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Comitato "Cardinale Carlo Caffarra"


L’insostituibilità della famiglia
Aosta, 1990


Signore e Signori,

consentitemi di dare inizio alla mia riflessione con una semplice considerazione sul concetto di “sostituibilità”/“insostituibilità“.

Immediatamente esso connota la proprietà di una cosa o di una persona di prendere il posto di un’altra. Tralasciamo il caso di quando si tratta di una cosa, per limitarci solo alle persone. Constatiamo che esistono almeno due situazioni nelle quali normalmente una persona può essere sostituita da un’altra: due situazioni di sostituibilità.

Prima situazione. Al momento di dare inizio allo svolgimento di un servizio pubblico — il trasporto urbano, per esempio — chi è chiamato a svolgerlo non si presenta al lavoro. Dovendosi comunque assicurare quel servizio, chi ne è responsabile sostituisce chi non si è presentato al lavoro con un collega. La possibilità di questa sostituzione è data dal puro e semplice fatto che la presenza della persona è essenzialmente funzionale: è in funzione, in ordine a una determinata prestazione (la guida del mezzo pubblico). A chi sostituisce è richiesto semplicemente la capacità di offrire quella stessa prestazione.

Seconda situazione. Essa è un po’ più complessa e difficile da descrivere. Chi ha studiato in qualche facoltà scientifica ha vissuto certamente quest’esperienza. Si vuole studiare al microscopio ottico qualcosa: un tessuto, una cellula. Ci si mette in fila e l’uno dopo l’altro ci si mette a guardare sul microscopio e alla fine si descrive ciò che si è visto. Normalmente la descrizione fatta da uno non differisce da quella fatta da un altro osservatore. Se ciò avvenisse, normalmente si controlla lo strumento, per verificare se era ben a fuoco; si ripete la stessa operazione dell’osservare, fino a risultato comune.

Questa descrizione ci fa capire alcune verità di importanza capitale per tutta la nostra riflessione seguente. È assolutamente indifferente l’irripetibile identità personale di ogni persona che guarda nel microscopio, in ordine al risultato che si vuole raggiungere: la descrizione del tessuto o della cellula. È indifferente che sia italiano o cinese, giovane 0 vecchio, uomo o donna, credente o ateo e così via. Appunto: ciascuno in questa operazione, può “sostituire” ciascuno. Si sarà notato che abbiamo descritto la caratteristica fondamentale del sapere scientifico, la sua “oggettività”. È, cioè, un sapere che mette completamente fra parentesi la persona dello scienziato.

Le due situazioni ci hanno, in fondo, portato alle stesse conclusioni. Mentre qualcosa può sempre sostituire qualcosa, qualcuno non può mai sostituire qualcuno, in questo senso: solo se riduco la persona alla sua funzione (prima situazione) e/o se la riduco al suo rapporto con le cose osservabili (seconda situazione). In una parola: quando considero la persona in sé e nella sua irripetibile identità — essa è insostituibile. Fatta questa semplice premessa, vorrei ora scandire la mia riflessione in tre tempi, corrispondenti a tre domande:

1. La famiglia e sostituibile o è insostituibile?

2. Ci sono tentativi-proposte di sostituzione della famiglia, oggi?

3. Come devono essere giudicati questi tentativi-proposte?

 

1. Prima domanda: la famiglia è sostituibile?

Dobbiamo fin dall’inizio dire di che cosa parlo, quando parlo di famiglia: accettate questa descrizione, per il momento, come semplice necessario punto di partenza, che nel seguito dovrà essere criticamente giustificato.

La famiglia si radica in una comunità umana che la precede e di cui vive: la comunità coniugale. Devo, allora, partire da una breve ed essenziale riflessione sulla comunità coniugale.

Ciò che caratterizza, da un punto di vista etico, la comunità coniugale è ciò che potremmo chiamare, precisamente, l’insostituibilità delle due persone che la compongono. Certamente, come ogni società umana, anche quella coniugale si costituisce e si regge su una relazione di carattere spirituale: si ha la percezione della singolare preziosità del valore inapprezzabile dell’altro. Un atto di amore: la singolare preziosità ed il valore inapprezzabile dell’altro è tale da meritare, come unica risposta adeguata, il dono totale di se stesso. Ma si noti bene: ciò che è percepito spiritualmente — nell’atto che fonda la comunità coniugale — non è la singolare bellezza e il valore inapprezzabile della persona dell’altro in quanto genericamente persona umana, ma in quanto questa. C’è qualcosa di assolutamente unico nella irripetibile singolarità dell’altro: di così unico da esigere l’esclusività del dono di sé. Le parole che sono al centro della celebrazione liturgica del Matrimonio, “Io… prendo te... come mia sposa” / “Io... prendo te ... come mio sposo”, indicano questa verità propria della società coniugale. Anche da questo punto di vista, l’introduzione del divorzio, la legittimazione cioè della dissoluzione del vincolo coniugale, appare come la negazione pura e semplice della verità della comunione coniugale: la sposa è sostituibile da un’altra; lo sposo è sostituibile da un altro. In linea di principio, al tuo posto può esserci anche un altro/a.

A) La società coniugale diviene società familiare quando, come è noto, i due sposi decidono che il loro amore coniugale diventi il luogo in cui una nuova persona umana possa entrare nell’esistenza.

È importante comprendere il rapporto singolare che esiste, la connessione, fra amore coniugale e dono della vita. Se non si comprende questa connessione, ogni tentativo di sostituire la famiglia è già in linea di principio, giustificato. Si tratta di una connessione complessa, perché reciproca: l’amore coniugale è inseparabile dal dono della vita; il dono della vita è inseparabile dall’amore coniugale. Prima di trattare brevemente di questa reciproca connessione, è necessario, però, premettere una breve riflessione sul concetto stesso di connessione.

Ogni giorno più ci rendiamo conto che l’universo dell’essere, nel quale siamo posti, non è un caos, ma un Cosmo: è presente cioè in esso un ordine interno in forza del quale ogni fenomeno è connesso e correlato con l’altro e interdipendente. La ossigenazione, di cui ogni essere vivente ha assolutamente bisogno, dipende dalla qualità della biosfera, così come i vertici più sublimi della vita spirituale sono condizionati da ciò che avviene bio-chimicamente nella nostra corteccia cerebrale. A un osservatore, tuttavia, più attento appare subito che esistono due tipi di connessioni o correlazioni, profondamente diversi fra loro.

Primo tipo di connessione. La vita è certamente connessa con la ossigenazione e questa connessione è assicurata dalla nostra respirazione. Ma è a tutti ben noto che questa funzione può benissimo, e in alcuni casi deve essere sostituita artificialmente. Chiamo questa connessione, e tutte le altre dello stesso tipo, semplici connessioni di fatto. Esse, cioè, non sono tali da non potere in qualche modo essere rotte, sia pure a precise condizioni.

Secondo tipo di connessione. L’atto di fede è certamente un atto di libertà: esiste, cioè, una connessione fra l’atto del credere, che in sé e per sé, è un atto di intelligenza, poiché consiste in un assenso, e l’atto di libertà, che è un atto di decisione, di volontà. Ma si tratta di una connessione completamente diversa da quella precedente. Non potrà mai esistere una situazione in cui l’atto di fede possa essere non un atto libero; non esiste una situazione in cui l’atto di fede possa essere sconnesso dall’esercizio della libertà. Dire “atto di fede non libero” ha lo stesso senso che dire “circolo quadrato“: cioè non ne ha nessuno. Chiamo questo tipo di connessioni, connessioni di diritto. Esse, cioè, hanno in sé un tale valore, sono di una tale preziosità che non devono mai, per nessuna ragione al mondo, essere rotte.

A quale di questi due tipi di connessione appartiene la reciproca connessione fra amore coniugale e dono della vita? Personalmente sono profondamente convinto che appartenga al secondo. Sia per ragioni di brevità, sia perché è questo l’aspetto che entra più direttamente nel nostro argomento, mi limiterò a mostrarvi la connessione di diritto del dono della vita, coll’atto dell’amore coniugale.

Penso che una delle acquisizioni teoretiche culturalmente più feconde che abbiamo ereditato dalla filosofia greca, sia stata la distinzione, elaborata compiutamente per la prima volta da Aristotele nel libro sesto dell’Etica Nicomachea, fra l’agire e il fare. Aristotele vide per primo molto chiaramente che esistono due modi fondamentali di mettere in esecuzione i nostri dinamismi operativi. Il primo modo è costituito dall’agire: esso è un’attività che non si propone alcun fine all’infuori di se stessa; essa rimane, pertanto, nel soggetto; essa porta a perfezione il soggetto. Il secondo modo è costituito dal fare: esso è un’attività che si propone qualcosa di diverso da se stessa, un prodotto; esso esce dal soggetto operante, poiché consiste nella manipolazione di una materia preesistente; esso, pertanto, non perfeziona il soggetto operante, ma il mondo circostante.

Tenuta presente questa distinzione, non facciamo fatica a vedere che l’atto dell’amore coniugale appartiene all’agire e non al fare. Esso (atto), infatti, non si propone altro che se stesso e non ha bisogno di giustificazioni estrinseche: esso vale in se e per se stesso; è un atto che fa essere più persona la persona che lo compie: è perfezione della persona.

Un grande mistico della Chiesa cattolica ha espresso mirabilmente questa verità scrivendo: “Amor per se sufficit; is per se placet et propter se... Amor praeter se non requirit causam… Amo quia amo; amo ut amem».

Ma c’è un aspetto molto importante su cui vorrei attirare la vostra attenzione. Il fare, a diversità dell’agire, avendo sempre come suo effetto un prodotto, istituisce necessariamente un rapporto di dipendenza del prodotto dal produttore. Non solo, come è ovvio, nel farsi del processo produttivo, ma anche prima, poiché la materia è manipolata secondo un preciso progetto pensato dal produttore, ma anche dopo, a produzione terminata, poiché il produttore ha diritto di pronunciare un giudizio sulla riuscita del prodotto in base al progetto di produzione.

Proviamo ora ad ipotizzare che l’attività ponente le condizioni per il concepimento di una nuova persona umana non sia un atto di amore coniugale, ma una produzione, come è il caso della fecondazione artificiale anche nella sua forma più semplice. Si ha una materia preesistente, i due gameti a disposizione del tecnico. Essi sono manipolati secondo un progetto preciso, cioè un protocollo. A risultato ottenuto, si formula un giudizio sul prodotto ottenuto. Si ha cioè la produzione di una persona, resa possibile dal fatto che il dono della vita (ma si può ancora parlare di dono?) è stato sconnesso dall’atto dell’amore coniugale.

La fecondazione artificiale ha mostrato, per contrarium, che la connessione del dono della vita coll’atto dell’amore coniugale è una connessione di diritto: essa ha in sé una tale preziosità che non può mai essere spezzata, pena la degradazione etica — l’unica tragica degradazione — della persona concepita a prodotto.

B) La società coniugale diviene società familiare originariamente nell’atto del donare la vita. Ma essa si esprime nell’opera dell’educazione che è una continuata generazione. Vorrei ora riflettere brevemente su questa seconda dimensione del nostro problema.

Consentitemi ancora una volta di introdurmi in esso con alcune brevi, ma importanti, premesse.

La prima. Esistono due tipi di verità. Chiamo le prime verità puramente formali; chiamo le seconde verità esistenziali.

Le prime sono conoscenze il cui contenuto non ha alcuna rilevanza per il nostro destino personale, per la nostra esistenza in senso forte. Fino a Copernico, l’umanità ha pensato, senza ombra di dubbio, che fosse il sole a girare attorno alla terra; ora sappiamo che l’umanità era nell’errore. Ma tutti vediamo facilmente che il fatto che abbia ragione Copernico e non Tolomeo non aiuta per niente l’uomo a rispondere a domande come queste: che senso ha la vita? siamo venuti all’essere e ci rimaniamo per caso? è meglio subire l’ingiustizia che compierla? La verità scoperta da Copernico è una verità puramente formale. Essa non ha alcun appello da rivolgere alla nostra libertà.

Le verità esistenziali sono profondamente diverse. Da esse dipende il senso stesso della nostra esistenza. Esse non si accontentano di essere conosciute, ma esigono di essere vissute. Esse non ammettono di essere discusse, ma solo accettate o rifiutate. La mia esistenza cambia completamente a seconda che sia vero che essa è un evento puramente casuale oppure no; a seconda che sia vero che è meglio subire l’ingiustizia piuttosto che compierla e che sia vero il contrario.

La seconda premessa, prima di ritornare al nostro problema della educazione, è una conseguenza della prima. La comunicazione delle verità puramente formali può essere, anzi normalmente è una comunicazione diretta, mentre la comunicazione delle verità esistenziali non può essere diretta, ma solo indiretta. Mi spiego.

Perché un discepolo possa apprendere una verità formale è sufficiente che il maestro conosca bene la verità da insegnare e guidi con attenzione il discepolo a compiere precise operazioni intellettuali, alla fine delle quali questi non potrà non assentire alla verità conosciuta. In questa comunicazione, uno strumento può perfino sostituire una persona: non si imparano forse le lingue anche dalle cassette? Ho descritto la comunicazione diretta.

Ben diversa è la comunicazione indiretta. Che il maestro e/o il discepolo siano persone oneste non ha molta rilevanza per comunicare la verità del teorema di Pitagora. La situazione cambia completamente se si tratta di insegnare che non si deve rubare. San Tommaso dice profondamente che se vuoi sapere se questo atto è casto, chiedilo alla persona casta più che al professore di morale. Non si da’ comunicazione diretta delle verità esistenziali, ma solo indiretta, cioè attraverso la testimonianza. Alla fine della sua auto-difesa, Socrate dice ai suoi giudici: “sono sicuro di non avervi convinto della mia innocenza, perché non abbiamo mai vissuto assieme”.

Possiamo ora ritornare al nostro problema dell’educazione. L’opera educativa non può ridursi alla comunicazione (diretta) di una istruzione. Essa — e questo è vero in grado eminente per la prima età — è una formazione dell’umanità della persona, fatta in primo luogo attraverso e all’interno di una comunicazione di vita. San Tommaso fa al riguardo una riflessione semplice e profonda. Egli si chiede se è lecito battezzare un bambino contro la volontà dei genitori. La sua risposta è negativa. Importante è la ragione che viene data. Come la persona umana ha bisogno di un utero fisico per essere concepita e per entrare nell’esistenza, così ha bisogno di un “utero spirituale” nel quale essere nutrito dal punto di vista umano. La surrogazione dell’utero fisico è connessa colla surrogazione dell’utero spirituale.

Concludo il primo punto della mia riflessione. Ci siamo chiesti: la famiglia è sostituibile? Una riflessione attenta ci porta ad una risposta negativa, che riesprimo in maniera sintetica.

La famiglia è insostituibile in quanto luogo in cui la persona umana entra nell’esistenza; in quanto luogo in cui la persona è educata. Questa duplice insostituibilità è fondata sul fatto che sostituire la famiglia dal primo punto di vista equivale a far entrare la persona nell’esistenza in un modo non adeguato alla sua dignità. Sostituire la famiglia dal secondo punto di vista equivale alla riduzione dell’educazione ad un’opera di informazione.

 

Seconda domanda: quali sono oggi i tentativi di sostituire la famiglia?

La risposta a questa seconda domanda era già implicita nella prima risposta. Merita tuttavia di essere maggiormente esplicitata.

A) Il primo tentativo riguarda la radice stessa della famiglia, cioè il matrimonio: il tentativo di radicare la famiglia in qualcosa di diverso che il matrimonio. C’è stata una logica sequela nei vari momenti che scandiscono questa sostituzione.

Essi sono stati tre: legittimazione del divorzio; proposta di equiparare le libere convivenze al matrimonio; riconoscimento di uno statuto parentale alla coppia omosessuale. I tre fatti sono certamente ben diversi l’uno dall’altro; essi, tuttavia, si collocano nella stessa linea di una cultura della sostituzione.

Come ho già detto, ciò che caratterizza la comunità coniugale, distinguendola da qualsiasi altra comunità umana, è che essa costituisce una relazione interpersonale nella quale l’altro/a è scelto/a, è voluto/a non in quanto uomo/in quanto donna, ma in quanto è questo uomo/questa donna. Si ha qui un evento mirabile e misterioso: l’evento di una visione totalizzante-integrante. Mi spiego.

Ciascuna persona umana sussiste in una pluralità di dimensioni. È persona-uomo persona-donna: dimensione biologica; è questa particolare persona: dimensione personale. La visione dell’altro che dà origine alla decisione di sposarsi è una visione totalizzante: nell’altro è vista la sua mascolinità/femminilità, all’interno di una reciproca attrazione che non è solo biologica, ma anche psicologica e spirituale; non solo, ma si vede e si resta spiritualmente rapiti dal fatto che mascolinità/femminilità si trovino e dal come si trovino realizzati in questa donna/in questo uomo; al punto tale che non si vorrebbe cambiare questo uomo/questa donna con nessun altro/a, né ora (esclusività dell’amore coniugale), né mai (indissolubilità dell’amore coniugale). C’è, dunque, una duplice dimensione nell’amore coniugale: la dimensione biologica e la dimensione spirituale; esse sono vissute integrate, non separate, l’una dall’altra. Ritorniamo ora a riflettere sui tre tentativi sopra richiamati. Non si esclude più in via di principio che tu in seguito possa essere sostituito/a con un altro/a: l’amore coniugale è per principio dissolubile; non si esclude che tu possa essere in qualunque momento sostituito/a con un altro/a: l’amore coniugale è equiparato a una convivenza sempre solubile; si esclude che la determinazione sessuale sia costitutiva della persona: convivenze omosessuali. La logica interna è sempre la stessa: il matrimonio è qualcosa di sostituibile.

B) Il secondo tentativo è costituito dalla legittimazione dei procedimenti procreativi artificiali o dalla artificializzazione della procreazione. Nel caso più semplice è già implicata logicamente tutta la sequela delle successive operazioni artificializzanti.

Si è cominciato col dare un figlio a una coppia legittimamente sposata ed esistono ancora oggi — nonostante l’esplicito insegnamento della Santa Sede — teologi cattolici che ritengono questo lecito. Ma guardiamo le cose più in profondità. Chi pone le condizioni del concepimento non sono più i coniugi, ma il tecnico. I coniugi si limitano ad offrire il materiale genetico che, debitamente trattato, può dare origine ad una nuova vita umana. Essi, dunque, intervengono non in quanto sono questo uomo/questa donna, non in quanto questo uomo e questa donna sono sposi, ma semplicemente in quanto uomo-in quanto donna: in quanto cioè capaci di offrire i gameti.

Scesi a questo livello, non si vede più perché qualche altro/a non possa prendere il loro posto; infatti, in quanto capaci di offrire gameti, ciascuno/a può sostituire ciascuno/a. E, pertanto, si inizia così la sequela delle sostituzioni, di cui siamo stati testimoni: donazione di gameti; affitto di utero.

C) Il terzo tentativo è costituito dalla progressiva surrogazione della famiglia in quanto soggetto educativo. È questo un fatto assai complesso dai molteplici aspetti: politico, giuridico, economico, sociale. Mi limito, secondo la prospettiva della presente riflessione, all’aspetto etico del problema.

Se il matrimonio è sostituibile, se l’atto dell’amore coniugale come atto procreativo è sostituibile, non si vede perché non possa essere sostituito anche il soggetto educativo. Se, infatti, la persona umana è sradicata, o meglio: se si afferma che, almeno in linea di principio, è legittimo sradicare la persona umana dal terreno di quei rapporti nei quali essa è voluta in sé e per se stessa, nella sua irripetibile singolarità, non si vede più perché la crescita, l’educazione di questa persona non possa accadere anche fuori della famiglia.

Si può vedere questo terzo tentativo anche da un altro punto di vista. Se l’educazione consiste esclusivamente o principalmente nella informazione comunicazione diretta di verità puramente formali, il rapporto educatore-educando scivola progressivamente verso una relazione nella quale il “chi è” dell’educatore e dell’educando diventa sempre più secondario. È un rapporto sempre più “funzionale”: sono nel rapporto educativo in funzione di...

 

3. Terza domanda: come giudicare questi tentativi?

Vorrei ora tentare un giudizio valutativo su questa situazione, partendo semplicemente dalla prima situazione di sostituzione, dalla quale ha preso avvio la mia riflessione.

Perché un autista del metro che non si presenta al lavoro, può essere sostituito? La risposta è semplice: perché si tratta di sostituire una persona in ragione e in ordine a una funzione. Non, dunque, in realtà, è qui la persona come tale che è sostituita, ma la persona considerata “in funzione di…”. Al punto che esistono già i “piloti automatici”: è così irrilevante la persona, in questa considerazione, che può essere sostituita perfino da una macchina.

L’esempio dona molta materia di riflessione. La progressiva affermazione della sostituibilità della persona è il segno più evidente forse di un tragico evento spirituale che è accaduto nella nostra cultura occidentale: la perdita del senso della dignità, della preziosità di ogni persona umana, nella sua singolare e irripetibile unicità. Di fronte ad ogni persona non siamo più capaci di esclamare semplicemente: “come è bello che tu esista!” ma solamente e principalmente: “come mi è utile che tu esista!” / “come mi piace che tu esista!”

Come è potuto accadere questo tragico evento che sta corrompendo, come mortale metastasi, tutto il corpo delle nostre relazioni umane? Vorrei rispondere per gradi a questa difficile domanda.

In primo luogo, vorrei attirare la vostra attenzione su un punto fondamentale. Se l’esistenza della persona comincia, continua e finisce totalmente, esclusivamente dentro al tempo, dentro la storia di questo mondo, parlare di un valore assoluto di ogni singola persona e, dunque, della sua insostituibilità, non ha più nessun senso. Se, infatti, il fine ultimo, il bene supremo della nostra persona è proporzionato a ciò che noi facciamo in questo mondo e per questo mondo, al segno che di noi lasciamo nella storia che viviamo, la persona vale nella misura in cui valgono le conseguenze del suo agire. Vale non perché è, ma per ciò che fa. Un pilota vale nella misura della sua abilità di guidare l’aereo. L’atto della persona non ha in sé e per sé un suo intrinseco valore, ma sono le conseguenze del suo atto che hanno o non hanno valore.

Consentitemi ora di esemplificare ciò che sto dicendo, chiedendovi un piccolo sforzo di immaginazione. Immaginiamo di trovarci in mezzo al popolo ebreo subito dopo la sua fuga dall’Egitto e prima di passare il Mar Rosso. Dunque: davanti a loro sta il mare, barriera invalicabile; alle loro spalle sta il Faraone col suo esercito; al centro, uomini in cerca di libertà, di dignità. Quali scelte sono possibili per essi? Se è vero ciò che abbiamo detto poc’anzi (l’esistenza umana è esclusivamente temporale-storica), solamente tre: tentare di attraversare il mare a piedi; affrontare in battaglia il Faraone; arrendersi e ritornare in Egitto. La prima è semplicemente folle: le conseguenze, infatti, sono prevedibili; non meno folle è la seconda: le conseguenze di essa sono ugualmente prevedibili; la terza è la più ragionevole, ma ha come conseguenza il ritorno alla schiavitù. Dal punto di vista storico, questa terza è l’unica percorribile, poiché — e questo è terribile — da questo punto di vista, alla fine, meglio schiavi che morti. Ma, in mezzo a questo popolo, c’è un uomo, Mosè, che si è elevato al di sopra di questo punto di vista: egli ha visto la Gloria di Dio e perciò sa che esiste una quarta alternativa: porsi in rapporto con Dio e null’altro che questo. E il fatto che quel popolo abbia accettato di percorrere questa quarta via, ha consentito allo stesso di riscoprire la sua dignità.

Esistono così due punti di vista sull’uomo. Un punto di vista storico: in esso non è vero che ogni e singola persona sia di un valore insostituibile; dal punto di vista eterno: in esso è vero che ogni e singola persona è di un valore insostituibile.

Abbiamo così individuato il secondo e più importante momento della nostra risposta: ogni persona diventa sostituibile, perde cioè di valore assoluto ed incondizionato, quando si nega che ogni persona comincia a esistere per un atto creativo di Dio, continua a esistere perché collocata in un rapporto di totale dipendenza da Dio, finisce la sua storia non dentro la storia, ma nell’eternità. Il tentativo di costruire un umanesimo ateo di fatto — non dico: necessariamente negando, ma semplicemente: prescindendo da Dio — sulla base di valori comunemente accettati e ritenuti tali perché e fino a quando sono comunemente accettati, non può non fallire tragicamente. Esso è da paragonarsi ad una cucitrice che cuce, ma si è dimenticata di fare un nodo alla fine del filo: continuerà a cucire, senza cucire.

Non ci siamo allontanati dal nostro tema. Al contrario, ne abbiamo finalmente colto le implicazioni più profonde.

Nell’esperienza umana quotidiana, quella dell’uomo comune, che cosa c’è di più evidente che queste affermazioni: “non scambierei mia moglie con nessun’altra donna al mondo”; “il bambino che è nato dal nostro amore è stato un dono che ci è affidato e non è nostra proprietà”? Eppure, queste evidenze si sono oscurate, poiché ciascuno è ritenuto sostituibile da ciascuno, dal momento che ciascuno è divenuto “uno, nessuno, centomila”. Quando l’evidenza si oscura, qualcosa di serio è accaduto nel nostro spirito. È precisamente finito il “caso serio” dell’esistenza: il rapporto di ciascuno coll’Eterno, dal quale ciascuno ha ricevuto un nome diverso da quello di tutti gli altri.

 

Conclusione

Esiste nella Bibbia una pagina di singolare attualità nella sua semplice e straordinaria bellezza: solo Pascal in una sua pagina famosa è stato capace di riecheggiarla in un modo degno. È il salmo 8. Esso dice: «Se guardo il tuo cielo, opera delle tue dita, la luna e le stelle che Tu hai fissate, che cosa è l’uomo perché te ne ricordi, e il figlio dell’uomo perché te ne curi?» Il poeta confronta l’uomo con la vastità sconfinata del cosmo: e da questo confronto l’uomo esce soccombente.

Tuttavia, c’è qualcosa di unico nell’uomo: egli è “ricordato” da Dio; egli è oggetto della sua cura. E, pertanto, il poeta può continuare dicendo: «Eppure di gloria e di onore lo hai coronato». Dal punto di vista di Dio, l’uomo risplende di una dignità infinita, poiché il bene di tutto l’universo non può essere neppure paragonato al bene che è in una sola persona umana.

Esistono così due punti di vista sull’uomo. Ciò che è vero dal punto di vista storico (ciascuno può sostituire ciascuno) è falso dal punto di vista eterno; ciò che è vero dal punto di vista eterno (ciascuno è insostituibile), è falso dal punto di vista storico.

Ma quale, alla fine, è il punto di vista vero? La risposta a questa verità esistenziale, non solo formale, appartiene alla libertà di ciascuno di noi. E questo è il “caso serio” della vita.