Integrazioni all’intervento pronunciato in Messico nel febbraio 1995 «La Conferenza del Cairo e la dottrina cristiana del matrimonio».
Trascriviamo qui due integrazioni apportate al testo dell’intervento tenuto in Messico per una conferenza fatta in seguito ad Assisi.
1. Integrazione al primo punto «La materia della contesa», nel quale si afferma che c’è una lotta tra due concezioni della dignità dell’uomo.
È una lotta, se considerata nella sua profondità, che si svolge nella coscienza che l’uomo ha di se stesso. Possiamo addentrarci in questo “conflitto di umanesimi”, un passo dopo l’altro, vedendo le risposte a domande che sono sempre state sullo sfondo del dibattito.
Prima domanda: quale è il criterio che deve guidare l’uomo nelle sue scelte? Il senso della domanda dovrebbe essere chiaro. La nostra esperienza quotidiana ci mostra come normalmente di fronte alla nostra libertà si aprano almeno due alternative e come, ovviamente, non sia possibile percorrerle contemporaneamente entrambe. Donde la necessità di una scelta. Scelta che se vuole essere ragionevole deve fondarsi sopra un criterio. Il criterio è ciò in forza del quale scelgo ciò che scelgo. Ebbene, a quella domanda la nostra cultura occidentale oggi solitamente risponde: il criterio è l’utilità. È la scelta più utile che deve essere compiuta. La risposta è chiara e semplice solo in apparenza. Appena formulata suscita molte domande: utile per chi? Solo per chi agisce? Per la maggioranza o per tutti? Per chi già esiste o anche per chi deve ancora esistere? Chi stabilisce il contenuto o i contenuti di questa utilità: che cosa è inutile/dannoso? Le difficoltà della dottrina utilitarista sono il segno che essa è riduttiva del criterio delle nostre scelte: essa riduce il bene all’utile. Ma proseguiamo nello scandaglio di questo “conflitto di umanesimi” che fu alla radice della Conferenza del Cairo, con la domanda successiva.
Seconda domanda: di che cosa siamo responsabili quando agiamo? La dottrina utilitarista sposta l’attenzione della persona che agisce dall’atto alle conseguenze dell’atto. Se infatti il criterio delle nostre scelte è la loro utilità, ciò che interessa è precisamente l’utilità che consegue ad esse. Pertanto a quella domanda la nostra cultura occidentale oggi solitamente risponde: siamo responsabili delle conseguenze delle nostre scelte. Ancora una volta tuttavia la risposta è chiara e semplice solo in apparenza. Appena formulata, essa suscita pure molte domande: di quali conseguenze (del nostro agire) siamo precisamente responsabili? Solo delle conseguenze che immediatamente conseguono alle nostre scelte o anche di quelle che conseguono alle conseguenze immediate? Se anche di quelle mediate, fino a quale punto? Solitamente si risponde: fino a quando lo consente la nostra capacità di previsione. Cioè: siamo responsabili delle conseguenze prevedibili. Ancora una volta, risposta chiara e semplice solo in apparenza. Chi misura la “prevedibilità”? Quando si può dire che la conseguenza era prevedibile/non era prevedibile? È solo un criterio individuale o è uno standard comune di prevedibilità? Non sto parlando in questo momento di responsabilità giuridica o penale; sto parlando di responsabilità morale dei singoli sia privati sia in possesso di autorità pubblica. Mi fermo a questo punto. Vi faccio solo notare due cose assai importanti per la nostra riflessione. La prima: l’utilitarismo genera sempre una visione consequenzialista dell’agire umano. La seconda: l’errore dell’utilitarismo è di ridurre il bene all’utile. Il consequenzialismo, di conseguenza, dimentica o nega che l’uomo è responsabile, in primo luogo, non delle conseguenze di ciò che sceglie, ma di ciò che sceglie. Sono responsabile di ciò che scelgo. È un punto assai profondo questo per capire lo scontro avvenuto al Cairo. Essendo responsabile di ciò che scelgo, non sempre posso appellarmi alle conseguenze ritenute buone, per giustificare ciò che scelgo. Possono esserci scelte che in ragione precisamente del loro contenuto, del loro oggetto stesso non potranno mai essere giustificate da nessuna conseguenza. Questa ultima considerazione ci conduce alla terza domanda che ci introduce ancora più profondamente delle altre due nel “conflitto degli umanesimi” che sta alla base della Conferenza del Cairo.
Terza domanda: esiste una “indisponibilità” di ogni singola persona umana come di un bene assoluto e intangibile? Questa volta forse la domanda non è così chiara come le due precedenti, né forse se ne vede immediatamente la connessione con esse. Il senso della domanda prima di tutto. Il concetto di indisponibilità penso sia ben noto a tutti. È la proprietà di cui gode un bene quando di esso non possiamo farne uso. Attribuire questa proprietà ad una persona umana ha un significato assai più profondo: significa affermare che la persona umana come tale, e dunque ogni persona umana, non puù mai avere ragione solo di mezzo in ordine al raggiungimento di un fine. Il che equivale a dire: la persona umana come tale, e dunque ogni persona umana, è un fine a cui deve essere ordinato tutto e mai semplicemente un mezzo di cui disporre per uno scopo che non sia il bene del suo essere. In questo senso, l’affermazione dell’indisponibilità della persona coincide con l’affermazione della sua dignità infinita fatta nei confronti di qualsiasi programmazione. Questo è il senso della domanda: la persona umana come tale, e dunque ogni e singola persona umana possiede una tale dignità da renderla indisponibile per ogni uso della medicina? Non è difficile vedere in linea teorica che l’utilitarismo-consequenzialismo deve fare una fatica assai grande per rispondere affermativamente a questa domanda. Alla fine è costretto a rispondere negativamente: non ogni persona (e dunque la persona umana come tale non) gode di questa indisponibilità. Perché l’utilitarismo-consequenzialismo è condannato a questo esito? Collocando il valore, il bene sulle conseguenze, cioè sul cambiamento che le nostre azioni producono sullo stato del mondo, l’attenzione e la cura è portata fuori dalla persona. Il soggetto è messo sempre più tra parentesi nella considerazione dei valori. Forse con questa terza domanda siamo arrivati nel nodo centrale della questione: quale è il valore, la misura della dignità di ogni persona umana? Esiste o non esiste un primato dell’essere sull’avere, della persona sulle cose? L’altro è “concorrente” al proprio benessere o fratello con cui condividerlo? (cf. Evangelium Vitae 98).
Che questo sia il vero nodo di tutta la problematica lo si trova confermato da due fatti che ci aiutano a capire ancora più profondamente quanto ho detto finora sullo scontro degli umanesimi al Cairo.
Il primo fatto: È ovvio che la base di ogni diritto della persona è il diritto alla vita. Non che questo sia il più importante: è il primo perché fonda tutti gli altri. per verificare quindi se una cultura afferma o non afferma l’indisponibilità della persona nel senso già spiegato, la via più semplice è verificare se afferma o nega l’assoluta intangibilità del diritto alla vita. La diagnosi che l’Enciclica Evangelium Vitae fa al riguardo è spaventosa.
Il secondo fatto. Se facciamo attenzione alle varie proposte-programmazione di “ottimizzazione dello stato del mondo”, non è difficile scorgere in esse l’assenza della razionalità propriamente etica, espulsa da una razionalità esclusivamente tecnica. Si esclude, quasi a priori, la domanda se il mondo migliore non sia quel mondo che risulta come conseguenza della rettitudine, della bontà dell’agire umano. Si esclude dal prendere in esame che lo stato migliore del mondo è quello che si caratterizza per l’esistenza di uomini giusti. Uno stato del mondo in cui un beneficio di molti viene raggiunto attraverso l’ingiustizia verso anche uno solo, non è un buon stato del mondo: come se si ottenesse la sconfitta del cancro sacrificando anche un solo uomo come oggetto di sperimentazione.
Spero di avere chiarito sufficientemente quale era, in sostanza, la vera materia del contendere al Cairo: era l’uomo, la verità del suo bene, la misura della sua dignità.
2. Integrazione al secondo punto «I problemi principali», nel quale si parla della differenza sessuale tra uomo e donna.
Se si nega che i due dati, i due fatti che costituiscono la sessualità umana abbiano un senso in se stessi e per se stessi, si è già svuotata la definizione stessa di matrimonio. Vorrei fermarmi ancora un poco su questo fondamentale punto.
I due fatti di cui parlavo sono i seguenti: • essere uomo ed essere donna è diverso (e oggi più di ieri conosciamo le strutture di questa diversità); • la sessualità umana anatomicamente, fisiologicamente è orientata alla procreazione. Lasciamo per un momento il secondo fatto, consideriamo il primo.
Nei suoi confronti possiamo farci una domanda: la diversità dell’essere uomo/dell’essere donna ha in sé e per sé un senso? Vorrei aiutarvi a cogliere la portata di questa domanda con un esempio. Noi ci poniamo di fronte alla Pietà di Michelangelo con un’attitudine completamente diversa da quella con cui ci poniamo di fronte ad un qualsiasi blocco di marmo, pur sapendo che la loro composizione chimica è la stessa. Perché? Perché vediamo nel marmo (che è la Pietà) “qualcosa” che merita di essere interpretato, compreso, ammirato e goduto. Un “qualcosa” che non vediamo nell’altro blocco di marmo. Di conseguenza quest’ultimo è completamente a nostra disposizione, nel senso che di esso possiamo fare tutto ciò che si può fare col marmo. La Pietà non è disponibile a qualsiasi… uso. Il fatto che qualcuno abbia cercato di distruggerla è stato giudicato una pazzia.
Ora dovrebbe essere chiaro che cosa significa quella domanda. Se ad essa rispondo: ha un senso, tutta l’attitudine verso la propria femminilità/mascolinità è di ricerca di questo senso, di rispetto di esso una volta scoperto, di realizzazione di esso attraverso una libertà che lo riconosce come bene. Se ad essa rispondo: non ha senso, tutta l’attitudine è diversa. Del proprio essere donna/essere uomo posso fare ciò che voglio nel senso radicale di stabilirne io stesso la verità.
Vorrei ancora una volta richiamare la vostra attenzione sul fatto che non stiamo parlando di problemi delle singole persone. Stiamo parlando della dimensione politica che assume l’interpretazione che si da’ alla sessualità. La negazione di un senso alla diversità sessuale genera la distruzione giuridica del matrimonio.
|