ESSERE PADRE, ESSERE MADRE: ieri, oggi, domani.
Forlì, 26 febbraio 1999
La formulazione del tema che è oggetto della nostra riflessione
questa sera, indica in modo assai suggestivo sia una fondamentale esperienza
umana, quella della paternità/maternità, sia il suo permanere
dentro al trascorrere del tempo. E siamo così portati subito dentro
al nucleo più problematico dell’esperienza umana contemporanea,
alla dimensione più sconvolgente del nostro vivere quotidiano: il
venir meno di ogni certezza assoluta, l’essere costretti sempre a navigare
a vista, l’impossibilità di appellarci ad una realtà che
abbia in se stessa un senso definitivamente intelligibile. Perché,
in che senso, il riflettere oggi sulla paternità/maternità
ci conduce in questa direzio-ne? in quanto essa sembrava appartenere alle
immutabili dimensioni dell’esperienza umana, dotata di una consistenza
indistruttibile. Ora è stata messa in discussione, e come svuotata
di ogni suo contenuto proprio.
Poiché il discorso è assai complesso, procederò
nel modo seguente. Dopo aver richiamato brevemente la definizione, diciamo,
tradizionale di paternità/maternità, vedremo come e perché
questa definizione è stata messa in crisi: e sarà questo
il primo punto della mia riflessione. Tenteremo poi un giudizio critico
di questa «messa in crisi»: e sarà il secondo punto
della mia riflessione. Concluderò con alcuni orientamenti di carattere
più immediatamente operativo.
1. Messa in crisi (del concetto) di un’esperienza.
Partiamo da alcune constatazioni molto semplici. La paternità/maternità
è una relazione fondata sulla generazione, che si costituisce nella
conduzione della persona concepita e generata alla sua perfetta maturazione
umana. Più brevemente: paternità/maternità è
«generare» una nuova persona umana, nel significato intero
del termine, sia biologico sia spirituale. Procreazione ed educazione:
ecco i due momenti che costituiscono la paternità/maternità.
Attorno a questo atto fondamentale, l’atto di generare- inteso sempre
nel suo intero significato - una nuova persona umana, si è costruita
una profonda riflessione etica razionale, alla quale la fede cristiana
ha dato un apporto straordinario. Ugualmente ogni ordinamento giuridico
ha «istituzionalizzato» questa relazione di paternità/maternità,
secondo il principio classico di ogni istituzionalizzazione: il bene e
la difesa del bene di ogni persona coinvolta nel processo generativo –
educativo, specialmente delle più deboli.
Vorrei richiamare semplicemente alcuni punti fondamentali della
riflessione etica sulla paternità/maternità: molto brevemente,
poiché li riprenderò poi nel secondo punto. Tralascio invece
la riflessione di carattere giuridico.
La riflessione etica classica partiva da una domanda molto semplice:
«che cosa è» il frutto di un concepimento umano? E’
una nuova persona umana che pertanto possiede la stessa dignità
di chi lo ha generato. E poiché, unico fra tutti i viventi, l’uomo
prima di essere autonomo ha bisogno di molta e prolungata cura, la nuova
persona umana ha diritto di essere generato da un uomo e una donna legati
da un vincolo legittimo dotato di una certa stabilità, cioè
in matrimonio. Si è giunti così alla costituzione-definizione
del concetto etico di famiglia, fondata sul matrimonio.
Vi dicevo che in larga misura la ragione umana non illuminata
dalla fede aveva raggiunto questi risultati: con gravi lacune ed incertezze.
La fede ebraico-cristiana portò una luce incomparabile sul concetto
di paternità/maternità: luce che in buona parte divenne patrimonio
culturale definitivamente, sembrava, acquisito nella nostra civiltà
occidentale. Orbene, che cosa è successo, a partire (la data è
solo indicativa) dal luglio 1978? Che progressivamente questa costruzione
etica è stata smontata pezzo per pezzo così che oggi ci troviamo
in una condizione di «rovina di significati». Parole come matrimonio,
paternità, maternità, figliazione non hanno più significato
univoco. Ed è proprio questa «de-costruzione etica»
del concetto di paternità/maternità che vorrei ora farvi
vedere.
Nel luglio del 1978 viene al mondo la prima persona umana concepita
non mediante un rapporto sessuale, ma mediante un procedimento tecnico
di fecondazione in vitro. Questo fatto costituisce la vera svolta. Dimostrando
possibile il concepimento umano senza alcuna relazione sessuale, la fecondazione
in vitro separava per ciò stesso in linea di principio almeno, la
paternità/maternità dalla sponsalità/coniugalità
. In un duplice senso. Nel senso che l’attività responsabile del
concepimento non è più un rapporto interpersonale carico
di per sé di un significato di amore e di dono, appunto coniugale,
ma è un’attività produttiva-tecnica. E nel senso che
le cellule germinali non necessariamente provengono dal corpo dei due sposi:
come poi di fatto si cominciò a fare. E qui il primo pezzo della
costruzione è stato smontato: la paternità/maternità
non implica di per sé una relazione biologicamente fondata. Per
essere padre/madre non è necessario esserlo anche biologicamente.
A prima vista, la cosa non sembrerebbe poi così grave.
Anzi. Assisteremo ad una «spiritualizzazione» della paternità/maternità,
tesa a mettere maggiormente in risalto la sua dimensione psicologica e
spirituale. Non voglio per ora discutere l’implicita identificazione fra
«umanizzazione» e «spiritualizzazione». Mi preme
procedere nel dimostrarvi quel processo di «de-costruzione»
di cui stiamo parlando.
E’ vero che la dipendenza biologica del figlio dalla madre è
ben più consistente di quella dal padre: la gestazione è
della madre. Tuttavia, una volta posto il principio della non essenzialità
della dimensione biologica, si può di fatto anche chiedere ad un’altra
donna di compiere la gestazione: una sorta di presta-utero, che, se ricompensata,
acquista il carattere di un vero e proprio «affitto di utero».
Ciò che è puntualmente accaduto, introducendo un’ulteriore
precisazione: non solo maternità non implica necessariamente discendenza
biologica, ma neppure gestazione. Pertanto, madre non è necessariamente
né chi ti ha generato, né chi ti ha portato in utero.
Ma c’è qualcos’altro ben più profondo. Il distacco
fra generazione biologica e paternità/maternità ha portato
alla fine a non escludere neppure la separazione radicale della stessa
dal matrimonio come tale. A questo punto devo come sospendere per un momento
il cammino di riflessione che stiamo facendo, per attirare la vostra attenzione
su un altro fatto culturale assai importante e che ha influito non poco
sul processo di decostruzione del concetto di paternità/maternità.
Si tratta della interpretazione della sessualità umana
come non avente in sé e per sé un suo proprio significato.
Sono costretto a presentare un fenomeno culturale assai complesso in tempo
breve, e quindi in modo assai scarno. Il dimorfismo sessuale, l’essere
uomo – l’essere donna, non è più interpretato in termini
di reciprocità. Posso spiegare questo concetto di reciprocità,
brevemente, nel modo seguente. Esistono gli uomini perché esistono
le donne; esistono le donne perché esistono gli uomini. La persona
umana è posta originariamente dentro ad una correlazione, che significa
e mostra la sua destinazione e vocazione alla comunione interpersonale:
nessuno nasce chiuso in se stesso, dal momento che ciascuno nasce o uomo
(e quindi relato alla donna) o donna (e quindi relato all’uomo). “Per questo”
recita il testo biblico “l’uomo lascerà suo padre e sua madre e
si unirà a sua moglie e i due saranno una sola carne” (Gen. 2,24).
Nel momento in cui questa interpretazione del dimorfismo sessuale
umano cessa, la sessualità umana perde il suo significato proprio:
viene cioè negato che ne possegga qualcuno originario. Ha quel significato
che la persona vuole attribuirgli. E pertanto, la convivenza omosessuale
è della stessa natura (si fa per dire) della convivenza eterosessuale.
Si giunge cioè alla equiparazione etica dei due modelli di comportamento
sessuale.
In che senso questa equiparazione influisce sul processo di decostruzione
del concetto di paternità/maternità? Nel senso che non si
vede più perché non si debba dare un figlio anche alle coppie
omosessuali da una parte, e dall’altra il concetto di maternità
non è più correlativo a quello di paternità e viceversa.
E’ da ritenersi pienamente legittimato che una persona abbia «socialmente»
due madri senza un padre o due padri senza una madre.
A questo punto, sembrerebbe che il concetto classico di paternità/maternità
sia giunto alla sua completa dissoluzione. Nella nostra cultura (e non
solo!) paternità/maternità significava quella particolare
relazione fondata sulla discendenza biologica (a) da un uomo ed una donna
uniti in legittimo matrimonio (b), che si costituisce nella educazione
(c). Al punto in cui siamo arrivati la paternità/maternità
non implica più necessariamente una discendenza biologica (a1),
da un uomo e da una donna legittimamente uniti in matrimonio in quanto
possono essere conviventi semplicemente di fatto oppure conviventi dello
stesso sesso oppure anche singoli (b1), che non si costituisce più
in un rapporto educativo (c1).
Oggi siamo precisamente a questo punto: nel momento in cui queste
due visioni di paternità/maternità si scontrano.
A dire il vero, c’è ancora un «punto di contatto»
fra le due: in ogni caso per concepire un bambino, ci vuole un uomo e una
donna! Ma anche questo ultimo punto sta per essere annullato attraverso
la clonazione. Essa infatti, in quanto riproduzione artificiale, è
ottenuta senza l’apporto dei due gameti e quindi trattasi di una riproduzione
asessuale ed agamica. Non si hanno notizie sicure di clonazioni umane.
In questo processo le relazioni fondamentali della persona umana, la figliazione
e la genitorialità sono esplose: una donna può essere sorella
gemella di sua madre, mancare del padre biologico ed essere figlia di suo
nonno.
E colla clonazione si conchiude il nostro percorso di decostruzione
del concetto di paternità/maternità ed il primo punto della
nostra riflessione.
2. Giudizio critico della situazione
L’approccio critico alla situazione in cui versa oggi il concetto
e l’esperienza della paternità/maternità, può percorrere
varie piste. Mi limito ad una sola: sia per brevità, sia perché
è quella solitamente meno percorsa.
E’ il cammino di riflessione critica che inizia da una domanda
assai semplice: «che cosa è» il frutto di un concepimento
umano? La domanda non è marginale: al contrario, essa si pone nel
centro di tutta la questione. Se infatti il concepito è una persona
allo stesso modo con cui lo sono coloro che sono coinvolti nel suo concepimento,
egli esige di essere trattato come tale, alla stessa stregua di ogni altra
persona. Infatti, l’essere persona non ammette gradi: o si è o non
si è persona; né qualcuno può essere più persona
di un altro.
Cominciamo dunque col rispondere alla domanda: «che cosa
è» il frutto di un concepimento umano? Possiamo subito rispondere,
e nessuno oggi non lo farebbe: è un nuovo individuo umano. Notate
bene le due parole usate: «nuovo» ed «individuo».
Nuovo significa che c’è “qualcosa” di cui è certa l’identità
umana e la sua differenziazione rispetto all’organismo dei genitori. Qualcosa
o qualcuno? Bisogna spiegare meglio l’altra parola «individuo».
Il «qualcosa di nuovo» che si trova nel grembo
di una donna ha una caratteristica di straordinaria importanza: lo chiamiamo,
con nome difficile ma che poi spiegheremo subito, «auto-poietico»
ed «auto-referenziale». Que-sta caratterizzazione significa
questo. “Lo zigote e l’embrione non sono…mai, a nessun stadio del loro
sviluppo, il prodotto passivo dell’ esecuzione di un programma biologico
indipendente da parte dell’organismo ospitante come un tumore in accrescimento
disordinato e senza progetto lo è rispetto agli organi in
cui cresce e si sviluppa, bensì è un prodotto che attivamente
si progetta e si produce, per accrescersi prima e differenziarsi poi, in
interazione coll’ambiente materno…” (G.Basti, Filosofia dell’uomo, ESD,
Bologna 1995, pag. 358). Cioè: lo zigote – embrione non è
un «progetto – programma» eseguito da altri (madre), ma è
un «progetto – programma» che costruisce se stesso, muove se
stesso da se stesso e non è mosso da altri. E’ cioè INDIVIDUO,
essere indiviso in sé e distinto da ogni altro (secondo la definizione
classica di individuo); un individuo UMANO poiché è certo
che il corredo genetico di 46 cromosomi garantisce la sua identità
umana oltre che la sua differenziazione individuale. Dunque, teniamo ben
ferma questa convinzione: al momento della fecondazione si ha un individuo
umano, nel preciso significato detto prima come «essere indiviso
in sé, distinto da ogni altro, che costruisce se stesso secondo
un suo proprio programma interno».
Da ciò deriva allora una conseguenza importantissima:
là dove esiste un individuo umano, lì esiste qualcuno che
è penetrato, alla radice e totalmente, da un principio vitale che
lo informa, ne guida e dirige lo sviluppo e lo abilita a compiere le sue
operazioni. Questo principio è ciò che chiamiamo anima. E’
per questo che chiamiamo l’anima «forma del corpo». Non nel
senso di figura esteriore, ma “principio intrinseco, dinamico, formatore,
plasmatore della materia” (cfr. P.M. Emonet – M. Lorenzini, Conoscere l’anima
umana. Elementi di antropologia filosofica, ESD, Bologna 1997, pag. 63).
L’essere un «individuo umano» è titolo necessario
e sufficiente per meritare un rispetto assoluto. Rispetto assoluto qui
ha un significato molto preciso. Egli non può mai essere considerato
un mero «oggetto» di desiderio o di uso, ma solo come soggetto
di diritti. Chiedere ad un individuo umano qualche titolo ulteriore perché
possa esigere di essere assolutamente rispettato, è porre la radice
di ogni prevaricazione possibile. E fino a questo punto noi ci siamo basati
su dati facilmente verificabili.
Ma non possiamo fermarci: esiste infatti un dato di fatto che
chiede alla ragione (notate: ho detto alla ragione, non alla fede) di essere
spiegato. Il fatto che l’anima umana è capace di far compiere all’individuo
umano delle azioni che trascendono il mondo sensibile (come pensare, decidere
liberamente, donarsi nell’amore). E qui ormai la domanda su chi è
il concepito, non può non portarci ad una risposta metafisica. Vorrei
ora costruire brevemente questa risposta.
Comincio ad essere quando ha cominciato ad essere la mia individualità:
il mio essere individuo. Il mio «essere individuo» ha cominciato
quando sono stato concepito. Ma sono completamente venuto all’esistenza
dalla congiunzione dei due gameti? Non è possibile, poiché
l’individuo umano è animato da un principio che non può derivare
dalla materia, dal momento che «è – più che – materia».
Ed allora: “come si spiega che «io» in quel preciso istante
ho cominciato ad essere, dato che la fecondazione biologica non può
spiegarlo completamente?”. E’ stato Dio che mi pone nell’essere: che mi
ha pensato e mi ha voluto, cioè mi ha creato.
“La genesi dell’uomo non risponde soltanto alle leggi della biologia,
bensì direttamente alla volontà creatrice di Dio… Dio «ha
voluto» l’uomo fin dal principio – e Dio lo «vuole» in
ogni concepimento e nascita umana. Dio vuole l’uomo come essere simile
a sé, come persona. Quest’uomo, ogni uomo, è creato da Dio
«per se stesso»” (Giovanni Paolo II, Lettera alle famiglie
Gratissimum sane [1994], 9, cpv. 4).
Ora finalmente abbiamo la risposta completa alla nostra domanda:
il concepito umano è un individuo-persona umana, creata immediatamente
da Dio stesso, non in ordine a qualcos’altro, ma per se stessa.
Sulla base di questo risultato, ora possiamo rispondere ad una
seconda domanda: chi è degno di generare una nuova persona umana
e con quale modalità? Coloro che sono in grado di assicurare un’educazione
della nuova persona umana attraverso l’elargizione o trasmissione dell’intera
ricchezza dell’umanità: dunque, uomo-donna uniti in un vincolo stabile
e ben identificabile per il «piccolo in umanità». Non
possono essere anonimi come il numero di una fiala in cui è depositato
un seme maschile. Con quale modalità? Con un’attività dalla
quale sia assente ogni logica di «produttività»:
la persona non ammette di essere prodotta. Con un’attività che escluda
ogni considerazione del concepito come «oggetto» del mio desiderio
di felicità. Con un’attività che implica quella relazione
di unicità e totale donazione che fa essere pari in dignità
il figlio atteso come un dono, fin dal momento del concepimento. In una
parola: con quell’atto che si chiama atto dell’amore coniugale.
E’ la coniugalità che forma e plasma la genitorialità
(è l’anima della genitorialità) ed è la genitorialità
che porta a compimento la coniugalità: è questa connessione
che definisce il concetto etico di paternità/maternità.
Conclusione
Come affrontare una situazione come quella in cui viviamo, nella
quale l’humanum e ciò che lo definisce, sembra essersi svuotato
di ogni contenuto immutabile? Possiamo lasciare alle convenzioni perfino
la definizione stessa di paternità/maternità, in fondo di
persona umana stessa?
La vera esigenza è di “dare fondamento al concetto di
dignità della persona in forza della sua condizione spirituale”
(Lett. Enc. Fides et ratio 83): dare fondamento dentro alla coscienza di
ogni uomo, dentro al nostro sapere, dentro al nostro ordinamento giuridico.
E’ in sostanza l’impegno perenne di ogni discepolo di Cristo: mostrare
all’uomo di essere non «qualcosa», ma «qualcuno»,
così degno di stima che Dio stesso è venuto a salvarne la
dignità.
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