Incontro con i genitori dei Cresimandi
Bologna, 24 febbraio e 2 marzo 2008
Sono lieto di incontrarvi, carissimi genitori. È questa una occasione nella quale possiamo condividere, sia pure brevemente, le nostre speranze e preoccupazioni educative. Ho detto "nostre": la Chiesa e quindi il Vescovo portano con voi la responsabilità dell’educazione delle giovani generazioni.
Più che riflessioni teoriche, che pure sono oggi più che mai di urgente necessità, vorrei offrirvi una conversazione semplice e cordiale. Come se ciascuno di voi mi avesse invitato a casa sua per passare un po’ di tempo in amicizia.
1. Inizio da una affermazione basilare per il nostro compito educativo: l’educazione ha come principio e fondamento una limpida e forte testimonianza alla bellezza della vita.
Che cosa vuol dire rendere testimonianza alla bellezza della vita? Mettersi vicino ad una persona da poco entrata nel mondo, e dire: "non temere, ti guido io, perché ti assicuro che il tuo desiderio più grande – amare ed essere amato – è un desiderio ragionevole e ha risposta".
In fondo, all’inizio del vostro cammino nella vita con i vostri figli c’è stata una certezza che avete da subito condivisa con loro: la vita non è una … fregatura; la vita è sempre qualcosa di positivo. E quando avete visto per la prima volta vostro figlio, avete detto col cuore: "come è bello che tu ci sia!". Non si dona la vita se si è certi che essa è un cattivo destino.
Quando parlo di testimonianza limpida e forte alla bellezza della vita, intendo parlare di tutto questo; del fatto che è all’origine della vostra paternità e della vostra maternità.
Perché ho detto che questa testimonianza è il principio e il fondamento dell’educazione? Principio significa che se dovesse cessare nel cuore dei genitori la coscienza della positività della vita, l’educazione diventa non difficile ma impossibile. Fondamento significa che il rapporto educativo rimane robusto finché il genitore testimonia la speranza, e diventa fragile fino a spezzarsi se viene meno questa testimonianza. Perché le "cose" funzionano così? Ce lo ha spiegato molto bene il S. Padre Benedetto XVI nella sua Enciclica Spe salvi.
Che la vita sia piena di tribolazioni non sono necessari molti argomenti a dimostrarlo. Nel fondo di chi guarda alla vita con scetticismo c’è sempre un dolore grande, un tradimento subito, una delusione imprevista. Avere speranza non significa dire a se stessi: "andrà meglio in futuro!". La speranza non riguarda solo il nostro futuro. Essa non è la via di uscita dal presente brutto. Se così fosse, la speranza non ci farebbe vivere, ma evadere dalla vita, dal momento che l’unico tempo che esiste è il presente: il passato non esiste più, il futuro non esiste ancora né sapremo se esisterà.
Che cosa allora significa "avere speranza"? Vivere l’esperienza di un bene, intravisto già ora possibile; ricevere una "grazia" di cui già nel presente faccio esperienza, e che mi rende capace di sostenere tutto il peso della tribolazione. Una delle parole che il Nuovo Testamento usa per indicare la speranza è "upomenèin", che vuol dire "sostenere, portare e sopportare". La speranza fa già vivere meglio il presente.
Ma non è un discorso che ci fa gustare questa esperienza. È la testimonianza, cioè la vicinanza di una persona che ci rende viva e presente quella certezza.
Ritorniamo ora alla nostra riflessione. Quando il rapporto educativo si costituisce, si irrobustisce e permane nonostante tutte le inevitabili conflittualità fra genitori e figli? Quando il figlio sente – cioè capisce, valuta ed esperimenta – che la presenza del padre e della madre è il segno che la vita ha in se stessa e per se stessa, in ogni momento, una indistruttibile positività. Quando la Madre di Dio comparve a Guadalupe, disse al piccolo indio: "di che cosa hai paura? non sono qui io che sono tua madre?". Questo è il principio e il fondamento di ogni rapporto educativo.
Non vorrei che intendeste questo discorso nel senso di un estenuato sentimentalismo, riducendo il principio ed il fondamento dell’educazione ad …. una "pacca sulla spalla". La cosa è molto più seria: drammaticamente più seria. Si tratta di rendere evidente, sensibile, una forte affezione alla realtà e alla vita a causa della loro intrinseca positività. E questo non è facile né scontato.
2. Vorrei ora riflettere pacatamente con voi su ciò che può minacciare ed insidiare in noi educatori, in voi genitori, questa limpida e forte testimonianza alla bellezza della vita.
Non sono necessariamente quei fatti negativi, anzi non è il tasso di negatività che ogni vita deve pagare, a rendere impossibile ad una persona di affezionarsi alla vita medesima e quindi di testimoniare questa affezione. I fatti negativi, i grandi dolori, possono certo rendere più difficile la testimonianza. L’insidia è più profonda; si pone alle radici dell’esistere.
Sono costretto per un momento a lasciare il discorso sull’educazione per una riflessione più generale.
Molti di voi sicuramente ricordano come inizia il Vangelo di Giovanni: "In principio era il Logos, il Verbo". Inizia colla stessa parola anche l’intera Bibbia: "In principio Dio creò il cielo e la terra" [Gen 1,1]. Il confronto fra i due testi ci dona la risposta alla domanda più profonda che l’uomo possa porre. All’inizio, al "principio" che cosa c’è? C’è il Logos di Dio, il suo Pensiero: cielo e terra sono creati secondo Esso. E ciò che mosse il Creatore a dare origine a tutto ciò che esiste, è il suo Amore. Di questa convinzione si è nutrita la nostra tradizione ebraico-cristiana, che ha trovato perfino suggestive formulazioni proverbiali quali "non cade foglia che Dio non voglia". La realtà è ragionevole; la realtà è buona, perché è radicata nel Logos-Amore di Dio.
È l’attitudine propria di chi è consapevole che la realtà dipende da un Creatore sapiente e buono, che sostiene ogni sua creatura, ciascuna di esse, anche la più piccola, perché raggiunga la sua felicità, sia pure attraverso prove e sofferenze.
Questa risposta oggi si scontra con un’altra spiegazione radicale dell’intero universo, uomo compreso. Una spiegazione che sta entrando sempre più pervasivamente nella nostra vita. La potrei formulare così: "In principio era il Caso, che diede origine al cielo, alla terra, all’uomo". Tutto questo cambia completamente il volto della realtà. Essa non esprime più una intima ragionevolezza e bontà. È pura casualità, che quando consideriamo la vicenda umana chiamiamo "fortuna-sfortuna". L’uomo si sente come "gettato" nella vita da forze impersonali. Ci si può affezionare ad una realtà che mi si presenti con questo volto? Dante parla dell’Amor che muove il sole e l’altre stelle; oggi parliamo del caso e/o necessità che fa essere tutto ciò che è.
Ritorno al nostro discorso. Non è possibile nessuna educazione se chi educa non mette alla base l’ipotesi positiva che genera senso, poiché solo questa ipotesi positiva è capace di generare una profonda affezione alla vita. Non è possibile educare in questo senso, se si esclude in linea di principio la presenza di Dio nella vita. Chi educa, non può farlo se non vivendo almeno "come se Dio ci fosse".
Non sto parlando, come vedete, di "educazione religiosa" nel senso che comunemente si dà a questa espressione. Sto parlando di qualcosa di molto più profondo. Sto parlando dell’attitudine fondamentale con cui ci poniamo di fronte alla realtà, e mi chiedo se qualsiasi attitudine fondamentale nei suoi confronti sia ugualmente adatta a sostenere la fatica quotidiana dell’educazione. E vi ho detto che solo un’attitudine religiosa [non ho detto "cristiana"] è capace di generare una proposta educativa pienamente sensata.
3. Vorrei ora indicarvi brevemente che cosa può impedire in chi è educato di percepire questa testimonianza alla vita, di vederne il limpido splendore.
Inizio col dirvi che questo è il bisogno più profondo e più urgente nei nostri ragazzi, anche se non lo dicono. Anzi, normalmente per ragioni che ora non è il caso si approfondire, non sono più capaci di articolare questa richiesta con parole. Come infatti ce lo dicono? Con il loro rifugiarsi nell’universo virtuale; con la paura che hanno di affrontare il futuro; coll’incapacità di prendere decisioni definitive. E potrei continuare ancora coll’individuazione delle espressioni inarticolate del bisogno che sentono di affezionarsi alla realtà. Ma non è necessario.
In secondo luogo, non dobbiamo mai dimenticare che il cuore umano non è originariamente "neutrale" nei confronti di ciò che è, delle persone e delle cose. Esso è naturalmente inclinato ad amare ciò che è per la sua bontà. Questa inclinazione si chiama volontà.
Che cosa allora può rendere torbido l’occhio del cuore dei nostri ragazzi da impedir loro di vedere la realtà nella sua intima bellezza, fino al punto da diventare abulici? Penso che oggi questa sia la domanda fondamentale cui l’educatore è chiamato a rispondere.
Uomini grandi hanno cercato una risposta lungo tutta la storia dell’Occidente [Platone, Agostino, Tommaso, Cartesio, Newman, Rosmini, per fare solo i nomi più famosi]. Ma ovviamente non voglio fare un’analisi storica. Mi limito ad alcune indicazioni essenziali.
Che la vita abbia un senso non lo si costata automaticamente, come si costata che sorge il sole. È necessario che la ragione non s’addormenti. E la ragione è tenuta sveglia dal dialogo, in primo luogo, con chi ha già una visione della realtà: con noi adulti. Si può parlare di tutto coi propri figli: dalla partita di calcio alla presenza del male nel mondo. Ciò che è sostanziale è che di qualunque cosa si parli, si conduca l’interlocutore a "vedere in profondità". L’esempio sommo lo costatiamo nel modo con cui Gesù parlava ai suoi uditori. Chi non aveva visto i gigli del campo? chi non aveva osservato che gli uccelli si posavano sulle pianticelle di senape? chi non aveva costatato che quando il contadino in Palestina seminava, una parte del grano finiva dove non avrebbe potuto germogliare? Ma il "genio educativo" di Gesù era di far intra-vedere in quei fatti una realtà che meritava di essere amata e benedetta: la Provvidenza del Padre; la grandezza che germoglia dall’umiltà; la disponibilità del cuore. Era come se Gesù dicesse: "apri gli occhi, e guarda che cose grandi stanno accadendo".
Ma prima o poi è necessario anche educare allo "scontro colla realtà". Per scontro intendo un evento che urta la tua domanda di senso, che ne insidia l’affermazione pacifica. È la realtà del male. La tradizione educativa cristiana al riguardo è esemplare: essa ci raccomanda le cosiddette "opere di misericordia". L’incontro del ragazzo colla sofferenza umana – visita ad ammalati, impegno a favore di chi è nel bisogno – non è una richiesta moralistica. È la necessaria introduzione alla drammaticità del reale. Ovviamente è questa una introduzione che deve essere guidata dal genitore-educatore.
Ho indicato due percorsi terapeutici o meglio preventivi della "cataratta degli occhi del cuore" dei nostri ragazzi. Altri potrebbero essere indicati. Non ne abbiamo il tempo, e quindi concludo.
Tutti noi da bambini abbiamo giocato a nascondino. Il gioco è noto. Tutti, meno che uno, vanno a nascondersi; uno li deve scoprire. Il bello del gioco è che chi si nasconde, lo faccia così bene che l’altro debba far fatica a scoprirlo: che gioco è se scopro tutti, subito? E la vittoria è nella scoperta.
Questa è una potente metafora del rapporto educativo. Il ragazzo deve personalmente scoprire il senso, cioè la ragionevolezza e la bontà di ciò che esiste, e poter dire: "ecco, l’ho scoperto!". Esige impegno, perché il senso si nasconde molto bene soprattutto in alcuni fatti. Chi non ha esclamato: "che senso ha la sofferenza degli innocenti?". Ma, come ha scritto Agostino, la vera gioia è solo questa: la gioia della verità scoperta. E noi educatori siamo al servizio della gioia dei nostri ragazzi.
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