziale: se potenzialmente infinito, lo spirito creato può trovare la sua beatitudine nel Bene Infinito e in niente altro che sia minore; ma, in quanto creato, dotato di un limite strutturale, esso è incapace di possedere un Bene Infinito. In quanto spirito è orientato a Dio come a Bene ultimo suo fine; in quanto creato è incapace strutturalmente di raggiungerlo: è il paradosso ontologico dell’essere spirito-creato. In questa situazione, la volontà può impedire la ricerca di un Bene Infinito, impossibile a raggiungersi, semplicemente perché posto al di là di ogni capacità umana: o per fragilità o per disperazione (cfr. Contra Gentes, IV, cap. 54, Primum igitur). La volontà blocca la ricerca della ragione, impedendole di proseguire oltre l’orizzonte dei beni creati: la negazione intellettuale del Fine ultimo è conseguenza sempre di un trauma della libertà.
1, 2. Più completa, più misteriosa, la determinazione esistenziale del Fine ultimo: determinazione nella quale la reciproca influenza di intelletto e volontà si fa più stretta.
La determinazione esistenziale ha per oggetto l’id in quo finis ultimi ratio invenitur, non per l’uomo, ma per me: nella irripetibile vicenda della propria esistenza: in che cosa/in chi porre la mia beatitudine? La domanda, che nessun uomo non può non porsi, si radica in una struttura originaria, naturale dello spirito, attraverso la volontà (ut natura): precisamente “ipsa finis ultimi intentio” (cfr. I-II, q. 1, a. 7, ad 1um), qualunque sia la risposta data. D’altra parte, la diversità delle determinazioni esistenziali nelle diverse persone è indice che essa come tale è opera della volontà: si tratta di una decisione della volontà libera di ciascuno di noi. E pertanto l’ordinarsi, come a suo fine ultimo, da parte della persona, a una realtà in quo finis ultimi ratio invenitur secondo la verità della determinazione formale oppure a una realtà nella quale... è la deliberazione originaria di ciascuna persona umana.
Su questa determinazione, dunque, l’intelligenza non ha alcuna funzione? Non esercita nessuna causalità, oltre, si capisce, quello che comunque esercita su ogni atto volitivo (nihil volitum…)?
San Tommaso ha sempre sottolineato la corrispondenza fra questa determinazione del fine ultimo e la condizione esistenziale della persona che si determina (qualis unusquisque est). La ragione, allora, sarebbe qui degradata a un essere “serva” di una decisione già presa di voler essere in un certo modo: una ragione “strumentale” al progetto di esistenza, già progettata autonomamente dalla volontà libera? La vita morale, l’esistenza avrebbe la sua origine nell’atto di libertà?
Tocchiamo qui il punto per me più difficile, più misterioso di tutta la riflessione etica e ci siamo già introdotti in una riflessione che metta in relazione le due determinazioni del fine ultimo, quella formale e quella esistenziale.
1, 3. Ogni persona umana non può non determinarsi in vista di un fine ultimo; dall’esistenza della persona non può essere assente l’orientamento a un bene considerato ultimo: si tratta di una struttura dello spirito.
D’altra parte, Dio si rivela all’uomo come Fine ultimo attraverso e nell’esercizio stesso delle facoltà spirituali dell’uomo: Dio mostra se stesso, Dio si fa conoscere originariamente, come Fine ultimo, in questo luogo: hanc aptitudo (sc. intelligendi et amandi Deum) consistit in ipsa natura mentis (I, q. 93, a. 4). Conseguentemente, la conoscenza del suo proprio essere orientato a Dio come Fine ultimo non può essere soppressa nel cuore umano (I-II, q. 94. a. 6): è la legge morale fondamentale che continuamente risuona in ogni coscienza umana.
Questa originaria Rivelazione che Dio fa di se stesso, esige di essere consentita, accolta, ascoltata dalla libertà umana: è la libertà umana che deve deliberare se orientare tutta la vicenda esistenziale verso Dio, sempre conosciuto come Fine ultimo o verso un altro bene come a fine ultimo. È in questo “punto” della vita spirituale di ogni uomo (che, come si è visto, per san Tommaso coincide coll’accendersi in noi della luce della ragione), in questo “confronto” fra Rivelazione divina e libertà umana, che si ha la determinazione esistenziale del Fine ultimo della propria vita e nasce la persona umana in quanto soggetto di una storia eticamente qualificata.
La determinazione esistenziale può essere vera e può essere falsa: essa, cioè, è sottoposta a una Verità che la precede e la giudica, Verità che illumina la ragione umana.
Quando la determinazione esistenziale è falsa, contraddice cioè la luce interiore della Rivelazione originaria di Dio, la ragione stessa è resa schiava dalla libertà. Nel senso che essa viene impedita di essere se stessa fino in fondo, ma è chiamata a giustificare una scelta già fatta.
Possiamo concludere questo primo momento della nostra riflessione. L’influsso reciproco di intelletto e volontà nella conoscenza della verità morale prima e fondamentale, quella riguardante il Fine ultimo, è affermato chiaramente nella dottrina di san Tommaso, anche se, mi sembra, mai esplicitamente e direttamente focalizzato sul piano teoretico.
Esiste un momento puramente teoretico, luce che si accende nello spirito creato per l’originaria Rivelazione che Dio fa di se stesso come Fine ultimo: Bene incommutabile e supremo. Questa luce è indipendente da ogni influsso della nostra volontà e non può essere spenta da nessuna malizia umana. Ed è nel chiarore di questa luce che inizia la storia di ciascuna persona umana: inizio che consiste nella determinazione esistenziale del proprio fine ultimo.
Questa determinazione è esclusivamente opera della nostra libertà. Ma si noti la diversità dell’influsso della facoltà intellettiva, a seconda che questa determinazione avvenga nella verità o nella menzogna.
Se accade nella verità, la luce intellettuale è penetrata nella volontà, si è strutturata una profonda unità interiore; se accade nella menzogna, la volontà finisce col rendere schiava la verità dell’ingiustizia.
Esiste, da un certo punto di vista, una priorità dell’intelletto nei confronti della volontà; ma, da un altro punto di vista, esiste una priorità della volontà nei confronti dell’intelletto.
2. Secondo atto: la determinazione formale ed esistenziale della via al fine ultimo
“Quia… ad beatitudinem per actus aliquos necesse est pervenire, oportet... ut sciamus quibus actibus perveniatur ad beatitudinem vel impediatur beatitudinis via” (I-II, q. 6, Prol.). Beatitudinis via: è il secondo tema fondamentale della riflessione etica tomista e la determinazione della “beatitudinis via” è il secondo atto della drammatica vicenda della nostra libertà. È il problema, concretamente, della conoscenza della verità morale sul nostro agire e, per noi, del reciproco influsso che esercitano intelletto e volontà in questa conoscenza.
Si tratta di un processo conoscitivo complesso “quia operationes et actus circa singularia sunt” (ibid.) che può essere pensato in vari momenti: da non separarsi, anche se si deve vederli e comprenderli nella loro distinzione. Mi sembra che i momenti fondamentali di questo processo conoscitivo siano i seguenti: il giudizio attraverso cui conosciamo la legge morale nei suoi principi primi; la riflessione razionale attraverso la quale penetriamo sempre più profondamente nei principi primi della legge morale, esplicandone sempre più il contenuto; il giudizio in cui consiste la coscienza morale; il giudizio prudenziale.
Dobbiamo riflettere ora su ciascuno di questi momenti in cui sussiste quel processo conoscitivo che ci fa conoscere la verità sulla “beatitudinis via”.
2, 1. La partecipazione della creatura ragionevole alla legge eterna di Dio non consiste solo nella “naturalis inclinatio ad debitum finem”, di cui ho parlato nel numero precedente, ma anche “ad debitum actum”. Esiste, cioè, una naturale capacità a discernere il bene dal male, nell’atto umano, in quanto i criteri di discernimento sono indistruttibilmente conosciuti dalla ragione pratica dell’uomo. È quella conoscenza che ha per oggetto ciò che Tommaso chiama “praecepta communissima” 0 “principia prima”. È la naturale luce dell’intelletto che, nel momento stesso in cui si accende nell’uomo, conosce ciò che è bene e ciò che è male.
Mi sembra che san Tommaso escluda, a questo livello, un influsso della volontà: siamo nell’ambito dell’esercizio della pura ragione pratica (cfr. De Veritate, q. 6, a. 2).
2.2. San Tommaso, tuttavia, non perde mai occasione per sottolineare l’insufficienza radicale di conoscenza per dirigere la nostra esistenza. Si tratta, infatti, di una conoscenza universale, mentre le scelte della nostra libertà sono singolari. È necessario, pertanto, una penetrazione ulteriore in queste originarie verità morali, al fine di esplicitarne sempre più la loro virtualità misurante e regolativa del nostro agire.
In questo processo, che è alla base di tutta la nostra vita morale quotidiana, san Tommaso insegna che l’influsso della volontà è di importanza decisiva: egli insegna costantemente che in questo sforzo esplicativo, la ragione è continuamente sotto il dominio della volontà.
La conoscenza può fallire “propter hoc quod aliqui habent depravatam rationem ex passione, seu ex mala consuetudine, seu ex mala habitudine naturae” (I-II, q. 94, a. 4). Anzi, l’influsso può giungere fino al punto da rendere la ragione del tutto incapace di quest’opera di penetrazione, da farla cadere nei più gravi errori morali.
Questa situazione è, secondo san Tommaso, una delle ragioni per cui era necessario che la Divina Rivelazione ci istruisse anche sulle verità morali che sono per sé accessibili alla ragione (I-II, q. 90, a. 2).
2, 3. Il processo conoscitivo delle verità che riguardano la “beatitudinis via” si conclude nel giudizio della coscienza, ultimo atto conoscitivo della ragione pratica.
Secondo san Tommaso, il giudizio della coscienza “consistit in pura cognitione” (De Veritate, q. 17, a. 1, ad 4um). Esso è un atto della ragione, mediante il quale semplicemente conosciamo se l’atto che stiamo per compiere o abbiamo compiuto, è buono/cattivo: non si esce dal sapere puro. Per questo anche il giudizio della coscienza, come ogni giudizio razionale, può e deve essere qualificato come vero o falso.
Tuttavia, al processo razionale che si conclude nel giudizio della coscienza, non resta estranea la nostra volontà e affettività e ciò, secondo san Tommaso, per due ragioni.
La prima. Perché il giudizio della coscienza possa essere vero, la ragione deve conoscere l’ordine della divina Sapienza, che si esprime attraverso la legge morale. L’ignoranza o l’errore in questa conoscenza può essere frutto di volontaria negligenza: la persona deve voler conoscere la verità sul bene e sul male.
La seconda. Ancora più profondamente, quel processo razionale può essere disturbato, o addirittura impedito di raggiungere la verità in un altro modo. Il giudizio della coscienza si radica nella sinderesi. Fin che la persona si lascia condurre, nella sua ricerca della verità morale, dalla luce intellettuale, che è partecipazione della Sapienza divina, ella diviene sempre più vera. Tuttavia, in questa ricerca può inserirsi un giudizio dettato dalla propria concupiscenza, che altera alla fine il giudizio della coscienza (cfr. I-II, q. 77, a 2, ad 4um). E pertanto san Tommaso conclude: “hoc ipsum quod rationi videatur in particulari aliquid bonum quod non est bonum, contingit ex aliqua passione” (ibid. ad 2um) o “ratio impeditur applicare commune principium ad particulare operabile, propter concupiscentiam vel aliquam aliam passionem” (I-II, q. 94, a. 6). E così, la luce della divina Sapienza viene spenta (aboletur) precisamente nel momento e in ciò in vista del quale essa è stata partecipata all’uomo il “particulare operabile”.
2, 4. col giudizio conscienziale si conclude il momento puramente cognitivo della nostra ricerca della “beatitudinis via”: si conclude la sua determinazione formale.
La determinazione esistenziale si ha nel giudizio prudenziale, nel quale si ha un incontro fra volontà e ragione così profondo da essere pressoché impossibile discernere l’uno dall’altro.
Questa determinazione comprende due momenti o atti spirituali, essenzialmente: la sua “inventio per rationem” e la sua “electio per voluntatem” (cfr. in 2 Eth., lect. 7, n. 325) ed è nel rapporto dialettico fra inventio ed electio, nel judicium electionis e nella electio judicii che l’uomo cammina verso la beatitudine o devia da essa. Ma procediamo con ordine.
Innumerevoli volte san Tommaso sottolinea che ogni atto umano è irripetibile nella sua singolarità, è irriducibile in senso completo ad una astratta universalità: “operationes sunt in singularibus”. Ne deriva che in ordine alla domanda “quale decisione devo prendere ora, in questa situazione?”, scarso è l’apporto che può venire dalla scienza etica. Essa diviene, infatti, immediatamente operativa solo quando si ha a che fare con norme morali determinate negative, aventi valore assoluto. Tuttavia, anche in questo caso, l’aiuto è di scarso valore: non si diventa buoni non facendo il male, ma facendo ciò che è bene. È necessario che intervenga un momento, un atto cognitivo il cui contenuto sia assolutamente singolare. Mediante questo giudizio la persona conosce quale scelta in questa situazione conduce alla beatitudine. Si tratta di un atto di conoscenza e dunque di un atto elicito dalla ragione.
In questa conoscenza della verità morale, esercita un influsso la volontà? San Tommaso risponde a questa domanda in I-II, q. 14, a. 1, ad 1um. Egli afferma la presenza nell’atto della ragione di “aliquid voluntatis”, che egli qualifica come materia del giudizio, nel senso che la ragione giudica su ciò che la volontà vuole fare e come motivum, nel senso che la ricerca razionale ha la sua motivazione nel e dal desiderio del fine ultimo o beatitudine.
In primo luogo, la materia circa quam del giudizio. È la volontà che apre e chiude, cioè costituisce lo spazio della ricerca razionale, nel senso che la ragione è qui collocata dentro un progetto precedentemente deciso dalla volontà. L’avaro usa della sua ragione per accrescere la sua ricchezza come il misericordioso per scoprire sempre nuovi modi per soccorrere i poveri.
Di conseguenza, in secondo luogo, la volontà influisce sul giudizio prudenziale, in quanto essa ne è il motivum o la radice ex qua ha origine, come da causa efficiente, il giudizio razionale. L’affermazione ha un immediato significato ovvio. La ragione si mette ad inquisire per scoprire quale sia la scelta giusta, solo se e solo in quanto la persona ha già deciso di raggiungere un certo scopo. Ma non è questo il significato più profondo.
L’inquisizione o ricerca della ragione, come sempre, trova il suo punto di partenza in ciò e da ciò che già conosce, per procedere alla scoperta di ciò che ancora ignora. Per semplificare: da premesse note, giunge a conclusioni ignote. Quale è la premessa da cui ha origine la ricerca razionale che si conclude nel giudizio di elezione? Non in una verità, ma in un orientamento-decisione della volontà: la premessa del discorso razionale è un atto extra-razionale; è un atto della volontà: la intentio. Poiché intendo essere avaro, cerco di scoprire quali sono le scelte che in questa situazione mi arricchiranno di più; poiché intendo essere misericordioso, cerco di scoprire quali sono le scelte che in questa situazione saranno più utili ai poveri.
La conseguenza è che l’abito nel giudizio vero di elezione, cioè la prudenza, dipende nel suo esercizio dalle virtù morali, al modo con cui le conclusioni dipendono dalle premesse.
Possiamo ora precisare meglio la natura propria di questa conoscenza.
In primo luogo, si tratta di una conoscenza affettiva, nel senso letterale del termine. La persona è profondamente connaturalizzata a ciò che conosce, in quanto ciò che è conosciuto è come attraversato, percorso dall’intenzione di quel fine-bene, in vista del quale si cerca la via.
In secondo luogo, si tratta di un giudizio il cui criterio di verità deve essere posto nella conformità all’intenzione retta della volontà: la verità/falsità di questo giudizio consiste nella sua conformità/difformità dall’intenzione retta della volontà.
Ma questa considerazione ci porta già dentro alcune riflessioni che vorrebbero essere conclusive di tutta la mia riflessione.
Conclusione
Nella sistemazione del discorso etico, san Tommaso distingue sempre i due momenti del cammino della nostra libertà, i due atti fondamentali della vicenda drammatica della nostra esistenza: la volontà-intenzione del fine ultimo; l’elezione di ciò che conduce al fine ultimo. La riflessione precedente ci ha mostrato che esiste una profonda omologia fra i due atti del nostro dramma esistenziale: all’interno di ambedue, infatti, abbiamo individuato un momento che abbiamo chiamato di determinazione formale e un momento che abbiamo chiamato di determinazione esistenziale. Il momento formale è quello nel quale la persona si impegna in quanto soggetto conoscente: è il momento conoscitivo propriamente detto. In esso e per esso, la persona si interroga sul “come stanno le cose”. È la pura ricerca della verità che conosce un lungo percorso. Il suo inizio è da collocarsi nell’originaria partecipazione dell’uomo alla luce stessa del Verbo quale si ha nella sinderesi: da questo inizio e sorgente sgorga tutto l’esercizio della ragione pratica, aiutata dalla scienza etica, che si conclude nel giudizio della conoscenza, ultimo luogo in cui si concentra tutta la luce della ragione. Il momento esistenziale è quello nel quale la persona si impegna in quanto soggetto esistente: è il momento della libertà. In esso e per esso, la persona si attua. È il porsi nell’essere: una posizione che conosce un lungo percorso. Il suo inizio è da collocarsi nella deliberazione colla quale ciascuno si ordina al fine dovuto o non: da questo inizio e sorgente sgorga tutto l’esercizio della nostra libertà, che si conclude nella elezione.
E si vede come sia nel momento formale, costituito formalmente dall’attività intellettiva, sia presente il momento esistenziale, costituito dall’attività volitiva; e nel momento esistenziale, costituito formalmente dall’attività volitiva, sia presente il momento formale. Il momento veritativo più alto — scoperta del Fine ultimo — esige il massimo impegno esistenziale; il momento esistenziale più intenso — l’atto di elezione — esige la più difficile ricerca razionale. È la vita dello spirito che non è un circolo con un solo centro, ma un’ellisse con due poli: spegnere l’uno e l’altro equivale a spegnere la vita spirituale stessa. Tuttavia, resta una domanda: ma è veramente impossibile ricondurre la vita dello spirito creato a un atto originario uno?
È impossibile trovare, rimanendo dentro lo spirito creato, la ragione ultimamente esplicativa del suo operare, precisamente per il necessario reciproco influsso di intelletto e volontà. E d’altra parte il principio motore, che genera tutta la nostra vita interiore è la volontà. È dunque necessario porre al principio un intervento immediato di Dio stesso, la cui mozione è ricevuta dalla libertà umana o rifiutata.
E così tutta la nostra vicenda esistenziale nasce da questa decisione per cui l’uomo volendo essere se stesso, si fonda nella potenza che lo ha posto; oppure: non volendo essere se stesso / volendo essere se stesso, non si fonda sulla potenza che lo ha posto.
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