Fondamenti dogmatici
Ars, ottobre 1993
Vorrei iniziare la mia riflessione con una premessa che ritengo essere di decisiva importanza. Tutti i grandi maestri della vita spirituale (da Platone ad Agostino, da Pascal a Newman) hanno insegnato che l’uomo non cerca e non scopre la verità solo colla ragione, ma con tutto se stesso. Esistono attitudini pre-razionali che ispirano il lavoro propriamente intellettuale e la ricerca razionale sia in senso positivo sia in senso negativo. È stato il razionalismo illuminista a produrre il fantasma di una ragione pura, senza, si disse, pre-giudizi. Dunque, prima di entrare nella riflessione, mi chiedo: con quale attitudine dobbiamo iniziare questa ricerca?
Mi sembra una sopratutto, oserei dire esclusiva: la lode della gloria della grazia di Cristo. Vogliamo capire, perché ci troviamo di fronte allo splendore, alla potenza della grazia di Cristo, tale che non può che essere glorificata e lodata. Ciò che in fondo Agostino ha sempre rimproverato ai pelagiani, prima che i loro errori, è stato la loro attitudine verso la grazia di Cristo. Era un’attitudine di “sospetto” e non di lode, tendenzialmente portati a diminuirne la grandezza, anziché esaltarne lo splendore.
L’attitudine contraria alla lode può nascere da due possibili opzioni: la presunzione, la disperazione. La prima è di chi non puo esaltare la grazia di Cristo perché fondamentalmente la ritiene superflua; la seconda, perché la ritiene impotente. Chi presume non ha bisogno della grazia di Cristo; chi dispera non pensa che sia capace di salvarlo.
Solo la teologia che nasce dalla dossologia è la teologia che ha trovato il suo vero terreno di nutrimento. E si scopre così il vero criterio di verità di una teologia della grazia. Lo possiamo formulare nel modo seguente: fra due proposizioni contrarie si deve ritenere essere vera quella che loda maggiormente la gloria della grazia di Cristo. È la dossologia il criterio veritativo della teologia. Vorrei che durante tutta la nostra riflessione non dimenticassimo più questa premessa, per evitare in ogni momento di evacuare la Croce di Cristo.
1. La giustificazione del peccatore
Il punto di partenza della nostra riflessione è l’evento della giustificazione del peccatore. Assieme all’atto creativo, esso è l’atto più grande che Dio possa compiere nell’universo. San Tommaso insegna che, almeno da un certo punto di vista, la giustificazione del peccatore è ancora più grande dell’atto creativo: “Deus, qui omnipotentiam tuam percendo maxime et miserando manifestas”, dice la liturgia. Per avere una giusta visione teologica, una visione che nasca da una profonda dossologia, credo che sia bene premettere due considerazioni.
1, 01. È necessario, in primo luogo, avere il senso esatto del male morale, cioè del peccato: quanti ponderis sit peccatum, direbbe sant’Anselmo. Male, infatti, è un termine analogico. Si dice che è un male un terremoto, che è un male una malattia, che è un male mentire. Il significato, però, varia di intensità. Il male in senso pieno, il male al grado sommo, il male, potremmo dire, che non ha limiti, il male infinito è solo il peccato o il male morale. Se non si vede chiaramente questo, è difficile capire il significato profondo di ciò che in seguito vedremo.
Cominciamo col dire che il male morale è sempre un atto della persona. È un atto: non è qualcosa di subito (come per esempio una malattia); è qualcosa di voluto liberamente. E pertanto non è solo qualcosa che avviene nella persona o sulla persona, ma è della persona, nel senso più forte del termine. Ora dobbiamo ricordarci che cosa è e che cosa significa un atto libero della persona. In esso e mediante esso, la persona umana si realizza, si costruisce e si genera nell’essere, si dà il proprio volto: la persona diviene il suo agire. È i suoi atti. Già da questo punto di vista, il male morale e gli altri mali sono distinti da una distinzione antropologicamente assai profonda. Ma non è questo il punto più importante. Ciò che abbiamo detto vale anche dell’atto di virtù. In che cosa consiste essenzialmente la malizia morale?
L’atto moralmente cattivo è una negazione della Verità e Bontà stessa dell’Essere divino. Procediamo passo dopo passo.
L’atto peccaminoso implica una conoscenza di ciò che è dovuto all’essere con cui mi metto in rapporto (che può essere il soggetto stesso che agisce); implica una conoscenza dell’ordine intrinseco all’universo dell’essere. È una conoscenza che mi mostra un incondizionato e un assoluto. E ciò che è dovuto alla bontà propria di ogni essere, non è dovuto ad esso “a condizione che…”, ma incondizionatamente; ciò che è dovuto alla bontà propria di ogni essere, non è dovuto ad esso in quanto “serve per…”, ma assolutamente. È un ordine eterno e immutabile poiché è il riflesso nell’universo dell’essere della stessa Sapienza e Bontà divina: san Tommaso dice che con questa conoscenza e in questa conoscenza l’uomo diviene partecipe della stessa legge eterna di Dio. Formalmente però, il peccato non consiste in questo: esso è un atto di libertà, non una conoscenza.
La libertà compie un atto che contraddice questa legge eterna di Dio, di cui l’uomo è divenuto partecipe colla sua conoscenza razionale. Pone un atto che nega praticamente ciò che ha conosciuto teoricamente. Ma che cosa significa tutto ciò in concreto?
Se facciamo un poco di attenzione alla nostra vita spirituale, noi vediamo che la nostra volontà vuole sempre ciò che è bene: è la sua struttura intenzionale. Nel peccato, si ha la scelta che muove la volontà verso un bene, in modo tale che questo movimento si oppone alla legge eterna di Dio. Più semplicemente: vuole un bene contro la legge eterna di Dio. Ma che cosa significa “vuole un bene”. Il bene è ciò che perfeziona l’essere, in senso metafisico. Il bene dell’intelletto è la verità, poiché esso è ordinato al vero: il vero è il bene dell’intelletto perché lo perfeziona, cioè lo pone pienamente in (atto di) essere. Quando, dunque, la persona vuole un bene significa che la persona si muove verso la sua perfezione, verso la pienezza del suo essere (plenitudo essendi: san Tommaso).
Si deve fare ora un importante distinzione. Esiste una perfezione, e dunque dei beni che la realizzano, della persona considerata in una sua particolare dimensione. La salute è un bene della persona in quanto è un soggetto vivente, la verità in quanto è un soggetto intelligente e così via. Esiste una perfezione, e dunque dei beni che la realizzano, della persona non considerata in una sua particolare dimensione, ma della persona come tale. È la perfezione che è realizzata dal bene morale.
Abbiamo ora finalmente tutti gli elementi teoretici per stringere il nostro discorso nel suo nodo teoretico.
Il male morale consiste essenzialmente nella decisione della persona di realizzare se stessa contro la legge eterna di Dio, cioè in un modo contrario al progetto di Dio sull’uomo.
Chiediamoci ora: esiste, può esistere un male maggiore di questo per l’uomo? Non è possibile, poiché è la persona stessa come tale che si è distrutta non nel suo essere questo o quello, ma nel suo essere persona umana.
Chiediamoci ora: perché il male morale, pur essendo atto di una creatura, ha in sé una malizia in un certo senso infinita? Possiamo tentare un’approccio a questa infinità, non facile da cogliere, mediante il concetto di infinito matematico (quantitativo). Se io giocando perdo mille franchi, mi è andata male; ma se perdo un miliardo di franchi, la mia perdita è qualcosa di semplicemente disastroso. Cioè: la misura della perdita è data dalla misura del bene perduto. Portiamo al limite questo discorso: ho perduto una quantità infinita di franchi, ho subito una perdita infinita. Ora che cosa perde l’uomo peccando? Perde se stesso.
Si potrebbe subito dire: dunque è una perdita finita, poiché la creatura è finita. Ma, ed è questo il punto, c’è nella persona umana una qualche infinità ed è questa che è distrutta nel peccato. La persona umana è in un qualche modo infinita in quanto puo essere partecipe della Sapienza, della Santità divina: è fatta, unica fra le creature, “ad immagine e somiglianza di Dio”. Ora, ciò che è perduta è precisamente questa infinita bontà della persona, quando essa pecca. È lo stesso principio divino che in essa è distrutto. E, in questo senso, la persona che è peccatore perde la sua stessa ragione di essere: nell’universo dell’essere è divenuta puro non-senso. Alla stessa conclusione si potrebbe arrivare, anche tenendo conto del fatto che è rifiutata la Sapienza divina.
1, 02. Visto “quanti ponderis sit peccatum” dobbiamo ora chiederci quale può essere l’atteggiamento di Dio verso di esso.
Cominciamo subito col dire che mentre Dio può volere qualsiasi altro male, non può volere il male morale, in nessun modo. Esso è per definizione l’anti-Dio. Dire il contrario, sarebbe come dire che Dio può odiare se stesso. Mentre ogni altro male non si oppone per sé a Dio, il male morale si oppone formalmente alla Sua Santità. Certamente, Dio puo “permettere” il male morale, cioè concretamente che una libertà creata pecchi. Tuttavia non può permettere che permanga il male morale: esso deve essere distrutto: non Deus volens iniquitatem Tu es/iniusti ante Te non permanebunt. Tuttavia questa distruzione può avvenire fondamentalmente in tre modi: distruzione del peccatore; ricondurre il peccatore nell’ordine della giustizia attraverso la pena; giustificare il peccatore. Ora il primo è stato scartato dalla Provvidenza divina; il secondo è quello realizzato nei confronti degli angeli peccatori (e, a certe condizioni, puo realizzarsi nei confronti dell’uomo peccatore); il terzo è quello deciso da Dio nei confronti dell’uomo. Come questo accade e che cosa esso implichi lo vedremo precisamente fra poco. Ma prima dobbiamo chiarire alcuni concetti che sono fondamentali nella nostra riflessione.
Il primo concetto è quello di giustizia di Dio e di misericordia. La giustizia di Dio, cioè la giustizia in forza della quale Egli è giusto, è la sua stessa Santità; e cioè il suo stesso Essere divino considerato dal punto di vista morale. Il messaggio dei Profeti è particolarmente forte da questo punto di vista. E sono essi a sottolineare come questa Santità divina penetri in tutto l’universo dell’essere, opponendosi a tutto ciò che impedisce la sua gloria.
La santificazione del Nome di Dio è il primo e più profondo desiderio dell’orante: gli altri sono solo conseguenza.
Il secondo concetto è quello della misericordia. In che modo la Giustizia di Dio distrugge tutto ciò che le si oppone? Rendendo giusto il peccatore. Cioè: la Giustizia di Dio opera nella sua Misericordia. O meglio: la Giustizia di Dio è la sua Misericordia e la sua Misericordia è la sua Giustizia.
La prima coincidenza: la Giustizia di Dio, che non puo sopportare niente di ingiusto nell’universo dell’essere e nessun male morale, si svela e risplende in tutto il suo fulgore non distruggendo il peccatore, ma giustificandolo. Giustizia è Misericordia.
La seconda coincidenza: la Misericordia di Dio non consiste nel sopportare in un qualche modo il male morale, nel non prendendo sul serio (“chiudere un occhio”), ma nel distruggerlo. Misericordia è Giustizia.
Il terzo concetto è quello di perdono divino. È facile cadere, ai riguardo, in errori antropomorfici. La coincidenza di Giustizia e Misericordia deve liberarcene. Il perdono divino, come ogni atto divino nei confronti dell’uomo, non lascia l’uomo come lo trova. Nei rapporti interpersonali, io posso perdonare chi mi ha offeso e se questi muta la sua attitudine nei miei confronti, ciò non è avvenuto a causa del mio perdono. È stato un atto della sua libertà che, certamente, può essere stato occasionato dal mio perdono. Non è così nei rapporti con Dio. Che cosa significa “Dio perdona”? niente altro se non che Egli ti giusti-fica. Dio non ti perdona perché sei ridiventato giusto, ma tu sei ridiventato giusto perché Dio ti ha perdonato. Non è il tuo pentimento a causare il perdono di Dio, ma è il perdono di Dio a causare il tuo pentimento. Insomma: dire che Dio è Giusto, che Dio è Misericordioso, che Dio perdona è in realtà la stessa cosa; la distinzione è solo nei nostri concetti umani. Ciò che l’uomo può fare di suo proprio è rifiutare di essere perdonato, o perché ritiene di non aver bisogno di perdono (auto-giustificazione) o perché ritiene che Dio non voglia perdonare (disperazione).
1, 1. Fatte queste due premesse, l’infinita malizia del male morale e la coincidenza della Giustizia colla Misericordia, possiamo tentare una riflessione teologica precisamente sulla giustificazione dell’empio: maius est quod ex impio fiat iustus, quam creare coelum et terram: coelum enim et terra pertransibunt, praedestinatorum autem salus et justificatio permanebit (Sant’Agostino).
In che cosa consiste formalmente questo evento? che cosa accade in realtà quando “ex impio fiat iustus”? Si tratta di una reale trasformazione della soggettività personale che rende capace l’uomo di agire nella santità.
Ho detto “reale”: accade veramente qualcosa di nuovo nell’uomo. La persona, non si può non usare il linguaggio biblico, è di nuovo creata; è generata in un’esistenza nuova. Si noti bene questo concetto di “nuova creazione”. L’atto creativo è la posizione in essere di ciò che/di chi non è. Il suo effetto, pertanto, è la novità assoluta: chi non era, è. Mentre qualsiasi altra attività presuppone sempre qualcosa e pertanto cio che è causato non è mai una novità assoluta, l’attività creativa non presuppone niente: causa il nuovo assolutamente. La Sacra Scrittura dicendo che la giustificazione, il perdono del peccatore è una nuova creazione, ci induce a pensare che esso produce qualcosa di nuovo. È il soggetto personale giustificato, perdonato, che nell’universo dell’essere è qualcosa di nuovo: il suo essere stesso è rinnovato. L’idea del perdono divino come “generazione” indica colla stessa forza la realtà di questo evento, considerato nel suo effetto.
Ho detto “trasformazione”: questo termine è molto importante. La trasformazione è un passaggio da una forma all’altra. La forma di un essere è ciò per cui un essere è ciò che è. Si ha, quindi, nell’evento del perdono un passaggio in forza del quale è mutata la “forma” stessa della soggettività personale. In che senso? La forma in senso ontologico della persona è lo spirito: ciò che fa sì che la persona sia persona, qualcuno e non qualcosa, è il suo spirito. È chiaro che questa forma non è trans-formata. Tuttavia, la persona realizza se stessa mediante il suo atto libero. E quindi, l’antropologia classica, se diceva che lo spirito era “l’atto primo” della persona, affermava che “l’atto secondo” era costituito dall’agire libero. Che significato ha tutto questo? va ricercato nel rapporto persona-atto. La persona mediante il suo atto diviene se stessa. Ora come abbiamo visto, il peccatore, precisamente mediante il suo atto, è divenuto se stesso in un modo assurdo. Il suo essere stesso è una forma, un modo di essere che non ha in se stesso nessuna ragione di essere. È questa che è trans-formata. Anzi, si deve dire che il perdono del peccato in quanto tale, nel suo preciso significato è proprio questa trasformazione. Tuttavia, è più completo il concetto di “giustificazione”, poiché la trasformazione consiste propriamente nella nuova creazione della persona, nella generazione, che implica la distruzione della vecchia creatura. “L’offesa che l’uomo fa a Dio non viene perdonata, se non per il fatto che Dio gli dona la grazia” (De Veritate q. 28, a. 2).
Ho detto che si tratta di una reale trasformazione “della soggettività personale”. Dove avviene questa reale trasformazione? I mistici sono stati i grandi maestri della topografia spirituale. Chi non ricorda il castello interiore di santa Teresa colle sue varie mansioni, il “fondo dell’anima” di san Giovanni della Croce, la “mens” che sant’Agostino distingue dalla “ratio”? Del resto, la Sacra Scrittura stessa disegna già una certa topografia della persona, parlando di “cuore” della persona come spesso contrapposto alle “labbra”. Ora ciò che è nuovamente creato e generato dal perdono di Dio non è solamente la “periferia” della persona, ma il suo “centro” stesso: il “cuore”, direbbe appunto la Sacra Scrittura. In una delle sue pagine più difficili, san Tommaso dimostra che esiste una distinzione reale fra il soggetto e le sue facoltà e, nello stesso tempo, come queste siano generate, prodotte dal soggetto-spirito. Non mi voglio addentrare in questa difficile questione. Mi accontento di indicarvi la via per entrare in questo mistero.
Quando altri e noi stessi attribuiamo un atto a noi stessi, non diciamo in realtà: “la mia volontà ha deciso che…”. Diciamo con più verità: “io ho deciso, mediante la mia volontà, che…”. Nel momento in cui noi mettiamo in atto il nostro dinamismo operativo, abbiamo l’esperienza vissuta che esso è in noi ma che non è noi stessi. È in noi: nessuno può mettere in atto la nostra volontà al nostro posto o contro di noi. Non si tratta solamente del fatto che abbiamo il potere di volere. Esso dimora così intimamente in noi che nessun altro può sostituirci. Ma nello stesso tempo esso dipende da noi, perché non è noi stessi. C’è una distanza tra il soggetto e la sua volontà. Meglio: il soggetto trascende la sua volontà ed è per questo che dal soggetto dipende metterla in atto o non. In questo senso, in realtà diciamo: “Io ho voluto che…”. Il perdono di Dio trasforma non in primo luogo la mia volontà, la mia intelligenza, la mia sensibilità, ma me stesso. Non è solo un nuovo modo di volere, di pensare, di sentire: è un nuovo modo di essere persona.
Ho detto che questa trasformazione rende la persona “capace” di agire nella santità. Ritorneremo più avanti su questo punto. Per ora è sufficiente dire che la persona, come già abbiamo detto varie volte, si esprime mediante il suo agire. Persona e atto: la perfezione della persona è la persona in atto. Sarebbe veramente contro la sapienza divina pensare che accada una reale trasformazione nella soggettività personale che non abbia alcun effetto sul piano dell’agire. E infatti la Sacra Scrittura sottolinea con forza la capacità che il giusto possiede di fare frutti nuovi.
1, 2. Abbiamo cercato di balbettare qualcosa sul perdono di Dio. Sembra tuttavia che questo evento sia contraddetto dai fatti. La parola della Chiesa ci assicura che il Signore ci ha perdonato: “io ti assolvo dai tuoi peccati…”. Tuttavia rimane in noi, quanto meno, una “parte” della vecchia creatura e spesso non vediamo in noi la forza della Misericordia di Dio. Il giusto rimane dunque anche sempre peccatore? Non dobbiamo, poiché non è necessario al nostro scopo, addentrarci nel dibattito luterano. Il compito nostro è ora quello di vedere in che senso è vero e in che senso è falso dire che il giusto rimane peccatore e come questa verità ci aiuta a capire meglio la nostra condizione nello stato presente. Non possiamo dimenticare la grande esperienza di tanti santi che si sono sempre sentiti peccatori davanti a Dio.
Cominciamo dalla considerazione del luogo in cui chi è stato perdonato deve vivere: il mondo. È un mondo in cui la presenza di Satana non è stata eliminata e, nello stesso tempo, un mondo in cui è accaduto il Mistero pasquale di Cristo. È un mondo in cui il contrasto fra i due Regni non è cessato e questo sarà vero fino alla fine dei tempi, fino alla definitiva vittoria del Signore.
Tuttavia, questa situazione non deve farci dimenticare che la vittoria del Signore è già stata posta. Egli già siede alla destra del Padre, attendendo solo che tutti i suoi nemici siano posti sotto i suoi piedi Cristo ha già vinto il peccato e la morte e in questo senso la storia non è più ambigua. Il suo fine non giace più nel mistero oscuro e incerto del come essa finirà. Speriamo ormai nella perfetta realizzazione di ciò che è accaduto nella Risurrezione di Gesù. La certezza che questo accadrà è una certezza di fede, poiché il potere del male opera a volte con tale forza da lasciarci profondamente sconcertati. Questa è la dimora del giusto.
È accaduto, come abbiamo lungamente spiegato, qualcosa di nuovo nell’uomo perdonato. Anche se di questo non possiamo avere una certezza assoluta, di fede, poiché la nostra soggettività nel suo rapporto con Dio non si svela mai pienamente alla nostra coscienza. La Misericordia di Dio cambia realmente l’uomo perdonato.
Rimane però una domanda drammatica: perché l’evento della giustificazione accada è necessaria l’accettazione dell’uomo, il suo consenso e la sua cooperazione. Questa risposta dell’uomo, anche se affermativa, è sempre piena? è sempre un consenso totale? Il problema non è di sapere se l’atto divino del perdono è pienamente efficace: è di sapere se la creatura consente pienamente a questa azione di compiere il suo effetto. La domanda non è se Dio ci trasforma completamente, ma se noi permettiamo di essere trasformati pienamente. Non è in questione l’efficacia della grazia di Dio, ma la profondità della nostra risposta.
Sulla base della liturgia della Chiesa, che continuamente ci invita a confessare il nostro peccato, tenendo conto dell’esperienza dei Santi, mi sembra che si possa dire che mai (se si esclude la Madre di Dio) la risposta umana corrisponde adeguatamente alla Misericordia di Dio. Cominciano così a delineare la nostra condizione. Prima però di continuare mi sembra necessario fare due precisazioni.
La prima. Ciò che abbiamo appena detto non deve essere inteso nel senso che la resistenza a Dio, l’inclinazione al peccato continui ad essere l’essenza della persona, come se il nucleo centrale della persona rimanesse sempre e comunque inaccessibile a Dio. Se così fosse, delle due l’una: o la malizia umana è invincibile dalla grazia di Dio ed è più forte della sua Misericordia oppure questa non vuole giungere fino al punto di creare nuovamente l’uomo. Ambedue queste ipotesi sono contro la fede. Del resto se il “cuore” del giustificato rimanesse ancora estraneo a Dio, quale sarebbe in realtà la differenza fra l’essere stati giustificati e il non essere stati giustificati? La presenza dello Spirito nel giusto è tale che essa può muovere la persona nella sua soggettività stessa. Ciò che accade è che la persona, non lasciandosi pienamente muovere dallo Spirito, non permette che Egli dimori in tutti i movimenti della persona. Ed è di questo che i santi piangevano davanti al Signore. Essi si sentivano amati dal Signore, ma nello stesso tempo avvertivano che c’erano ancora resistenze. Ancora più interessante sarebbe al riguardo uno studio attento dei grandi convertiti, da Agostino a Claudel e della descrizione che essi fanno dell’attimo della loro conversione.
La seconda precisazione. Quantunque la preparazione alla giustificazione possa essere più o meno lunga (Agostino legge l’Hortensius a 16 anni e si converte a 32) l’evento della giustificazione è un fatto istantaneo. Nel passaggio dallo stato di peccato allo stato di giustizia, non è possibile uno stato intermedio. Come la grazia che santifica, per sua natura, elimina il peccato per cui è impossibile che anche per un solo istante la grazia coesista col peccato, cosí l’atto della carità include naturalmente, in se stesso, la perfetta detestazione di ogni peccato grave. L’infusione della grazia, l’atto di fede, la contrizione e la remissione del peccato pur essendo distinti, sono inseparabili. Non può esistere via di mezzo fra grazia e peccato, mentre può esserci una più o meno prossima disposizione al perdono di Dio.
Fatte queste due precisazioni, continuiamo la nostra riflessione. Che cosa in realtà continua a rimanere nel giustificato? Quella che la tradizione cristiana ha chiamato “concupiscenza”. È un concetto fondamentale.
La “concupiscenza” è la perdita dell’integrità della persona, dovuta al peccato. La persona umana non è un’unità semplice. Essa è un’unità composta. Quando l’unità è il frutto di una composizione di vari elementi, il processo che porta la persona all’unità interiore è un processo di integrazione. L’integrazione consiste nella subordinazione di dinamismi inferiori ai dinamismi superiori della persona.
Ho parlato di “subordinazione” e non di soppressione. Il dinamismo inferiore, infatti, non deve essere soppresso. Esso appartiene alla struttura stessa della persona: l’apatia non è cristiana. La subordinazione consiste nel fatto che il dinamismo inferiore si lascia governare, ispirare dal dinamismo superiore. In questo modo, il dinamismo inferiore diviene espressione del dinamismo superiore. Un esempio. L’amore coniugale è un fatto eminentemente spirituale. Eminentemente, ma non esclusivamente. Esso è anche un fatto psichico; è anche un fatto fisico. Quando si ha l’integrazione nell’amore coniugale? Quando la dimensione psico-fisica si subordina alla dimensione spirituale così che questa si esprime in essa e mediante essa. È l’incontro di eros e agape.
La persona integra è colei che vive in questa armonia interiore. La concupiscenza è la forza dis-integrante della persona: è cioè la forza che spinge i dinamismi inferiori a insubordinarsi ai dinamismi superiori. Se ora ricordiamo ciò che abbiamo detto sul peccato, vediamo subito che la concupiscenza non è peccato. Formalmente il peccato è solo un atto di volontà. Ma è ugualmente chiaro che la concupiscenza è una delle origini del peccato, se non la principale.
E cosi possiamo finalmente vedere in che senso la nuova creatura sarà generata in senso pieno solo nel suo “dies natalis” vero e proprio.
La presenza dello Spirito nel cuore del giusto esclude ogni peccato mortale (così come anche un solo peccato mortale esclude lo Spirito). Tuttavia, resta sempre nel giusto questa resistenza alla Sua azione, questa forza ostile e, quindi, la permanente possibilità di ricadere nel peccato: “chi sta in piedi, veda di non cadere”; “con timore e tremore operate la vostra salvezza”.
2. La storia del giusto
Queste ultime riflessioni ci hanno introdotti nel secondo punto della nostra riflessione. Esse ci hanno fatto intravedere che se da una parte l’evento della giustificazione è istantaneo, dall’altra però essa non solo non pone fine al cammino della persona nella storia, ma al contrario: è l’inizio di un cammino, di una storia. Vorrei ora riflettere precisamente su questo: sulla storia o meglio sulla storicità dell’esistenza cristiana. Tema suggestivo, ma non facile.
Vorrei prima di tutto chiarire i parametri fondamentali, le categorie teoretiche entro le quali si può avere un’intelligenza della storicità dell’esistenza. E poi entreremo direttamente nel tema della storicità dell’esistenza cristiana.
2, 1. Solo la creatura spirituale ha una storia: non l’animale, non Dio. Non l’animale. Esso, pur compiendo opere che suscitano spesso la nostra ammirazione (si pensi alle api), si ripete sempre: l’animale è sempre lo stesso. Non conosce l’imprevisto della novità. San Tommaso nota che ciò accade quando si tratti di individui che sono governati dalla loro natura, non da essi stessi. L’osservazione nasconde una profondità che può sfuggire nella sua semplicità.
Un individuo, se così posso dire, può appartenere alla sua specie o natura in due modi profondamente diversi. Può appartenere in un modo così radicale che l’unica funzione, l’unica ragione di essere dell’individuo è quello di perpetuare la specie: di riprodurla. Ogni individuo è la riproduzione della sua natura, come ogni copia è la riproduzione di un modello. Oppure l’individuo può partecipare a una natura in modo tale che esso non è la pura e semplice riproduzione. Ha in sé e per sé la sua ragione d’essere: nel suo singolare, unico essere si trova una bontà, un valore, una preziosità incommunicabile. Ha un valore “assoluto”, cioè che prescinde dal suo essere membro di una specie.
L’osservazione di Tommaso ora acquista il suo pieno significato.
L’animale ripete sempre le stesse cose perché appartiene così radicalmente alla sua natura che nel suo agire non è mosso da se stesso, ma dalle leggi della sua specie. Non si muove, ma è mosso. L’uomo, al contrario, agisce da sé e muove se stesso. Il suo agire non risponde alle esigenze immutabili di una specie. Esso è sempre nuovo e imprevedibile.
Si ha quindi la radice più profonda della storicità della persona umana: la sua libertà. Dobbiamo riflettere profondamente sul rapporto fra libertà e storicità umana: è il nodo essenziale della nostra esistenza.
L’osservazione che abbiamo fatto sopra, dalla quale siamo partiti, ci ha mostrato che la soggettività personale dell’uomo possiede una sua propria incommunicabilità. Del resto alcune definizioni classiche di persona avevano messo in risalto questa condizione della persona. Riccardo di San Vittore, per esempio, definisce la persona: “intellectualis naturae incommunicabilis existentia”. Si deve però evitare un equivoco. Il termine “incommunicabilità” non ha per niente quel significato che un certo esistenzialismo ha voluto darvi. Cioè, incapacità di comunicare cogli altri, attraverso il linguaggio, nei rapporti sociali. Non si tratta di questo. “Incommunicabilita” ha significato metafisico e quindi etico.
Metafisico. La persona sussiste in sé e per sé con un tale grado di intensità che non può essere “comunicata” con altri o con altro in modo tale da essere, con questo altro, parte di un tutto, individuo di una serie, numero di una quantità. Essa è semplicemente, cioè appunto incommunicabilmente se stessa: ratio partis — scrive san Tommaso — contrariatur rationi personae. Non è facile avere una percezione netta di questa incommunicabilità della persona, ma è assolutamente necessario per comprendere ciò che stiamo dicendo.
Ma questa proprietà della persona ha anche un’essenziale valenza etica. Nella direzione suggerita già da san Tommaso, ma che è stata sopratutto approfondita da alcuni pensatori cristiani moderni, come Newman, Kierkegaard, Guardini. L’incommunicabilità della persona si svela in modo supremo nell’atto libero, sia considerato nella sua origine sia considerato nel suo scopo. Cioè: la persona si svela nella sua incommunicabile esistenza quando agisce liberamente.
È certo che esistono degli standard dell’agire umano: essere liberi non significa essere originali nel senso che si fanno atti che mai nessuno né prima né ora ha mai compiuto. Tuttavia, il punto non è questo. È la persona che decide di compiere quell’atto; nessun altro, nel momento in cui compie la scelta, puo sostituirla, può prendere il suo posto. Che cosa muove la persona alla scelta? Certo la bontà intelligibile intravista dalla ragione nel possibile atto. Tuttavia questa visione non spiega: la bontà intravista può muovere la persona. Ma è la persona che si muove da se stessa. È questo il mistero insondabile dell’atto libero: il suo essere un puro contingente. Non ha nessuna ragione di essere piuttosto di non essere. È la più pura somiglianza all’atto creativo. La ragione dice: in questo possibile atto abita un bene. Ma è la persona colla sua libertà che dice: voglio che questo bene sia il mio bene. L’incommunicabilità, l’essere incommunicabilmente se stessi, raggiunge qui il suo vertice.
Questa breve fenomenologia dell’agire libero ci introduce finalmente nelle domande teoretiche e pratiche più difficili riguardanti la storicità umana.
Prima domanda: ammesso dunque che l’esistenza (incommunicabilis existentia di Riccardo di San Vittore) umana si costruisca, si realizzi nell’atto libero, si deve allora pensare che, stante l’assoluta contingenza dell’atto libero, l’esistenza nel suo insieme è un disordinato succedersi di tante scelte? È come un racconto che non ha nessun contenuto? Una “favola recitata da un idiota” (William Shakespeare). Se l’atto libero è l’assoluto possibile, sembra che si possa concludere che la vita umana non possa avere alcuna sua intrinseca intelligibilità. È l’assurdo cui ci consegna il nostro essere liberi. Si sa che questa è la tesi di Jean-Paul Sartre.
D’altra parte, la cultura pagana, in fondo, non ha mai raggiunto quel concetto di persona e di libertà di cui stiamo parlando, proprio perché dominata dall’idea di una necessità intrinseca a tutto l’universo dell’essere: nella necessità l’io è irrimediabilmente perduto.
Ecco il primo nodo dialettico che costituisce la storicità della creatura: per divenire se stessi, sono ugualmente necessari possibilità e necessità. Come si realizza nell’uomo questa sintesi?
Seconda domanda: la comparsa della necessità sembra rimettere in questione tutto il nostro discorso sulla libertà e sulla storia. Gli astri non fanno storia perché sono governati dalla necessità. La seconda, dunque, fondamentale domanda è la seguente: esiste una necessità che non solo non distrugge l’io come possibilità (la sua libertà), ma che lo fa essere tale, cioè veramente libero?
Fermiamoci a riflettere ora su queste due domande. Prima però di procedere oltre, permettetemi di rifare brevemente il cammino finora percorso.
La riflessione sulla giustificazione del peccatore ci ha portato a una conclusione: il peccatore giustificato dopo e in conseguenza del perdono ricevuto, inizia un cammino. Questa conclusione ci ha richiamato al fatto fondamentale della storicità dell’uomo. Abbiamo poi visto che la storicità si radica nell’incommunicabilità e nella libertà della persona. Questa radicazione, però, sembra che porti a una aporia: la storia non ha in sé alcun disegno intelligibile essendo essa il mero realizzarsi contingente dell’esistenza e, dunque, è assurda. Per sfuggire a questa aporia, si deve ammettere una qualche necessità dentro alla libertà. Ma — ed era questa la prima domanda — come accade questa sintesi di possibilità-necessità? Se abbiamo visto, almeno da un punto di vista descrittivo, che cosa è la possibilità di cui stiamo parlando, non è chiaro di quale necessità stiamo parlando. Donde, la seconda fondamentale domanda: come deve essere pensata la necessità?
2, 1, 1. Voglio cominciare a rispondere alla seconda domanda, richiamandomi a un’esperienza quotidiana.
Noi abbiamo l’esperienza di almeno tre tipi di necessità. Esiste una necessità logica, quella cioè posta dalle leggi che governano il pensiero. La loro scoperta, iniziata da Aristotele, costituisce, come sappiamo, uno dei capitoli fondamentali della ricerca umana. Poste certe premesse, si deve giungere a certe conclusioni: è, appunto, necessario concludere in un certo modo. Vorrei richiamare la vostra attenzione su un particolare che dona molto da pensare. La necessità logica è assolutamente impersonale, al punto tale che certe operazioni, governate da essa, possono essere compiute dalle macchine. Si pensi ai calcolatori.
Esiste una necessità naturale, quella cioè che si esprime nelle leggi formulate dalla scienza in senso stretto: posto un metallo nel fuoco è necessario che si dilati. Alcune osservazioni. Questa necessità non è già così ferrea come quella precedente e non è più così impersonale, sia perché — come la scienza contemporanea ha chiarito — l’osservatore influisce sull’osservazione, sia perché, sopratutto nel caso degli individui viventi, e quindi anche dell’uomo, essa ammette eccezioni. Tutti i grandi medici dicono che la medicina non è solo scienza, ma è anche arte.
Esiste, infine, una necessità morale, quella cioè che si esprime nelle leggi morali: devi considerare la persona come un fine, non come un mezzo; non devi mentire al tuo prossimo. E così via. Si tratta certo di una necessità. Ma è una necessità che si presenta con delle caratteristiche molto singolari. Essa, come quella logica e al contrario di quella naturale, non ammette eccezioni per nessuno in nessun luogo: sempre e dovunque devi considerare... Ma, al contrario di quella logica, non ti costringe, nel senso che tu non possa, se lo vuoi, contraddirla. Anche se volessi, non puoi pensare contro il principio di non contraddizione. In questo caso, semplicemente non pensi. Diceva Bertrand Russel: molti hanno cercato di spezzare la logica, ma la logica ha spezzato tutti. La necessità morale può essere contraddetta, nel senso che tu puoi agire contro essa. Anche in questo caso tu agisci. Ma allora, è la necessità più debole, meno costringente? Al contrario: essa ti costringe con una tale forza che se la disobbedisci, non sei semplicemente una persona che pensa male, oppure una persona che sta male. Sei una persona che come persona è fallita. Essa cioè riguarda la persona nel suo farsi persona. Ora, abbiamo già visto che la persona nel suo costituirsi persona, nel suo divenire se stessa è la persona che agisce liberamente.
Siamo così giunti a una conclusione di enorme importanza: la necessità morale è la necessita propria della libertà, come la necessità logica è la necessità propria della ragione, come la necessità naturale è la necessità propria del nostro corpo. È dunque assai importante che noi analizziamo attentamente questa necessità.
Esiste un’esperienza nella quale la natura propria di questa necessità appare molto chiaramente: è l’esperienza dell’amore interpersonale. L’amore vede la persona dell’altro nella sua incommunicabile, insostituibile singolarità e unicità: “nessuno può prendere il tuo posto perché come te non esiste nessuno”. È per questo che la morte della persona amata è sentita come l’evento più assurdo che esista. Non si istituisce un rapporto che sia mediato da qualcosa: è un rapporto in cui immediatamente la persona è voluta. Non si ama quella persona in quanto è umana: il rapporto non avviene mediante la natura umana. Si ama quella persona perché è quella persona. Non si ama quella persona in quanto possiede determinate qualità: il rapporto non avviene mediante le perfezioni apprezzate. Non si ama quella persona in quanto è intelligente è ricca... Ma perché è quella persona e non un’altra. Il “tu” assolutamente unico è qui affermato in modo incondizionato e assoluto. Che cosa fa sorgere in chi ama questa affermazione dell’altro? È un puro atto di libertà: non si ama la persona dell’altro per una necessità logica, cioè perché, attraverso un ragionamento, si è arrivati alla conclusione che si deve amare. Nessuno ama per amore di una conclusione. Non è una necessità naturale: questa spinge all’altro per bisogno e, dunque, in quanto l’altro ha qualcosa e non in quanto è semplicemente colui che è.
Più profondamente: l’amore alla fine si esprime nel dono di sé. Ma il dono di sé può essere fatto solamente dal “sé”. Solo chi possiede può donare ciò che possiede: solo io posso donare me stesso. Tuttavia chi ama ha l’esperienza di una necessità che lo costringe al dono: devi amare questa persona perché è questa persona. E infatti chi ama obbliga se stesso per sempre ad amare. La fedeltà nasce assieme all’amore. “Non posso non amarti” e “posso non amarti: nessuno e niente mi costringe”.
L’esperienza dell’amore ci aiuta a capire la necessità morale di cui stiamo parlando. Essa è la risposta alla bontà, alla bellezza, al valore o preziosità che è propria dell’essere personale. Tuttavia, non si ama la persona in quanto partecipa alla bontà, alla bellezza ideale partecipabile. Al contrario: si ama la persona nella sua singolarità e unicità. È la bontà, bellezza propria di questa persona che è amata. È la risposta alla dignità propria dell’essere personale come tale. Ma proprio perché risposta alla persona, non può non essere libera: assolutamente libera.
2, 1, 2. Vista la natura della necessità che si incontra colla possibilità-libertà, cerchiamo di rispondere ora alla seconda domanda: come accade nell’uomo questa sintesi di necessità e possibilità?
La sintesi si colloca nel punto di equilibrio dei due poli. Questo punto di equilibrio può essere abbandonato a spese della necessità o a spese della possibilità. Nel primo caso, la persona esce dalla sua realtà nel regno della pura illusione; nel secondo caso, la persona non diviene mai se stessa. Kierkegaard dice acutamente che per poter parlare occorrono consonanti e vocali: le vocali sono la possibilità, le consonanti sono la necessità. Un uomo senza possibilità è muto: le consonanti da sole sono incommunicabili. Un uomo senza necessità emette suoni senza significato: le vocali da sole non costituiscono un senso. Ma allora quando si ha quella sintesi?
Voglio rispondere riflettendo sull’esperienza di Mosè. Vi chiedo un piccolo sforzo di fantasia. Immaginiamo di trovarci con lui nel momento forse più drammatico di tutta la sua vita. Egli si trova fra il Mar Rosso e l’esercito del Faraone. Che fare? Quali possibilità si aprono davanti a lui? La prima sarebbe di attraversare il mare a piedi: è assurdo solo il pensarlo. Significa morire. È una... possibilità impossibile. La seconda sarebbe di combattere contro il Faraone: è assurdo solo il pensarlo. Significa andare incontro a morte sicura. È una... possibilità impossibile. La terza sarebbe ritornare sui propri passi, venire a patti col Faraone e ritornare alla schiavitù in Egitto. È... l’unica possibilità possibile. Ma essa significa la distruzione della propria libertà, perché è la distruzione della propria identità: si rientra a far parte dell’Egitto. O la pura possibilità che è pura fantasia, pura illusione. O la pura necessità, la sempre uguale realtà. Come sfugge Mosè a questo dilemma? credendo che a Dio tutto è possibile, anche aprire in due il mare e far passare il popolo come su una strada. Nell’atto di fede Mosè è diventato libero e ha costruito un popolo, ha dato inizio a una nuova storia. Non riflettiamo mai a sufficienza sull’abisso di questo atto di fede. Che cosa significa “credere che a Dio tutto è possibile”? Essere certi di tre cose: che Dio può tutto, che Dio sa fare tutto, che Dio vuole fare tutto per colui che Egli ama. Si costituisce nell’uomo il senso di un progetto, di una storia che diviene possibile: Mosè lascia alle spalle tutta la sua esistenza in Egitto. Si costituisce nell’uomo una necessità: non può non essere che poiché, se sarà necessario, Dio apre anche il mare, anzi fa risuscitare anche i morti. La possibilità umana si radica nella necessità divina; la necessità umana si radica nella possibilità divina.
Come avviene, ci siamo chiesti, questa sintesi di necessità e possibilità? La sintesi si chiama l’obbedienza della fede al proprio destino che è il Progetto di Dio.
Siamo così nel nucleo della storicità umana: essa è l’incontro di due libertà, la libertà umana colla libertà di Dio. Questo incontro si chiama l’obbedienza della fede. E possiamo comprendere come siano possibili tre definizioni radicali di storicità umana. La storia umana è lo svolgimento di una necessità “logica” (cio che è reale è razionale) in cui ogni evento non è che la proposizione di un intero discorso. La storia umana è ciò che è la storia naturale in natura: il risultato di una necessità “naturale”, dominata dalle identiche leggi. La storia umana è la storia dell’incrociarsi di due libertà, quella divina e quella umana. Nel primo caso, la grandezza del singolo consiste nel prendere coscienza del processo storico che si sta svolgendo. Nel secondo caso, la grandezza del singolo semplicemente non ha senso. Nel terzo, la grandezza del singolo consiste nella santità.
Dobbiamo interrompere la nostra riflessione sulla storicità umana. Quanto ho detto mi sembra sufficiente per possedere le fondamentali categorie per avere un’intelligenza teologica della storia del peccatore che è stato giustificato dal perdono di Dio. Poiché è questo il tema che sopratutto ci interessa in questo secondo punto.
2, 2. È stato sant’Agostino a vedere in modo chiaro che il nucleo essenziale della storia umana, in quanto incontro di due libertà, quella divina e quella umana, si pone alla fine nello scontro fra due amori. Uno scontro che avviene nel cuore, cioè nella libertà dell’uomo. “Fecerunt itaque civitates duas amores duo, terrenam scilicet amor sui usque ad contemptum Dei, caelestum vero amor Dei usque ad contemptum sui” (De civitate Dei 14, 28). È di questo che ora dobbiamo parlare.
Nella morte di Cristo è posta la suprema offerta dell’Amore del Padre: la suprema Rivelazione della sua Giustizia che perdona e della sua Misericordia che santifica. Nel cuore trafitto del Crocefisso è definitivamente spezzato il velo che separava il Santo dei Santi dall’uomo, impedendogli di entrare. Nel fianco squarciato del Redentore è definitivamente aperta all’uomo la via che lo introduce nella vita trinitaria. La morte sulla Croce è la vittoria, la vittoria dell’amore. Non ne è la sconfitta. Poiché questo morto è stato risuscitato ed elevato alla destra del Padre.
In che cosa consiste questa vittoria? Nel momento in cui Gesù si è offerto sulla Croce, davanti a Dio è finita, è crollata la sovranità dell’autonomia arbitraria dell’uomo che fino ad allora aveva costruito la storia. La vittoria del Crocifisso consiste esattamente in questo: non è più la propria potenza arbitraria, la propria libertà (amor sui), dominante la propria esistenza dall’interno e la storia umana tutta, a preparare ad esse — esistenza propria e storia — il proprio futuro (la morte). È l’amor di Dio che entra nel cuore dell’uomo. La vittoria dell’amore di Dio avviene mediante il consenso obbediente con cui l’uomo si apre ad esso.
Il punto centrale, dunque, è questo: consentire all’Amore che perdona e santifica. In che cosa consiste questa santificazione? Sono quei frutti dello Spirito, quella vita nuova di cui il Nuovo Testamento spesso parla.
In questo contesto, non altrove si comprende l’esigenza etica o, se volete, la legge morale nella vita del credente.
Posso cominciare a spiegarmi con una parabola. Un uomo viveva in una ricca casa, in beatitudine e ricchezza. Un giorno decise di uscire. Uscendo, egli vide per strada un uomo immerso nella più profonda miseria e nella più tragica disperazione; sporco, affamato, malato. Che cosa decise allora? di prenderlo nella sua casa. Ovviamente, nella sua casa, la condizione di quell’uomo cambierà completamente: vivrà nella beatitudine e nella dignità, come si vive in quella casa. La parabola mi sembra utile. Il povero non ha fatto nulla per essere liberato dalla sua povertà. Anzi, tutto si opponeva a che fosse portato a casa. Il cambiamento della sua situazione ha una ed una sola spiegazione: la decisione libera dell’uomo ricco. Ma è ugualmente chiaro che, dopo che è entrato nella casa, quell’uomo non potrà più vivere come prima. Si noti bene: non è che la permanenza nella casa sia condizionata dal suo comportamento. Essa è condizionata solo dalla permanenza della decisione libera dell’uomo ricco di tenerlo presso di sé. Ma, tuttavia, il povero può decidere di non rimanere.
La legge morale non è la causa del perdono di Dio: noi non siamo amati da Dio perché agiamo bene, ma agiamo bene perché Dio ci ama. “La legge viene dopo”, dice san Paolo. Ciò che rimane ormai è l’offerta dell’Amore nel Cristo Crocifisso: su questo Dio non ritornerà più. Di questa offerta Dio non si pentirà più. Ma l’uomo perdonato, che ha accettato di essere amato da Dio, entra in una relazione, in una “casa”, in un “ethos” (ethos, come si sa, nel suo significato originario significa “dimora”) che è quello stesso di Dio: “amatevi come io vi ho amato”. Dio in Cristo ci ha aperto la possibilità di vivere come lui, ci ha donato la possibilità di comportarsi come Lui: cioè ci ha donato il Comandamento nuovo e perfetto, poiché ci ha unito in sé in Alleanza nuova.
La storia del credente è la storia di questa corrispondenza all’Amore, la storia cioè dell’ingresso della Santità di Dio nella sua esistenza.
A questo punto sono necessarie credo alcune precisazioni. La prima precisazione riguarda l’esigenza che l’ amore con cui amiamo Dio e il prossimo tenda alla sua perfezione. Esiste cioè una legge di tensione verso la perfezione della carità. In questo senso profondo, la vita del cristiano è un cammino: verso la perfetta corrispondenza all’amore di Dio. Ma la condizione fondamentale perché si possa dire di muoversi verso una certa meta è che non vada in direzione opposta. Fuori dell’immagine: che non si commetta peccato grave, peccato cioè che contraddice, che è contrario all’amore di Dio. Parlare di un cammino verso la carità perfetta e nello stesso tempo ritenere di poter vivere in stato di peccato mortale, è un non senso. Chi dice: “Voglio amare il Signore e osservare tutti i suoi comandamenti, ma spesso non ce la faccio e mi rialzo e riprendo”, questi vive una storia vera di perfezione. Chi dice: “Voglio amare il Signore ed osservo sempre otto comandamenti, ma due li tralascio, perche non ci riesco”, questi non vive più una vera storia di perfezione. Detto in altro modo: nell’obbedire a una norma morale negativa non c’è un più o un meno; nell’obbedire ad una norma morale positiva è possibile un più o meno.
La seconda precisazione è ancora più importante. La Misericordia di Dio non ha “gradi”: essa è infinita. La Giustizia di Dio non può venire a patti colla ingiustizia: essa è infinita. Pertanto, non esistono gradi diversi di santità o perfezione cristiana. Su questo punto, l’esplicito Magistero del Vaticano II ha reso obsolete molte discussioni fra teologi: “in Ecclesia omnes, sive ad Hierarchiam pertinent sive ab illa pascuntur, ad sanctitatem vocantur”; “Cunctis proinde perspicuum est, omnes christifideles cuius vis status vel ordinis, ad vitae christianae plenitudinem et charitatis perfectionem vocari” (LG 39-40). È vero che non tutti sono amati da Dio allo stesso modo, ma ciascuno è amato pienamente. Non si dà quindi una gradualità nella vocazione alla santità, poiché non si ha creatura spirituale che non sia chiamata alla pienezza della beatitudine dell’amore.
Penso di poter concludere la mia riflessione. Mi sia consentito di presentarne una breve sintesi.
Il punto di partenza e il fondamento di tutto è la Rivelazione della Misericordia di Dio che in Cristo giustifica il peccatore, trasformandone realmente la soggettività personale.
L’evento della giustificazione inizia nella persona una nuova storia dentro cui la necessità del progetto divino genera la possibilità di una libertà che nell’obbedienza a Esso realizza la persona umana nella santità.
Questa storia, come ogni storia è un movimento che se, da una parte, esclude che si possa ancora dimorare nel peccato, dall’altra implica una tensione spirituale verso la perfezione della nostra risposta all’amore di Dio.
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