Ostaggi del tempo, cittadini dell'eternità
Castelletto del Garda 6 settembre 2001
La riflessione che intendiamo fare non affronta un problema marginale della vita. La dimensione temporale della nostra vita è una dimensione essenziale. E’ un’idea cara ad Agostino che come l’eternità costituisce la caratteristica fondamentale della vita divina, così il tempo lo è della vita umana [cfr. per es. Confessioni XI, 13,16; in ed. A. Mondadori/Fondazione L. Valla, vol. IV, pag. 125]. Interrogarsi dunque sul senso del tempo coincide con la domanda sul senso della vita come tale.
Articolerò la mia riflessione in tre punti. Nel primo mediteremo sul rapporto "esistenza umana - tempo"; nel secondo punto "tempo-avvenimento di Cristo"; nel terzo punto sul rapporto "tempo-celebrazione dell’Eucarestia – esercizio della libertà".
1. Esistenza umana e tempo
Partiamo da un’esperienza molto semplice, ma che dona molta materia di riflessione. E’ capitato a tutti che quando viviamo momenti di gioia particolarmente intensa, sentiamo dentro di noi la paura che prima o poi questo finirà e quindi sentiamo dentro di noi il desiderio che il tempo si fermi. A chi di noi non è mai capitato di dire: "è troppo bello perché possa durare!" Riflettiamo attentamente su questa esperienza. La pienezza della gioia, della vita è minacciata dallo scorrere del tempo: il fatto che la nostra vita sia come dis-tesa dentro il tempo, le impedisce di essere piena. Viviamo sempre una "parte" della nostra vita, un "momento" di gioia, un "attimo" di .... . E’ questo "passare" o "trascorrere" del tempo che costituisce una minaccia permanente. Sentiamo che il tempo è invidioso del nostro essere.
Proviamo ora a fare un piccolo sforzo di immaginazione. Immaginiamo che la nostra vita sia sempre ed esclusivamente questo scorrere del tempo, uno scorrere senza fine e perciò senza uno scopo. Nessuno, penso, ha espresso con più forza di Leopardi questa esperienza dell’uomo che si sente prigioniero del tempo, per esempio in Canto notturno d’un pastore errante dell’Asia (... Vecchierel bianco ...).
L’uomo ha sentito questa "maledizione del tempo" e tutte le religioni hanno cercato, fuori dall’ebraismo e del cristianesimo, di liberarlo. In che cosa consiste questo progetto di liberazione? Nell’uscire dal tempo, nell’evadere dal tempo. In fondo, l’uomo ha pensato che l’essere nel tempo fosse una malattia inguaribile. Questa evasione può essere progettata in due modi.
Il primo modo è proprio delle grandi religioni orientali. E’ necessario perdere se stessi, scomparire in un’unità senza forma. E’ questa la liberazione del mistico indù; è questa la beatitudine del buddhismo. L’uomo sarebbe pienamente liberato; sarebbe liberato perché viene meno a se stesso; sarebbe liberato precisamente in quanto il "se stesso" non sarebbe più. La liberazione consisterebbe in una scomparsa della propria individualità nell’unità indifferenziata del tutto.
Ma non è tanto su questo progetto di liberazione, che voglio attirare la vostra attenzione. E’ sull’altro che voglio attirare la vostra attenzione, poiché esso è talmente oggi diffuso, da essere come una specie di "atmosfera" (pestilenziale) che tutti più o meno respiriamo. Ed è soprattutto respirata dai nostri giovani, costituendo una sfida fondamentale al nostro annuncio del Vangelo fatto loro.
La liberazione dal tempo sembra possibile ed alla portata di mano, per così dire, di tutti, facilmente. Come? vivendo sempre e solo l’istante presente, senza darsi pensiero del futuro e cercando di dimenticare il passato. E’ come una sorta di scimmiottatura dell’eternità: un eternità, se così posso dire, costruita dall’uomo a sua misura. Un poeta latino pagano descrisse in modo mirabile questa soluzione, Orazio, nell’undicesima ode del primo libro.
"Non cercare di sapere, o Leuconoe (saperlo non è lecito) quale fine gli dei abbiamo assegnato a me, quale a te .... sii saggia ! ... restringi in un ambito breve le lunghe speranze. Mentre noi parliamo, sarà già sparita l’ora, invidiosa del nostro godere. Cogli la giornata d’oggi e confida in meno possibile in quella di domani."
Il centro di questa proposta sta, negativamente, in quel taglio che si deve dare alla nostra esistenza (al nostro desiderio di vivere) dentro la misura del solo istante presente; positivamente, consiste nel vivere solo dentro l’istante presente.
Una tale impostazione esistenziale, un tale "stile di vita" impedisce alla persona di vivere la propria esistenza come storia. Che cosa significa vivere la propria esistenza come storia? Partiamo da una esemplificazione molto semplice. Che cosa distingue uno scritto qualsiasi da un racconto vero e proprio? Il racconto ha una trama, cioè un susseguirsi ordinato di episodi che, collegandosi l’uno all’altro, conducono il lettore verso una conclusione che in un qualche modo deriva da tutto ciò che precede. Cioè: esiste una coerenza interiore nel racconto; questa coerenza è data da un filo conduttore; la narrazione va verso la conclusione. Dunque abbiamo individuato almeno tre elementi che costituiscono la narrazione di una storia: coerenza - sviluppo - conclusione.
Analogamente accade nella vita. Se la nostra vita è la somma di tanti istanti slegati fra loro, se la nostra vita manca al suo interno di un "filo conduttore"; se lo scorrere del tempo non va verso nessun fine, non ha alcuna direzione, la vita della persona è "sconclusionata".
Kierkegaard ha visto in questa posizione la definizione stessa della disperazione: la disperazione per così dire allo stato puro. La libertà è esercitata come pura possibilità [cfr. La malattia mortale ]. Ma soprattutto W. Shakespeare ha espresso con una forza insuperabile questo modo di vivere: "Domani, poi domani, poi domani: così, da un giorno all’altro, a piccoli passi, ogni domani striscia via fino all’ultima sillaba del tempo prescritto; e tutti i nostri ieri hanno rischiarato, a degli stolti, la via che conduce alla polvere della morte. Spengiti, spengiti, breve candela! La vita non è che un’ombra che cammina; un povero commediante che si pavoneggia e si agita, sulla scena del mondo, per la sua ora, e poi non se ne parla più; una favola raccontata da un idiota, piena di rumore e di furore, che non significa nulla". [Macbeth, Atto V, Scena V; in Tutte le opere, ed. Sansoni, Firenze, pag. 972].
Quale è il segno di questa condizione? Il bisogno di "evadere". Poiché una vita così è veramente insopportabile, da essa bisogna uscire almeno qualche volta. E’ stata così costruita una grande "industria dell’evasione". Prendiamo, a modo di esempio, in considerazione due "prodotti" di questa industria dell’evasione, scelti non a caso: capirete in seguito perché.
Il primo di questi prodotti è stata la radicale trasformazione del significato del giorno festivo (della domenica). Esso è l’atteso momento in cui finalmente si dimentica la vita di ogni giorno: non è il momento per capirne il senso e viverla più intensamente, più appassionatamente di prima. Ed infatti quando si ricomincia, si aspetta con ansia la sera del venerdì seguente, quando finalmente si potrà "dimenticare". In questo modo, si entra in un annoiato e/o disperato ritorno del sempre uguale: evasione per "sopportare" il lavoro settimanale; lavoro settimanale che aspetta l’evasione del fine-settimana. Non ha importanza che spesso si arrivi alla domenica sera molto più stanchi che riposati: l’essenziale è evadere, dimenticare. Vedete: quale significato ha lo scorrere del tempo per chi pensa e vive così? in fondo, una maledizione da cui, quando è possibile, evadere.
Il secondo prodotto dell’industria dell’evasione su cui vorrei attirare la nostra attenzione è la "commercializzazione del sesso" . Non pensate subito alla sua forma macroscopica. Esiste una forma molto sottile. Essa consiste nella riduzione della sessualità umana ad un "bene di consumo". E’ il risultato di un processo culturale molto complesso, di cui possiamo solo richiamare l’essenza. E’ stato un processo si successive "separazioni": del corpo dalla persona; della sessualità dall’amore, dal dono della vita. Il risultato è stato la considerazione della sessualità come divertimento: il segno è stato che ormai è del tutto pacifico che sessualità e matrimonio si possano separare. La distruzione del senso della sessualità è indice della consapevolezza della maledizione del tempo, poiché attraverso il dono della vita l’uomo ha sempre in un qualche modo cercato un’eternità.
Ho terminato questo primo punto della mia riflessione. Che cosa ho detto? Due cose, fondamentalmente. La prima: l’essere nel tempo in senso pieno (prigionieri di esso senza via di uscita) è un "peso" insopportabile per l’uomo. La seconda: l’unica redenzione dal tempo e del tempo che l’uomo abbia saputo progettare e vivere, è stata la fuga, l’evasione da esso. Una fuga ed una evasione che costa un prezzo molto alto: la perdita di se stesso.
2. Tempo ed avvenimento di Cristo
All’uomo non è data altra via di uscita? Non c’è altra via? E’ accaduto un fatto fra gli uomini, che ha spezzato la prigione del tempo. Quale fatto? la chiamata di Abramo (cfr. Gen. 12,1-9). Dio entra nel mondo e spezza quel processo senza fine che è il tempo, pone fine alla narrazione umana priva di senso, e chiama l’uomo, Abramo, a Se stesso; lo chiama in un cammino irreversibile che tende verso una mèta lontana. E’ la storia! Il tempo umano è diventata una storia umana. La storia (ricordate l’esempio fatto nel numero precedente) in tanto esiste in quanto realizza un processo, anzi un progresso. Ma è possibile un tale processo/progresso se Dio non interviene e non si pone come mèta, come fine? E’ stato Platone a porre il problema in modo consapevole per primo , fuori della rivelazione biblica [cfr. K. Gaiser, La metafisica della storia in Platone, ed. Vita e Pensiero, Milano 1991, soprattutto pag. 183-185].
Come già abbiamo detto, non c’è storia se il cammino non ha una direzione e quindi un traguardo. Ecco perché esiste una sola storia: la storia sacra. Cioè: la storia che si costruisce nell’iniziativa di Dio che interviene e nella libera risposta dell’uomo a questa iniziativa. Se Dio entra nel mondo tutto è nuovo: Egli spezza lo scorrere senza fine (cioè senza termine e senza scopo) del tempo. Egli chiama l’uomo e gli dona la capacità di superare il tempo (vedremo come) per trovare in Lui il suo fondamento, la sua stabilità e in Lui la sua mèta.
L’incontro di Dio con Abramo è stato veramente l’avvenimento che ha cambiato il senso dello scorrere del tempo. Con Abramo comincia la storia. Ed infatti la vicenda di Israele è completamente diversa dalla vicenda, per esempio, dei Greci o dei Romani. La storia di Israele è un camminare verso l’adempimento della promessa, verso il "giorno di Jahvé". "Mosso e portato dalla speranza che Dio gli aveva messo nel cuore, Israele si protende in avanti verso la salvezza futura: Dio non sarebbe il suo Salvatore, se Israele non lo attendesse nella speranza; e alla salvezza futura si incammina perché il tempo stesso ora, in una storia reale, non è più una maledizione per l’uomo, ma promessa. La salvezza farà uscire l’uomo da un processo senza fine, il processo del tempo porta Israele incontro al suo Salvatore" (D. Barsotti).
E’ questo anche il "contenuto" della nostra esperienza cristiana del tempo? Non proprio! E siamo così giunti nel "centro" della nostra riflessione. In che cosa l’esperienza cristiana è diversa? In questo: "E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi" (Gv 1,14). Tutta, l’unica novità assoluta del cristianesimo è Gesù Cristo.
Noi non viviamo nel tempo in cammino verso un adempimento che è soltanto promesso. Noi nel tempo possiamo incontrare l’eternità; nella dispersione del tempo possiamo vivere la pienezza della vita. Non ci è chiesto di evadere dal tempo; non ci è chiesto di andare oltre il tempo; non ci è domandato di incontrare Dio in sedicenti esperienze di oblio del tempo e della vita di ogni giorno. Perché Dio è nel tempo. Che cosa significa incontrare nel tempo l’eternità? Significa incontrare Gesù Cristo.
L’esperienza cristiana non è rimando ad un futuro; non è una storia che si protende a un giorno che verrà, e non è neppure il recupero di un passato che non ha più nessun rapporto col presente. E’ l’incontro con Dio, che avviene e può avvenire solo nell’istante che stai vivendo (in ciò che stai facendo), perché "il Verbo si fece carne e venne ad abitare fra a noi". Ed una volta entrato nel tempo, non ne esce più. Egli è sempre presente. In ogni istante tu puoi incontrarti con Lui (in ciò che stai facendo: lavoro, studio, divertimento, preghiera ...). La coincidenza dell’eternità col tempo è l’istante presente ed il valore di ogni istante è precisamente l’incontro con Cristo che deve sempre rinnovarsi: l’istante è la tua eternità. "Ogni atto costa l’eternità di Dio" (Sr. Elisabetta della Trinità). O si da questa coincidenza o è tempo perduto, tempo vuoto, come non fosse. Ascoltiamo le straordinarie parole di S. Giovanni: "Colui che ha il Figlio, ha la vita ... avete la vita eterna" (1Gv 5,12-13) "In questo modo viene a stabilirsi una sorta di circuito fra il tempo storico e l’eternità creatrice, ed è piuttosto difficile definire ciò che la riflessione sull’eternità aggiunge all’intelligenza del tempo, e ciò che l’esperienza del tempo suggerisce circa l’eternità. L’unione fra i due è intima, lo scambio continuo ed un passaggio così delicato si compie senza che i termini opposti si confondano. Senza dubbio è la forza segreta del pensiero cristiano quella di poter insistere così fortemente sulla presenza eminente del tempo nell’eternità e sulla presenza immanente dell’eternità nel seno del tempo stesso". [J. Guitton, Le temps et l’éternité chez Plotin et Saint Augustin, J. Vrin ed., Parios 1971, pag. 405-406].
E’ il senso profondo di quanto dice S. Paolo: "quando venne la pienezza del tempo..." (Gal 4,4). La pienezza del tempo: il tempo che, dopo e con la chiamata di Abramo, aveva cessato di essere un fiume senza foce, ora ha raggiunto la sua misura piena. E’ la misura che Abramo aveva già visto: e ne godette. Gesù Cristo non è venuto, il Verbo non si fece carne quando il tempo ha raggiunto la sua misura piena. Al contrario. Il tempo ha raggiunto la sua misura piena perché "il Verbo di fece carne". Gesù Cristo è la pienezza del tempo.
3. Tempo – Eucarestia - libertà
L’Incarnazione del Verbo, la Sua dimora fra noi, dona a ciascuno di noi di vivere nel tempo l’eternità di Dio. Come? Inserendoci in Cristo; è Lui la coincidenza dell’eternità col tempo; è in Lui che tu vivi, nel tempo come persona umana, la vita stessa di Dio. Non c’è bisogno che tu evada dal tempo, cioè dalla tua quotidiana storia come fosse una maledizione o comunque un doveroso e noioso compito da svolgere. Anzi: devi essere, rimanere in essa, poiché ivi è la Presenza di Dio.
Prima però di procedere altre sul significato esistenziale di queste affermazioni, dobbiamo chiederci: ma se in Cristo il tempo ha raggiunto la sua pienezza, anzi se Cristo stesso è la pienezza del tempo, perché anche dopo Cristo, la storia, lo scorrere del tempo ha continuato? Il giorno di Cristo non è l’ultimo giorno oltre il quale non è possibile procedere? Sappiamo come questa domanda attraversi tutti gli scritti del Nuovo Testamento, poiché essa era una domanda centrale per i nostri primi fratelli di fede. Rispondendo a questa domanda, capiremo il significato esistenziale di quella coincidenza fra eternità e tempo di cui parlavo.
Il senso dello scorrere del tempo, della storia, prima di Cristo è essenzialmente diverso dallo scorrere del tempo, della storia dopo Cristo. Veramente Egli è l’essenziale spartiacque: ormai gli anni si contano o in vista di Cristo o a partire da Lui. Abbiamo già detto, sostanzialmente, in che cosa consiste la diversità. E’ la diversità fra l’attesa ed il compimento! E per noi che veniamo dopo, come deve essere pensato il nostro essere nel tempo? Lo dico subito con una parola: come memoria. Dobbiamo penetrare profondamente in questa definizione della vita cristiana come memoria.
Buttiamo subito fuori dal nostro cuore un pensiero che può venirci pronunciando la parola "memoria". Non significa che il nostro rapporto con il Verbo Incarnato è frutto dello sforzo dell’uomo di tenerlo sempre presente nella memoria. Non è affidato alla memoria dell’uomo che non può risuscitare il passato. La vita cristiana è memoria in altro senso. Quale?
Come abbiamo già detto nel numero precedente, nella Persona del Verbo Incarnato che dona Se stesso sulla croce e risuscita, il tempo si compie, la storia finisce. Non nel senso cronologico del termine. Nel senso che nel "Corpo dato in sacrificio" e nel "Sangue effuso per la remissione dei peccati", Dio il Padre ha compiuto quel "Dono", ha effuso quella "Grazia", in vista del quale l’uomo è creato, Grazia promessa ad Abramo ed alla sua discendenza per sempre. Per sempre, cioè "una volta per tutte"! "Stat Crux, dum volvitur orbis", dicevano gli antichi monaci. Nel dono di Cristo sulla Croce la storia raggiunge il suo fine e la sua fine: "tutto è portato a compimento". [Gv 19,20].
L’Avvenimento dell’autodonazione di Cristo sulla Croce è messo a disposizione di ciascuno di noi, è messo a disposizione dello scorrere del tempo non nel modo dell’impossibile ripetizione, né nel modo dello sterile ricordo evocativo; ma nel modo sacramentale. Cioè: in una memoria che ha in sé la Presenza stessa, una Presenza vera, reale, di Cristo, Verbo Incarnato che offre il suo Corpo in Sacrificio ed effonde il suo Sangue per la remissione dei peccati. In questa memoria ci è dato di avere accesso al Dono, alla Grazia. Questa memoria è l’EUCARESTIA.
La storia dopo Cristo quindi o esiste nell’Eucarestia o è un vuoto scorrere del tempo, senza senso: il senso del nostro esistere è l’Eucarestia. In un certo senso, nella celebrazione dell’Eucarestia si racchiude e conchiude tutta la storia umana: di ciascuno di noi e di tutti.
Dunque ci eravamo chiesti: che senso ha lo scorrere del tempo dopo Cristo? E quindi che senso ha la nostra vita, di noi che siamo nati dopo Cristo? La risposta è la seguente: tu vivi perché la Presenza di Dio in Cristo ti pervada, venga a dimorare in te mediante la Santa Eucarestia; la storia continua perché, celebrandosi in essa la Santa Eucarestia, diventi sempre più il luogo della Presenza della Grazia di Dio in Cristo.
Se c’è veramente storia, è questa la storia vera che non riusciamo mai a realizzare pienamente: questo incontro, questa comunione con Cristo, comunione che noi impariamo pian piano, attraverso quel processo di santificazione che ha la sua radice nell’Eucarestia, continuata presenza reale del Dono dentro al tempo. Il moralismo noioso e sempre più imperante, ci sta facendo dimenticare il vero senso della storia, riducendo il rapporto con Cristo ad un rapporto esteriore, vero figlio primogenito del pelagianesimo.
Vorrei richiamare la vostra attenzione sulla dimensione più importante di questa visione cristiana della vita e della storia. Come ho già detto varie volte: non devi evadere per incontrarti colla Presenza, evadere dalla tua vita di ogni giorno. Ogni atto che tu compi è il "momento" in cui viene a dimorare la Presenza. Non è la "grandezza" di ciò che fai a rendere presente il Mistero. Al contrario: è la presenza del Mistero a rendere grande ciò che fai. Non è la grandezza del tuo atto che misura la Presenza: è il contrario. Nessuno ha vissuto più "normalmente" di Maria eppure nessuna esistenza è stata più "unica" della sua. La tua scelta, anche la più povera, la più umile, la più nascosta rimane unica, di un valore infinito: è aperta alla Presenza. "La persona più sapiente è quella che è capace, liberandosi progressivamente dalla schiavitù dei sensi e delle passioni, di stare tutta nell’azione presente, centro di gravità della vita cristiana, facendola dall’inizio, durante, in fine sotto l’influsso dello Spirito di Cristo, il quale dovrebbe procedere, accompagnare, chiudere ogni azione meritoria" [A. Dagnino, La vita cristiana, ed. Paoline, Roma 1979, pag. 187-189].
Questa riflessione ci fa capire la dignità, la grandezza della scelta libera. La grandezza e dignità di questa non dipende in ultima analisi dal suo contenuto: da ciò che sceglie. Essa dipende dalla relazione che in essa la persona istituisce col suo essere in Cristo [o più semplicemente: colla legge morale]. Attraverso la scelta moralmente buona, la persona umana nel tempo, eccede il tempo e costruisce la sua eternità. La libertà dell’uomo è nella visione cristiana lo scondizionamento dell’uomo dal mondo.
"Non vi sono momenti culminati e privilegiati della vita, in cui si giuochi il nostro destino morale, ma in ogni momento esso è giocato e tutto giocato" [R. Amario, in A. Manzoni; Osservazioni sulla morale cattolica vol. III, ed. R. Ricciardi, Milano 1966, pag. 199].
CONCLUSIONE
Posso concludere con un testo scelto dal Magistero di Giovanni Paolo II:
"Parlando della nascita del Figlio di Dio, san Paolo la situa nella "pienezza del tempo" (cfr. Gal 4,4). Il tempo in realtà si è compiuto per il fatto stesso che Dio, con l’Incarnazione, si è calato dentro la storia dell’uomo. L’eternità è entrata nel tempo: quale "compimento" più grande di questo? Quale altro "compimento" sarebbe possibile? Qualcuno ha pensato a certi cicli arcani, nei quali la storia dell’universo, e in particolare dell’uomo, costantemente si ripeterebbe. L’uomo sorge dalla terra e alla terra ritorna (cfr. Gn 3,19): questo è il dato di evidenza immediata. Ma nell’uomo vi è un’insopprimibile aspirazione a vivere per sempre. Come pensare ad una sua sopravvivenza al di là della morte? Alcuni hanno immaginato varie forma di reincarnazione. .... La rivelazione cristiana esclude la reincarnazione e parla di un compimento che l’uomo è chiamato a realizzare nel corso di un’unica esistenza sulla terra. Questo compimento del proprio destino l’uomo lo raggiunge nel dono sincero di sé, un dono che è reso possibile soltanto nell’incontro con Dio. E’ in Dio, pertanto che l’uomo trova la piena realizzazione di sé: questa è la verità rivelata da Cristo. L’uomo compie se stesso in Dio, che gli è venuto incontro mediante l’eterno suo Figlio. Grazie alla venuta di Dio sulla terra, il tempo umano, iniziato nella creazione, ha raggiunto la sua pienezza. "La pienezza del tempo", infatti, è soltanto l’eternità, anzi Colui che è eterno, cioè Dio. Entrare nella "pienezza del tempo" significa dunque raggiungere il termine del tempo ed uscire dai suoi confini, per trovarne il compimento nell’eternità di Dio." (Lett. ap. "Tertio millenio adveniente", n. 9)
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