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Comitato "Cardinale Carlo Caffarra"


«Il peccato e le sue forme»
Relazione a convegno di Teologia morale, aprile 1986

 


PREMESSE 

 

01. Il primo dato che emerge dalla storia della riflessione teologica su questo tema è la non costanza del vocabolario usato per esprimere la distinzione di cui si parla. Il vocabolario non si è ancora assestato completamente neppure nella teologia contemporanea.

Questa constatazione deve essere permanentemente tenuta presente per evitare soprattutto anacronistiche interpretazioni delle fonti storiche.

Ma è ugualmente indiscutibile che la fede della Chiesa ha affermato costantemente esservi una distinzione essenziale quanto alla gravità (questo termine sarà precisato in seguito) fra i peccati commessi dopo il Battesimo.

Uno dei segni più inequivocabili di questa certezza è la stessa disciplina penitenziale della Chiesa primitiva.

 

02. I problemi etico-teologici fondamentali mi sembrano essere — in questa materia — tre.

a) Un problema storico: ripercorrere la vicenda storica di questa distinzione e dal punto di vista formale (come venne pensata la distinzione come tale) e dal punto di vista materiale (come venne di fatto tracciato il confine o i confini fra i vari gradi di peccato: quali peccati — in concreto — vennero considerati gravi e quali non).

b) Un problema di fondazione antropologico-teologica: individuare e ripensare profondamente le ragioni ultime antropologico-teologiche di questa gradazione, il suo fondamento ultimo.

c) Un problema pratico-teologico: individuare i criteri in base ai quali questa gradazione e distinzione venne compiuta (nei catechismi solitamente tre: materia grave - piena avvertenza - deliberato consenso).

Non avendo la sufficiente e necessaria competenza per svolgere tutta la tematica, nella relazione tenterò una risposta solamente al secondo problema: da un punto di vista sistematico.

 

RIFLESSIONE SISTEMATICA

 

Il compito, come si diceva, di questa riflessione è di individuare e ripensare profondamente le ragioni ultime antropologico-teologiche della distinzione in questione.

Due, dunque, sono le domande a cui cercherò di dare una risposta: in che cosa consiste precisamente la distinzione fra peccato grave e peccato non grave? Come si spiega, all’interno di una antropologia teologica, la possibilità nel battezzato di peccare non gravemente? 

 

1. - Non c’interessa la considerazione del fatto che la diversa gravità del peccato possa dipendere dalla diversa consapevolezza e/o libertà del soggetto. Questa diversità, rigorosamente parlando, riguarda l’imputabilità più che l’oggettiva gravità morale del fatto compiuto. La nostra domanda è piuttosto la seguente: esistono atti che per loro intrinseca natura sono non gravemente illeciti? A questa domanda cercherò di rispondere.

Il termine “illiceità morale” non è univoco, ma analogico: nella dottrina cristiana esso è attribuito al peccato originale e al peccato attuale, al peccato attuale grave e al peccato attuale non grave, ma non con identico significato. È necessario, pertanto, che, in primo luogo, definiamo quel termine nella sua “ragione o essenza comune” e vedere poi in che senso questa è attribuita al peccato attuale non grave.

 

1, 1. Si può cominciare dicendo che l’illiceità morale consiste formalmente nel non riconoscimento dell’ordine dell’essere. Ed in realtà, in questo sta tutta l’intrinseca malizia del male morale. Che giova, però, specificare.

Nel momento in cui la persona pecca, essa ama un essere non nella misura della sua dignità ontologica e, quindi, abbassa ogni altro essere al di sotto della sua dignità. È la dialettica/conversio-aversio che da Agostino in poi è divenuta centrale nella definizione del male morale.

La nostra esperienza ci attesta chiaramente quanto segue. Nessuno vuole il male come tale: è un’impossibilità semplicemente metafisica. Solo il bene può essere voluto: l’adulterio è voluto per il bene (il piacere) che comporta la congiunzione sessuale con la donna o l’uomo. Tuttavia, la volontà di questo bene comporta il rifiuto di un altro bene: per poter commettere l’adulterio, si deve tradire la fedeltà coniugale. In che cosa consiste precisamente la malizia morale? Nel fatto che il bene voluto è amato in una misura non adeguata alla sua dignità ontologica, al punto tale che esso è preferito ad un bene che, per la sua ontologica preziosità, è superiore. Formalmente parlando, la malizia morale consiste precisamente in questa “aversione” e solo nella “conversione” in quanto questa implica sempre quella, È, dunque, il concetto di “aversione” che va profondamente capito.

L’aversione consiste immediatamente, dunque, nel rifiuto dell’ordine dell’essere. La volontà diviene ingiusta perché non rende più a ciascuno il suo, non ama più ordinatamente l’essere: non rispetta la misura ontologica di ciascuno. Ma con questa ingiustizia, lo spirito creato non riconosce più la Sapienza del Verbo, nel quale ogni misura è espressa e si attribuisce il potere di misurare esso stesso la realtà. L’ordine dell’essere, che si rivela all’uomo mediante la semplice intuizione del bene, è voluto, è amato dalla Volontà di Dio: quella Volontà, che è la stessa Rettitudine sussistente, con cui Dio ama la sua Bontà infinita e ogni altra creatura in ordine alla partecipazione del suo Essere divino. La fede completa questa verità, rivelandoci il Mistero Trinitario, nel senso indicato da S. Tommaso:

«[...] Pater non solum Filium, sed etiam se et nos diligit Spiritu Sanctu, Quia, ut dictum est, diligere prout notionaliter sumitur, non solum importat productionem divinae personae, sed etiam personam productam per modum amoris, qui havet habitudinem ad rem dilectam. Unde, sicut Pater dicit se et omnem creaturam Verbo quod genuit, inquantum Verbum genitum sufficienter repraesentat Patrem et omnem creaturam; ita diligit se et omnem creaturam Spiritu Sancto, inquantum Spiritus Sanctus procedit ut amor bonitatis primae, secundum quam Pater amat se et omnum creaturam» (1, q. 37, a. 2, ad 3um).

Non rispettando, non riconoscendo la misura ontologica propria di ogni essere, lo spirito creato vuole, ama quel bene cui aderisce in modo contrario all’Amore stesso con cui è amato da Dio.

Esso, dunque (lo spirito creato) si oppone allo stesso Bene divino, “principium intelligendi et amandi omnem creaturam” (ibid.). Rifiuta di riconoscere la dignità stessa dell’Essere divino. In altre parole. Ogni essere possiede una sua propria misura ontologica, definita e delimitata dalla misura con cui ogni essere partecipa dello stesso Essere sussistente. La bontà, la dignità di ciascun essere è determinata da quella misura, dunque da questa partecipazione: se la dignità della persona è infinitamente superiore a quella di una cosa è perché la misura ontologica della prima è di altro ordine dalla seconda; se è di altro ordine è perché la persona partecipa dello stesso Essere sussistente in misura essenzialmente diversa da una cosa. Dunque, in una parola: il Bene è lo stesso Essere divino e, derivatamente — per partecipazione — ogni essere creato. Quando, allora, lo spirito creato pecca, non riconoscendo più l’ordine dell’essere, in realtà non riconosce più che Dio sia il Bene supremo e primo e che ogni altro essere sia bene per ordine al Bene. Pone un’altra misura della bontà e dignità dell’essere. L’atto, dunque, moralmente cattivo “opponitur proprie ipsi bono increato; contrariatur enim impletioni divinae voluntatis et divino amori quo bono divinum in se ipso amatur” (1, q. 48, a. 6c).

Nella semplice intuizione del bene, accade una sorta di circolo fra intelletto e volontà: lo stesso avviene nel caso del male, tenendo però sempre presente che formalmente l’atto moralmente cattivo è un atto della volontà.

La volontà non si muove secondo il suo naturale affetto per la giustizia ed induce l’intelletto a recedere dalla sua Misura, dalla Luce increata, cadendo così nell’errore. L’errore insito in quel giudizio in cui si apprezza un essere più del dovuto; in quel giudizio che precede immediatamente la deliberazione della volontà. Ma accade anche il movimento reciproco: l’intelletto misura autonomamente la dignità dell’essere, cadendo nell’errore oppure entra in quello stato di non considerazione della Misura da cui è misurato e, pertanto, la volontà delibera non più secondo il suo affetto per la giustizia, in cui consiste formalmente la sua natura propria, dovuta al suo radicarsi nell’intelletto (adpetibus rationalis).

 

1, 2. Questa è la natura della malizia morale. Dobbiamo ora vedere in che grado o misura essa può essere distribuita al peccato non grave. L’attribuzione deve essere compiuta con attenzione poiché da una parte, essa deve salvaguardare quella “nozione comune” (diversamente il peccato non grave non sarebbe peccato ) e dall’altra, questa medesima nozione non deve essere attribuita nel suo modo più alto ( diversamente il peccato non grave non sarebbe più “non-grave”). Ed è una verità centrale dell’etica teologica che consente questa corretta attribuzione. La tesi è la seguente.

L’origine ultima dell’ordine intrinseco all’essere, della sua bontà è atto dell’amore creativo con cui Dio ha voluto ogni cosa nell’Amore con cui ama se stesso: (Se stesso in ragione della Sua infinita bontà), le creature in quanto partecipano, nel modo a ciascuna proprio, della sua Bontà. “Et sic, sicut alia a se intelligit intelligendo essentiam suam, ita alia a se vult, volendo bonitatem suam” (1,q. 19, 2.2, ad 2um).

 

L’ordine intrinseco dell’essere, la sua dignità e bontà, corrisponde all’ordine con cui la divina volontà vuole: cioè l’Infinita divina bontà è voluta per se stessa ed in se stessa; la finita creata bontà è voluta in quanto partecipa della Prima. Nel momento in cui ciascuno di noi ha la semplice intuizione del bene, ciascuno di noi percepisce questo ordine con cui Dio ama se stesso e le creature.

Fra le creature, tuttavia, le creature personali, le persone create, sono ontologicamente dotate di una dignità incomparabile con la dignità di ogni altra creatura: esse, infatti, sono in senso proprio sussistenti. Raggiungono cioè il vertice dell’essere, al punto che sono“ad immagine e somiglianza di Dio”. Esse, pertanto, sono oggetto di un amore speciale da parte del Creatore: mentre ogni altra creatura per ed in vista delle persone, la persona è voluta per se stessa, non in vista di un’altra creatura. L’ordine dell’essere, dunque, è che la creatura impersonale è voluta per la persona, la persona è voluta per Dio, Dio per se stesso : la semplice intuizione del bene è l’intuizione di questo ordine.

L’uomo giustificato partecipa realmente di questo Amore di Dio. Questa partecipazione consiste formalmente nella virtù della carità. Essa, dunque, istituisce una relazione singolare con Dio, in forza della quale l’uomo ama con lo stesso amore divino.

Ora, esistono atti che per loro natura stessa non possono essere integrati in questo amore, non possono essere assunti dalla e nella intenzione con cui questo amore si dirige verso il suo oggetto: e, pertanto, essi sono intrinsecamente illeciti. Ma questi stessi atti non possono essere integrati ed assunti non perché sono in contraddizione coll’essere stesso dell’amore ma perché sono semplicemente contrari alla perfezione dell’Amore medesimo: e pertanto non sono gravi. Non perché negano l’essere dell’Amore, ma perché ne impediscono la sua completa realizzazione.

Per capire la malizia propria del peccato veniale in quanto veniale possiamo anche richiamare brevemente una tesi teologica sul modo con cui cresce nell’uomo giustificato la virtù della carità.

Al riguardo non dobbiamo pensare alla crescita in noi dell’amore in termini principalmente quantitativi, cresce perché e quando si allarga l’ambito degli oggetti amati. Ma piuttosto in termini qualitativi cioè “secundum intensionem actus ut magis vel minus aliquis diligatur” (2,2, q.24,a, ad 1um). Più precisamente, il soggetto personale diviene sempre più profondamente partecipe dell’Amore di Dio, “quod perfectus similitudo spiritus sancti participatur in anima” (ibid. a.5, ad 3um). E poiché si tratta di una forza operativa, ciò ancora, significa che l’atto della persona, ogni atto della persona è causato dalla volontà umana in quanto mossa dall’Amore stesso di Dio di cui diviene sempre più partecipe. L’atto che di sua natura è peccato non grave è posto dalla volontà non mossa dall’Amore, anche se non contraddice questa nozione. È un atto posto non “contra”, “sed praeter” questa direzione della persona.

Ed in questo sta l’infinita differenza qualitativa dal punto di vista etico e teologico fra le due forme del peccato attuale.

Di più facile soluzione e alla luce di ciò che abbiamo detto la seconda domanda: donde deriva nel battezzato la possibilità di peccare non gravemente?

 

2, 1. Il punto di partenza per la risposta può essere trovato in una tesi di antropologia, filosofica la tesi dell’integrazione della persona. La pluridimensionalità costitutiva della persona umana esige da essa un processo di unificazione interiore mediante il quale ogni dimensione è subordinata a quella superiore ed in questa sub-ordinazione si realizza interamente. Concretamente, questo processo di integrazione consiste in una progressiva e sempre più profonda “personalizzazione” di ogni dinamismo umano. Cioè nel ricondurre ogni ogni dinamismo umano nella causalità propriamente personale, cioè a quella della volontà libera.

 

2, 2. La luce della fede ci rivela che questo processo di personalizzazione è un processo di sempre più profonda soggezione dei dinamismi umani a quell’Amore di cui abbiamo parlato.

Fino a quando [non avviene] questo processo di integrazione nel senso teologico e filosofico del termine, resta sempre possibile che la volontà stessa ed, ancor più, altri dinamismi umani, sfuggano a questa “riduzione ad unità” della persona (mossa dalla carità). E, di conseguenza pongano atti che non nascono da questo centro della persona. Il peccato veniale è inscritto nella possibilità che la persona, non pienamente integrata, ponga atti non sotto l’influenza della libertà mossa dallo Spirito dal momento che la carità non è pienamente e completamente penetrata nella persona medesima.

 

Conclusione

 

La distinzione fra peccato veniale e mortale è un importante test per verificare la validità di un sistema etico. Quando questa distinzione viene stemperata fino al punto da non essere più rigorosamente pensata (come nel tentativo recente di una tri-partizione condannato da Reconciliatio et Paenitentia), ciò è dovuto di solito a errori di fondo nell’etica.