Incontro con i sacerdoti alla "Tre giorni del Clero"
Rimini, 10 gennaio 2007
1. Miei cari fratelli nel sacerdozio, la Chiesa ci fa leggere e meditare durante queste settimane nella celebrazione eucaristica la lettera agli Ebrei. Un libro di cui noi sacerdoti dovremmo avere una particolare venerazione. Esso è l’unico testo neotestamentario in cui l’evento cristologico è pensato in chiave sacerdotale: una lettura interpretativa del medesimo che suscita particolare risonanza nel nostro cuore.
Vorrei dunque manifestarvi semplicemente alcune di queste risonanze perché condividendole con voi, diventino impasto della nostra esistenza sacerdotale.
La pericope che la Chiesa propone oggi alla nostra meditazione ci introduce nell’avvenimento cristologico attraverso due percorsi. È visto come attraversato da due "logiche" inscindibilmente connesse: la logica della solidarietà; la logica della fedeltà. La prima disegna la figura del rapporto di Cristo con l’uomo; la seconda la sua collocazione in rapporto a Dio.
La "solidarietà" di cui si parla denota una condivisione ed una partecipazione "al sangue e alla carne" di cui sono fatti gli uomini. È una condivisione ed una partecipazione della condizione umana che giunge fino alla morte: "per ridurre all’impotenza mediante la morte colui che della morte ha il potere, cioè il diavolo, e liberare così quelli che per timore della morte erano soggetti a schiavitù per tutta la vita".
Questa "solidarietà" assolutamente unica ed incomparabile con tutto ciò che il termine connota nei rapporti umani, è esigita — "doveva rendersi in tutto simile ai fratelli" — dalla misericordia di cui l’uomo ha bisogno di fare esperienza quando si avvicina al Mistero. Il Mistero doveva compenetrarsi completamente di com-passione nei confronti dell’uomo perché questi potesse avvicinarvisi senza paura. Doveva condividere realmente il destino di chi era schiavo della paura della morte, di chi fra gli uomini era più umiliato ed oppresso, perché l’uomo sentisse che il Mistero si era legato a lui con tutte le fibre del suo essere, modellato e plasmato — "reso perfetto" — dall’umano soffrire.
Ma la parola di Dio questa sera ci rivela che l’avvenimento cristologico è percorso anche da una logica di "fedeltà" nelle cose che riguardano Dio, "allo scopo di espiare i peccati del popolo". Se la logica della solidarietà denota il rapporto del Redentore con l’uomo, quella della fedeltà la comunicazione del Redentore con Dio. Da sola la solidarietà piena di misericordia verso l’uomo non sarebbe sufficiente. Se il grande sacerdote non fosse in grado di intervenire presso Dio a favore dei suoi fratelli, la sua com-passione sarebbe sterile. Per essere realmente, veramente sacerdote è necessario essere accreditati presso il Signore. Il Cristo è ora posto in una relazione col Padre di tale natura che di Lui l’uomo può avere piena fiducia: "poiché … abbiamo un grande sommo sacerdote, che ha attraversato i cieli, Gesù, figlio di Dio, manteniamo ferma la professione della nostra fede" [4,14].
Ho parlato di due logiche. Ma esse alla fine si unificano: "infatti proprio per essere stato messo alla prova ed avere sofferto personalmente, è in grado di venire in aiuto a quelli che subiscono la prova". È in ragione del modo propriamente suo, unico, con cui Cristo ha condiviso la nostra sorte, che Egli è diventato capace di aiutarci. Non stiamo narrando l’applicazione eminente di una regola generale; non stiamo presentando l’esempio insuperabile di una legge universale dell’essere. Nessuno all’infuori di Cristo ha unito in sé la forma della solidarietà misericordiosa e della capacità di aiutare l’uomo a vincere il suo destino di morte, poiché solo lui è perfettamente uomo ed intimamente unito a Dio: "un sommo sacerdote misericordioso e fedele".
2. Miei cari fratelli nel sacerdozio, l’immersione nel mistero redentivo ci rende come incapaci — ad un certo momento — di continuare a parlarne. Mi sembrerebbe tuttavia di mancare al mio dovere di apostolo se non posassimo lo sguardo anche sulla nostra persona, nella luce abbagliante dell’avvenimento cristologico. Vorrei pertanto farlo con due ordini di considerazioni.
La prima. Il sacramento dell’Ordine ci ha inseriti ontologicamente in Cristo redentore dell’uomo. Non è qui il luogo di precisazioni teologiche eccessive. Siamo stati configurati a Chi nella solidarietà piena di misericordia e nella fedeltà "nelle cose che riguardano Dio" ha compiuto l’atto redentivo perfetto, di cui siamo ministri.
Non voglio che risuoni in questo momento nella nostra coscienza morale il comandamento: "imita ciò che tratti". Forse di esortazioni, norme, orientamenti ne abbiamo già sentiti tanti. E non riscaldano il cuore: ed è di questo che abbiamo bisogno prima di tutto, come i due discepoli di Emmaus. Ciò di cui abbiamo bisogno è di immergerci nel mistero redentivo che è Cristo; è che la nostra storia quotidiana sia plasmata da quel mistero. Tutto questo ha un nome: l’Eucarestia.
La seconda. Forse è chiesta a noi ministri della redenzione una condivisione della prova che sta vivendo l’uomo di oggi? Mi ha sempre donato grande materia di riflessione l’esperienza ultima di S. Teresa di Lisieux, la sua condivisione della grande prova della incredulità odierna e la sua offerta alla misericordia di Dio. È una linea di fuoco che attraversa tutta la Chiesa contemporanea: Teresa di Lisieux, Gemma Galgani, Pio da Pietrelcina, Luigi Orione, fino al grande mistero della sofferenza e dell’afasia finale di Giovanni Paolo II. Miei cari fratelli, non rifiutiamoci di sedere alla tavola dei peccatori. Quello è oggi il nostro posto.
La narrazione evangelica dice tutto con una plasticità ed una semplicità sorprendente: "La suocera di Simone era a letto … ed essa si mise a servirli".
Il Signore ci ha dato la forza — la potestas/dynamis — di accostarsi all’uomo, di sollevarlo per mano così che la febbre di un vagabondaggio privo di meta lo lasci, e ridiventi capace di servire, cioè di amare. Sì, poiché questa è salvezza dell’uomo, la capacità e la gioia di amare.
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