home
biografia
video
audio
english
español
français
Deutsch
polski
한 국 어
1976/90
1991/95
1996
1997
1998
1999
2000
2001
2002
2003
2004
2005
2006
2007
2008
2009
2010
2011
2012
2013
2014
2015
2016
2017
Comitato "Cardinale Carlo Caffarra"


Testo completo dell’intervento all’incontro "Scienza ed Etica"
nell’ambito della manifestazione "Cronobie. Cronache dal futuro della scienza"
7 ottobre 2005


Vorrei precisare subito in quale prospettiva intendo riflettere sul rapporto fra "scienza ed etica".

Almeno in prima battuta, comunque non è mia principale intenzione addentrarmi nella "casistica" del rapporto suddetto; affrontare cioè ambiti specifici di ricerca nei quali può avvenire il confronto o scontro fra scienza ed etica. La mia riflessione intende muoversi ad un livello più profondo, come spero sarà chiaro.

1. Parto dal secondo termine del confronto, il termine "etica", essendo quello che conosco meglio.

Quando si pronuncia questa parola oggi si pensa subito ad un insieme di regole di comportamento, nei confronti delle quali si pongono almeno due domande fondamentali: chi le istituisce? quale è il loro senso? il problema etico è il problema delle norme di comportamento.

Questa coincidenza è storicamente datata; né l’uomo ha sempre posto la domanda etica in quei termini; né personalmente penso che quella almeno sia la domanda etica fondamentale. Che cosa allora l’uomo chiede quando pone la domanda etica? Consentitemi di partire da una riflessione di carattere generale.

Esistono almeno due tipi di domande. Domande che chiedono di avere risposte che chiamerò meramente formali, e domande che chiedono di avere risposte che chiamerò esistenziali. Le prime sono risposte che non provocano in alcun modo la nostra libertà: rispondere alla domanda quale sia il fiume più lungo del mondo, non cambia per nulla le scelte della mia libertà, il mio modo di essere libero. E se chi interroga è pur sempre interessato alla risposta, altrimenti non farebbe la domanda, è in fondo indifferente al suo contenuto, indifferente a che gli si risponda in un modo o nell’altro.

La situazione è ben diversa quando si pongono domande per avere risposte che costituiscono una vera provocazione rivolta alla propria libertà. Quando Agostino scrive: "ero diventato a me stesso una grande domanda e una terra di grande sudore", pone una questione che costituisce la suprema provocazione della sua stessa libertà. Ed Agostino stesso nota che la libertà è così poco indifferente alla risposta a quella domanda, che non raramente impedisce alla verità di manifestarsi.

La riflessione agostiniana è importante perché ci aiuta a capire, ci porta a concludere che esiste una sola vera domanda che interessi ultimamente, supremamente l’uomo: la domanda su se stesso; la domanda circa la verità ed il senso del suo esserci. In una parola: circa la sua salvezza.

Quali sono i termini con cui si pone questa domanda? Il contesto in cui Agostino dice di essere diventato a se stesso una grande domanda è significativo: la morte di un amico. Non la morte in genere, notate bene, ma di un amico: di una persona amata. La più radicale contestazione, obiezione alla domanda di senso è il fatto che possa morire la persona amata. È l’uomo stesso che a quel punto è messo in questione, e con l’uomo l’intero universo dell’essere. Rispondere a questa domanda risolvendo tutto nel caso o nella necessità a me sembra una "scappatoia".

Volendo stringere al massimo, quale è allora la domanda etica nel suo nucleo essenziale? È la domanda circa la possibilità dell’uomo di vivere una vita degna di essere vissuta.

È la domanda formulata in Occidente per la prima volta col massimo rigore concettuale da Socrate: "non il vivere è da tenere in massimo conto, ma il vivere bene" [Critone, 48B]. La scriminante radicale non è fra il vivere e il morire, ma fra il vivere male/ il vivere bene.

I termini essenziali della domanda etica sono due; la domanda etica sussiste cioè in due problemi.

Il primo: esiste una divaricazione fra "vita degna" e "vita indegna" di essere vissuta. Se questa divaricazione non esistesse, la domanda etica sarebbe priva di senso. Al riguardo il problema primo implicato nella domanda etica è di sapere se questa "diremption" [divaricazione] ha un fondamento oggettivo oppure se essa è totalmente riconducibile alla decisione del singolo e/o della società umana. Esistono ragioni universalmente valide per discriminare una vita degna di essere vissuta da una vita indegna oppure esistono solo ragioni soggettivamente incomunicabili o esclusive al gruppo sociale cui si appartiene? In breve: esiste una verità circa il bene?

Il secondo: l’uomo ha la possibilità di rifiutarsi alla verità circa il bene, ed esperimenta una misteriosa debolezza quando intende realizzare nelle sue scelte libere la verità circa il bene. La salvezza dell’uomo dipende alla fine da questo: salvezza e perdizione di sé stesso convivono come possibilità in ogni scelta libera.

In maniera semplice e profonda, Ovidio aveva narrato la domanda etica nei suoi due termini essenziali quando scrisse: "video meliora proboque [=primo termine/verità sul bene] et deteriora sequor [=secondo termine/condizione della scelta]".

E le "regole", si chiederà qualcuno? Rispondo brevemente, per poter iniziare subito il confronto con l’altro termine, la "scienza".

La regola o norma è la forza che la verità circa il bene mediante il giudizio della coscienza esercita nei confronti della libertà. Nella coscienza sperimentiamo la forza normativa della verità.

Ma l’uomo non è una casa senza porte e senza finestre: vive con altre persone umane. La regola della vita associata è la forza normativa che esercita la verità circa il bene comune nei confronti della libertà di ogni associato.

Se così non fosse, se cioè non esistesse nessun [a verità circa un] bene comune, inevitabilmente il diritto, la norma non sarebbe alla fine che l’imposizione del più forte al più debole. Se non esiste la forza della giustizia, saremmo consegnati totalmente alla giustizia della forza; sarebbe bene ciò che semplicemente risulta storicamente vincente.

L’uomo ha un solo strumento a sua disposizione per sapere la verità circa il bene proprio e comune: la sua ragione. E la ricerca razionale, quando trattasi soprattutto del bene comune, non può non avvenire attraverso il dialogo.

Questa ricerca comune, questo sforzo argomentativo comune è la via attraverso la quale l’uomo giunge a conoscere la verità circa il bene. "Uno che rivela una convinzione su una data questione può aiutarmi – o io lui – a controllare una ragione sulla quale ho basato – oppure lui ha basato – la mia o sua convinzione, vedendola erroneamente nell’esperienza. Allora io, o l’altro, o anche entrambi nello stesso tempo, devo rigettare una convinzione finora professata: e ciò non solo per soddisfare una esigenza di verità, ma anche per poter restare me stesso. La controversia sulle ragioni delle convinzioni, quindi, non è mai una controversia tra rivali. Essa diviene luogo e occasione per scoprire l’altro come uno che "vuole la stessa cosa e non la vuole" ("Idem velle et nolle") così come io stesso: vuole la conoscenza della verità e la conferma di se stesso nella sua accettazione. Diviene un incontro tra alleati nella ricerca comune della verità che supera ugualmente tutti e due, e che è unica. La controversia sulla verità li lega poiché aiuta a oltrepassare se stessi nella sua direzione e pertanto diventare maggiormente se stessi". [T. Styczen, Essere se stessi è trascendere se stessi in K. Wojtyla, Persona e atto, ed. Rusconi Libri, Milano, 1999, pag.716]. S. Tommaso scrisse: "ad sciendam veritatem multum valet videre rationes contrariarum opinionum" [in I de coelo et mundo].

Fuori da questa prospettiva il "dialogo" o diventa un passatempo ipocrita oppure l’esercizio del potere per imporre il proprio punto di vista all’altro.

2. Vorrei ora iniziare il confronto con l’altro termine, "scienza", avendo detto che cosa intendo per "etica". È possibile un confronto? A quale livello? Oppure dobbiamo semplicemente limitarci al confronto/scontro circa la libertà/limiti morali della scienza? Vorrei uscire da questo restringimento di visuale. Il mio apporto vorrebbe essere precisamente questo.

Perché sia possibile un confronto serio, vero fra "scienza" ed "etica" è necessario cogliere due significati essenzialmente diversi dello stesso termine "esperienza".

Il primo si riferisce all’osservazione dei singoli esseri reali e all’induzione: è il significato con cui viene usato nel vocabolario scientifico.

Ma esiste un secondo significato, più difficile da spiegare. Se qualcuno dicesse: "non posso parlare dell’amore perché non ne ho mai avuto esperienza", qui il termine "esperienza" ha un significato completamente diverso da quello precedente. Non significa semplicemente conoscenza individuale di un fatto che accostate ad altre analoghe può dare origine a generalizzazioni. Significa che mi si è svelata/non svelata [nell’esempio fatto] nella sua essenza una determinata realtà: è l’intuizione intellettuale dell’essenza di una realtà. La lingua inglese chiama la prima esperienza: empirical observation, la seconda: such-being experience; più precisamente la lingua tedesca: daseinserfahrung-soseinserfahrung.

Ora la domanda cardine dalla cui risposta dipende il livello di dignità della nostra conoscenza, è precisamente se l’uomo è capace di esperienze del secondo tipo: esperienze che lo arricchiscono di una conoscenza della realtà diversa da quella raggiungibile colla semplice osservazione. Non solo, ma un confronto vero colla scienza è possibile solo se si risponde affermativamente a quella domanda.

Per quale ragione? Ed entro pienamente nel merito. Se la nostra conoscenza si limitasse esclusivamente al primo tipo di esperienza, e quindi ad un sapere puramente basato sull’osservazione empirica o sull’induzione, il sapere scientifico non avrebbe alcun soggetto di interlocuzione, risultando esso l’unico sapere possibile.

Qualcuno potrebbe dire: "tanto meglio così! La navigazione nel gran mare della vita è affidata solo alla scienza!". Il resto non ha valore veritativo, anche se continua a custodire la sua importanza per l’uomo.

In realtà però non è così. E nessuna persona umana può pensare in questo modo, poiché ciascuno di noi testimonia a se stesso che non ogni scelta della nostra libertà è di uguale valore; che ogni scelta della nostra libertà è legata da una verità circa il bene della propria persona e dell’altro, che non è a nostra disposizione; che è proprio in forza di questo legame costitutivo fra la libertà e la verità che l’uomo non è determinato nelle sue scelte dagli oggetti che gli si presentano a caso, ma piuttosto determina se stesso in accordo/ disaccordo con la verità.

Ma allora alla fine, che rapporto esiste fra scienza ed etica, oppure – che è la stessa domanda – fra la verità conosciuta dallo scienziato e la verità conosciuta dall’etico? È un rapporto di integrazione.

La verità è un bene della persona umana; conoscere la realtà è la risposta ad uno delle esigenze fondamentali della persona umana. Questo bene rientra in quell’universo dei beni umani mediante i quali la persona realizza se stessa.

Il bene umano che è la conoscenza scientifica, è un bene in sé e per sé, non in ragione delle applicazioni o dell’uso che si può fare eventualmente della conoscenza scientifica. Questo è un punto fondamentale.

Esistono beni strumentali e beni finali. Il valore dei primi dipende completamente dalla loro utilità, dalla loro capacità di farti raggiungere un altro bene: vale in quanto e nella misura in cui serve. Il valore dei secondi è insito nel bene stesso e non ha bisogno di giustificazioni strumentali. Dei primi si fa uso; dei secondi si gioisce. Tuttavia esistono dei beni finali che a causa della loro intima ricchezza hanno anche la possibilità di essere utilizzati. La cupola michelangiolesca è un bene (estetico) in sé e per sé ma impedisce anche che in S. Pietro piova dentro. La cupola non venne costruita per impedire che piovesse dentro a S Pietro: era molto più semplice costruire un tetto normale. Venne costruita perché in sé e per sé è degna di esserci, per la sua intima bellezza.

La scienza non è un bene strumentale; è un bene in sé e per sé. È questa la ragione più profonda della sua libertà. È la connessione costituiva colla verità che la rende "inutile" e quindi sommamente necessaria. Ma essa può anche essere utilizzata per altri scopi. Ora questa utilizzazione non rientra più nella bontà della scienza, ma dovrà essere rapportata alla verità circa il bene della persona da due punti di vista almeno. Dal punto di vista dello scopo: ciò che si vuole raggiungere è un bene veramente umano ed umanamente vero? Dal punto di vista del processo di utilizzazione: il procedimento mediante cui intendo raggiungere uno scopo è rispettoso della verità circa il bene della persona? In breve: quanto al suo oggetto, la conoscenza scientifica non confligge e non può confliggere coll'etica; quanto all'uso delle sue conoscenze ci può essere conflitto.

Concludo. Penso che ridare, restituire la sua vera dignità al sapere etico, liberandolo dalla sua riduzione al "sapere delle regole", sia oggi assai urgente per riportare dentro al dibattito razionale i grandi temi della vita – il senso ed il fine ultimo della nostra esistenza, l’intima fragilità del bene nei confronti del male, la via retta verso la beatitudine – e non lasciarli più relegati al mero "a me pare che …". Introdurli come questioni circa la verità del bene.

È questo un compito urgente, per essere liberati da quel razionalismo che si è illuso "che le domande circa il senso possano essere date da un pensiero e da una prassi meramente tecnologiche che hanno le spalle troppo fragili per sopportare da sole il peso di rispondere a tutti i problemi autenticamente umani" [Giorgio Israel, in Il Foglio (27 settembre 2005), pag. I]. È compito urgente ricuperare l’intera capacità della nostra ragione.