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Comitato "Cardinale Carlo Caffarra"


Congresso Internazionale di Bioetica in Laterano
«Fertilità e concepimento: dopo il Vaticano II»
Roma, 5 aprile 1988

 

Data la vastità e complessità del tema, mi sia consentito iniziare con alcune premesse, per determinare rigorosamente il tema propostomi.

 

 0, 1. La mia riflessione mira a individuare i presupposti fondamentali dell’insegnamento del Magistero della Chiesa riguardante il rapporto fertilità-concepimento espresso in tre documenti fondamentali: Humanae Vitae, Familiaris Consortio e Donum vitae. La mia riflessione parte dalla convinzione che quanto è insegnato dal Magistero al riguardo è vero non perché è insegnato dal medesimo, ma che è insegnato dal Magistero perché è vero. Cercherò, dunque, di far vedere l’intima verità di questo insegnamento.

 

0, 2. Ma che cosa è precisamente insegnato dal Magistero della Chiesa cattolica circa il rapporto fertilità-concepimento? A me sembra che questo insegnamento possa riassumersi in due proposizioni fondamentali:

A) Ogni deliberato intervento che si proponga di privare l’atto eterosessuale della fertilità di cui esso atto fosse dotato, è intrinsecamente e gravemente illecito.

B) Solo l’atto coniugale è eticamente degno di porre le condizioni del concepimento di una nuova persona umana.

Colla prima proposizione si esclude — semper et pro semper — il ricorso alla contraccezione e alla sterilizzazione contraccettiva; colla seconda si esclude — semper et pro semper — il ricorso alla procreazione artificiale anche nel suo caso semplice (simple case). Vorrei, pertanto, mostrare la verità di queste due proposizioni-esclusioni in se stesse considerate e della loro reciproca connessione.

 

0, 3. Poiché, tuttavia, i presupposti e i fondamenti di quelle due proposizioni non possono essere percepiti, se non prendiamo esplicita coscienza delle difficoltà teoretiche, molto profonde, che impediscono quella percezione, il mio primo sforzo sarà di individuare quelle difficoltà e di mostrarne la loro inconsistenza teoretica.

 

1. Videtur quod non: le difficoltà

 

Col termine “difficoltà” non intendo unicamente ciò che è stato opposto direttamente a quelle due proposizioni, ma anche e sopratutto quei presupposti più generali che impediscono di cogliere la loro intima verità.

 

1, 1. Le prima difficoltà è costituita, a mio giudizio, dall’oscurarsi nella coscienza contemporanea della visione etica della realtà, sostituita dalla visione tecnica: oscuramento e sostituzione particolarmente gravide di conseguenza, quando si affronta il problema dei rapporti fertilità-concepimento.

La visione etica della realtà non è, in primo luogo, la conoscenza razionale di norme morali, ma l’intuizione intellettiva della sorgente stessa di ogni norma morale: la conoscenza razionale delle norme morali può essere più o meno estesa e intensa, ma essa è possibile solo se generata da quella intuizione.

Senza questa, si può certo parlare ancora di “norme morali”, ma in realtà si sta parlando di qualcosa d’altro, di norme di comportamento essenzialmente diverse.

Che cosa intuisco intellettivamente, quando vedo la realtà dal punto di vista etico? Intuisco — per dirla breve — la connessione trascendentale (nel senso classico non kantiano del termine) dell’essere col bene. Mi spiego. Ogni essere è visto nella sua specifica, propria bontà o dignità: bontà e dignità che sono costituite — e quindi definite cioè delineate — dall’essere stesso. La bontà/dignità di Dio è il suo stesso Essere divino; la bontà/dignità dell’uomo è il suo stesso essere umano. Si ha una visione etica della realtà quando il nostro intelletto vede ogni realtà in quanto partecipe di una sua propria consistenza assiologica. Questa visione muove la nostra volontà a riconoscere questa consistenza assiologica. “Secundum quodlibet esse rei, consequuntur ipsum modus, species et ordo: sicut homo habet speciem, modun et ordinem in quantum est homo”(1, q. 5, a. 5, ad 3um): la bontà connotata dalla triplice categoria (agostiniana) del modus/species/ordo consegue dall’essere. La visione etica, dunque, della realtà si ottiene attraverso un giudizio valutativo, mediante il quale l’uomo conosce la preziosità propria di ciò che è conosciuto, cioè dell’ente. Agostino pensa che tre siano le domande fondamentali che un intelletto creato può porsi, quando l’uomo si sveglia alla vita dello spirito: se esiste, che cosa è che esiste, quale valore ha ciò che esiste. L’uomo vede la realtà dal punto di vista dell’etica, quando si pone la terza domanda.

Da questa sommaria indicazione e descrizione della visione etica deriva immediatamente una conseguenza di enorme importanza speculativa e pratica, che potremmo formulare in questi termini: esistono atti che sono intrinsecamente e universalmente ingiusti, in quanto non riconoscono adeguatamente la preziosità intrinseca (la bontà propria) di quell’essere al quale essi si rapportano. Ho detto “universalmente”, cioè tali che non solo generalmente parlando (ut in pluribus), ma sempre e comunque sono ingiusti (semper et pro semper). E i giudizi razionali mediante i quali l’uomo conosce quali sono questi atti, sono precisamente le norme morali (negative). Esse esprimono semplicemente ciò che è dovuto a ogni essere, semplicemente in ragione della preziosità propria di esso.

Nella visione etica l’uomo si eleva alla conoscenza di tutto ciò che esiste nella sua intrinseca qualità ontologica. La realtà non è vista come una semplice successione di fatti, ma si percepisce in essa una razionalità, un ordine onto-assiologico che, secondo la profonda visione tomista, è la stessa “ratio divinae sapientiae in quantum per eam omnia sunt creata moventis omnia ad debitum finem”, (I-II, q. 93, a. 1). L’uomo vede eticamente la realtà quando diventa partecipe della luce di questa sapienza divina.

Quando la visione etica è sostituita dalla visione tecnica? Rispondere a questa domanda non è facile, e pertanto sono costretto a procedere abbastanza lentamente, passo dopo passo. Nella prima quaestio del De Veritate, san Tommaso si pone la domanda forse più decisiva per il nostro destino di uomini: è l’intelligenza umana che misura la realtà o la realtà misura l’intelligenza umana? Il concetto di “misura” è qui veramente centrale. Il termine significa un rapporto di dipendenza fra le due realtà rapportate (intelligenza creata-realtà), in forza del quale la realtà che è “misurata” dipende, non necessariamente quanto al suo essere, ma quanto alla sua verità, al suo essere ciò che è, dalla realtà che è “misurante”. Affermare, allora, che l’intelligenza umana è il misurante equivale ad affermare che essa istituisce, crea o produce la verità propria e, dunque necessariamente il valore della realtà.

 

Devo tuttavia prima fare due premesse. La prima. Quando in uno spirito la visione tecnica della realtà sostituisce la visione etica, l’uomo diventa la misura dell’essere, come ho detto. E pertanto l’uomo diventa la misura dell’uomo. Ma che cosa significa precisamente “uomo” in questo contesto? Non può significare altro che l’esercizio della sua libera volontà: l’uomo è ricondotto esaustivamente alla sua soggettività spontaneamente creativa. Il che è la definizione del trascendentale moderno, in tutta la sua vicenda speculativa. Ma l’uomo di fatto — si noti bene di fatto — è anche corpo, è anche dinamica psichica. Che ha a che fare questa fattività umana con l’umanità — con l’essenza specifica — di ogni persona umana?

E siamo così alla seconda premessa. Come già aveva profondamente percepito il padre del trascendentale moderno, Cartesio, l’abisso fra il corpo e lo spirito è invalicabile, appartenendo il primo al mondo delle “res extensae”, cioè del quantificabile-misurabile e il secondo delle “res cogitantes”.

Il corpo non è l’uomo; non è personale e la persona non è corporale. Il corpo può diventare l’uomo: può diventare personale e la persona può diventare corporale. Ma in che cosa consiste questo processo di umanizzazione del corpo? Coerentemente, poiché l’unica misura non misurata è la soggettività spontaneamente creativa, quel processo consisterà nel dominio-uso del corpo, in ordine al raggiungimento di determinati scopi, per esempio un concepimento di una nuova persona umana. Il corpo, non essendo come tale costitutivo della persona — che è pura spontaneità creativa — e solo un suo possesso, può e deve entrare nella libera progettazione che la persona fa di se stessa. Heidegger ha mostrato con finezza di analisi l’intima consanguineità fra la vicenda teoretica della modernità e il logos proprio della tecnica. Il modo con cui l’uomo “si prende cura” del suo corpo mi sembra ne sia una conferma.

Mi è ora più facile descrivere la seconda difficoltà dopo queste due premesse. Essa consiste nella perdita della visione etica del corpo umano, sostituita da una visione tecnica. Il corpo non è più visto nella sua qualità personale, ma nella sua quantità cosale; esso può e deve essere usato in vista del raggiungimento di determinati scopi, progettati dalla libertà umana.

Due semplici esemplificazioni.

Esempio A. I due corpi di un uomo e di una donna sposati sono in grado di produrre rispettivi gameti; una volta che essi si siano fusi, danno origine ad uno zigote umano; il corpo della sposa è in grado di compiere la gestazione. Ciò che tuttavia impedisce la paternità-maternità è la impossibilità della fusione dei due gameti. Ma se si riesce tecnicamente a superare questa difficoltà colla FIVET [Fecondazione in vitro con embryo transfer - ndc], non si vede quali problemi etici ci siano. Infatti, il valore etico è il loro amore coniugale; è il loro desiderio legittimo del figlio: il fatto che sia un atto sessuale coniugale a porre le condizioni del concepimento è un dato puramente naturale, cioè non personale. Sotto questo aspetto — in quanto atto fecondo — l’atto coniugale non appartiene al mondo della libera soggettività creativa poiché è un dato puramente biologico e dunque a-morale.

Esempio B. Due sposi ritengono di non dover procreare, pur essendo normalmente fertili. Ma nello stesso tempo non intendono aver rapporti solo nei periodi naturalmente infertili. Poiché il loro amore coniugale si esprime attraverso il rapporto sessuale; poiché la fertilità inerente alla loro sessualità è un dato puramente corporeo-biologico, esso deve essere inserito nel loro progetto coniugale, come mezzo per un fine.

È coerente in primo luogo l’affermazione della liceità della FIVET. Se infatti la proprietà dell’atto coniugale di porre le condizioni del concepimento umano è — come pensa la visione biologistica — un dato puramente di fatto, un dato puramente biologico, non si può più vedere come non sia eticamente lecito sostituire a un dato puramente biologico una attività tecnica, mediante la quale raggiungere quello scopo a cui la natura non può pervenire. Per definizione infatti ciò che è “naturale” è sostituibile; per definizione, ciò che è “personale” è insostituibile. Il “naturale” è quantificabile , è ripetibile, è in serie; il “personale”, invece, è qualificabile , è irripetibile, non fa parte di una serie perché non fa numero. A un processo naturale, la tecnica sostituisce una protesi che svolge esattamente le stesse funzioni; all’atto della persona non può sostituirsi nessuna protesi che lo compia al suo posto, semplicemente perché ogni persona è irrimpiazzabile. Mai come in questo caso la contraddizione fra la visione etica della fertilità umana e la visione tecnica è apparsa in tutta la sua inequivocabile chiarezza.

È coerente, in secondo luogo, alla visione biologistica della fertilità umana anche l’affermazione della liceità della contraccezione. Se infatti i due sposi decidono di avere un rapporto sessuale nel periodo fertile; se — come pensa la visione biologistica — la fertilità inerente all’atto coniugale è un dato puramente di fatto, un dato puramente biologico, non si può più vedere come non sia eticamente lecito — almeno quando si hanno buone ragioni per farlo — privare la sessualità coniugale, almeno temporaneamente, della sua fertilità. Infatti, il mondo della natura cioè delle cose è precisamente sottoposto all’uso razionale delle persone. La qualificazione etica del rapporto di uso è per definizione costituita dalla qualificazione etica dello scopo, in vista del quale si fa uso di una realtà.

Anche in questo caso la contraddizione fra le due visioni — quella etica e quella tecnica — appare in tutta la sua evidente chiarezza.

Vorrei ora concludere questa mia riflessione sulle difficoltà, fermandomi a considerare un importante corollario.

Poiché — come dice Pascal — la suprema dignità dell’uomo consiste nel pensare, è di somma importanza — continua Pascal — l’ imparare a pensare bene. Anche e soprattutto quando l’uomo pensa i problemi etici, deve conoscere e mettere in atto un tipo di argomentazione corretto, cioè adeguato alla domanda etica. Il corollario, allora, di ciò che ho detto finora potrebbe essere formulato in questi termini. Chi sostituisce alla visione etica della realtà — dell’uomo, del corpo umano, della fertilità umana — la visione tecnica, deve ricorrere, per forza logica, a un modo di argomentare, cioè di pensare, che semplicemente non sarà mai in grado di portare l’uomo alla verità sul bene e sul male. Mi rendo conto della complessità del problema e cercherò di procedere gradualmente.

Primo. La tecnica si fonda su un sapere che per sua natura non può raggiungere che la probabilità, molto alta/alta/bassa. Infatti essa suppone e il sapere scientifico, il quale, in quanto sapere per induzione, è sempre un sapere per approssimazione e in questo senso ipotetico.

Inoltre la tecnica prevede la praticabilità dei suoi protocolli sulla base di una verifica precedente, statisticamente e solo statisticamente dimostrata. Per queste due ragioni, ogni realizzazione tecnica è sempre un esperimento, un “provare a vedere se…”. Solo a protocollo realizzato il tecnico ha la certezza della riuscita.

Secondo. L’etica si fonda su un sapere che per sua natura deve essere assolutamente certo. Infatti, l’etica è il “caso serio” dell’esistenza, poiché ciò di cui parla essa non è un bene parziale e penultimo dell’uomo: è il bene totale e ultimo della persona. L’etica è la scienza del fine ultimo dell’uomo e del suo raggiungimento. Il fallimento di un protocollo tecnico causa un danno, un male parziale, limitato, all’ uomo. L’errore nell’etica è la peggiore disgrazia dell’uomo; è la morte dello spirito. Esso può causare il male totale, infinito dell’uomo: la perdita di se stesso. Nella sua suprema maestà l’etica spregia ogni sapere per approssimazione e il sapere etico è l’unico sapere che rifugge sempre dal trasformarsi in ipotesi.

Terzo. Se non vedo più dal punto di vista dell’etica il problema del rapporto fertilità-concepimento, ma dal punto di vista tecnico, la strada che imbocco per risolverlo non può essere quella propria dell’etica. L’introduzione massiccia nell’etica cattolica dell’argomentazione proporzionalista (quella fondata sul bilanciamento dei vari beni in questione) e di quella consequenzialista (fondata sul confronto fra le varie conseguenze previste), è il segno chiaro che questa etica non è più un’etica, ma una tecnica di soluzione del problema fertilità-concepimento. L’argomentazione del bilanciamento dei beni infatti, implica una commensurabilità dei beni e mali, fra i quali si istituisce il confronto razionale: non si possono confrontare realtà che appartengono a gradi dell’essere diversi. Non posso chiedere se è più pesante un blocco di marmo o un mottetto di Palestrina, semplicemente perché dal punto di vista del peso le due realtà non hanno nulla in comune. La musica di Palestrina non è quantificabile.

Ora, delle due l’una. O i beni — rispettivamente i mali — in questione sono quantificabili, almeno da un certo punto di vista, ma allora non si tratta più di beni — rispettivamente di mali — morali; o i beni — rispettivamente i mali — in questione non sono affatto quantificabili, da nessun punto di vista, e allora non è possibile nessun confronto razionale. Il bene — rispettivamente il male — gode di una certa ma vera infinità e ciò che è infinito non può essere commisurato con niente. Il bene e il male morale posseggono una certa infinità poiché l’uno, il bene, consiste fondamentalmente nel riconoscere Dio come Dio e il male nel negare che Dio sia Dio.

Più semplice è mostrare come l’argomentazione consequenzialista sia del tutto estranea all’etica. Essa o ricade nella precedente argomentazione o essa non può non ridurre l’etica a un sapere di previsione, che la trasforma in sapere ipotetico e per approssimazione.

Quarto e ultimo. La messa in atto di questo modo di pensare impedisce, alla fine, di ammettere la possibilità stessa di atti sempre e comunque intrinsecamente illeciti; rende sempre più difficile cogliere la necessaria presenzialità dell’imperativo etico; rischia di ridurre l’etica a “sperimentare”, a “provare se”, togliendole alla fine ogni serietà. E allora nessun argomento portato dal magistero riuscirà convincente, poiché l’argomentazione magisteriale è di carattere etico e non tecnico, nascendo dalla visione etica della realtà.

 

2. Respondeo dicendo quod: la visione del Magistero

 

Benché le due proposizioni magisteriali rispondano a due domande diverse, è possibile, credo, individuare alla loro origine l’identica visione etica. Il compito di questo secondo momento della mia riflessione è di mostrare questa visione etica, la sua intima verità. A prima vista, sembrerebbe che il modo con cui viene giudicata la contraccezione non sia del tutto coerente col modo con cui viene giudicata la FIVET. Il primo giudizio sembra, infatti, nascere da una profonda stima della procreazione, stima che non sembra più essere condivisa quando, di fronte alla naturale impossibilità di procreare, la tecnica può soddisfare il legittimo desiderio degli sposi. E tuttavia insistiamo nella nostra affermazione: è la stessa visione etica del rapporto fertilità-concepimento che fonda le due proposizioni. Quale visione etica? Nel rispondere sono costretto a procedere gradualmente.

 

2. 1. Nel venire all’essere di una nuova persona umana, molti sono i soggetti personali coinvolti in questo avvenimento: i due sposi, la nova persona che viene all’essere, Dio creatore dello spirito della nuova persona. Questo avvenimento — la venuta all’essere di una nuova persona umana — accade nel modo dovuto, si realizza nella verità e nella bontà, quando le relazioni fra i soggetti personali coinvolti in esso sono relazioni giuste: adeguate cioè alla dignità, all’essere di ciascuna di esse. In che cosa consiste questa giustizia, questa adeguazione? A questo punto, diventa necessario richiamare brevemente, ma con la massima precisione possibile, una verità etica centrale.

Come ho già detto all’inizio della mia riflessione, la visione etica dell’essere è la visione che coglie l’essere nella sua trascendentale connessione col bene: l’essere è il bene e il bene di ogni essere è il suo essere stesso. Ora, nell’universo dell’essere, l’essere-persona “est quod est perfectissimus in ratione entis”, come scrive san Tommaso. Si noti bene: in ratione entis; cioè, quanto all’essere, nulla può essere più perfetto che la persona.

Non è possibile essere più che persone. Questa suprema perfezione della persona deve essere vista e dal punto di vista del suo atto di essere e dal punto di vista del suo agire. Non solo infatti è impossibile essere più che persone, ma è anche impossibile agire in un modo più perfetto di come agiscono le persone. Possiamo, forse, completare l’affermazione tomista: persona est quod est perfectissimum in ratione entis et in ratione operardi.

Dal punto di vista dell’essere. La persona infatti è una sostanza spirituale e la sostanzialità spirituale è il vertice dell’essere. Non possiamo in questo contesto approfondire ulteriormente questa affermazione.

Dal punto di vista dell’agire. L’atto supremamente personale è l’atto libero mediante il quale la persona realizza se stessa e diventa — come disse profondamente il Nisseno — padre e madre di se stessa. Poiché questo è la “condizione”ontologica della persona, anche la bontà, trascendentalmente connessa col suo essere è unica e singolare. Potremmo esprimere questa bontà nel modo seguente: ogni cosa ha un prezzo, solo la persona ha una dignità. Che significa: ogni cosa e interscambiabile con un’altra, è equiparabile ad un’altra, può essere confrontata con un’altra. La persona, ogni persona, al contrario, è unica e singolare nel suo valore; non può essere equiparata a niente e non può essere messa a confronto con niente. Essa ha veramente un valore assoluto, in questo senso.

Questo valore unico — che noi abbiamo chiamato “dignità” — della persona non consiste nella sua capacità di rendere felice un’altra persona; non dipende dal fatto che altre persone gliela attribuiscono. Essa (dignità) è semplicemente il suo essere persona.

Chi percepisce questa singolare dignità della persona non può non percepire una verità etica fondamentale. Esiste una sola relazione giusta alla persona, cioè adeguata alla sua dignità, una relazione che può essere espressa nel modo seguente: ogni persona deve essere voluta in se stessa e per se stessa. In ogni situazione, cioè, la persona deve essere trattata come un fine e mai esclusivamente come un mezzo in vista dei raggiungimento di un fine. E da questa verità deriva, come necessario corollario, che esistono atti che sono sempre e comunque (ut in omnibus, non ut in pluribus) illeciti, poiché per loro stessa natura non riconoscono adeguatamente l’essere-persona.

 

2, 2. Dopo questo breve richiamo ad una verità etica centrale possiamo ritornare al nostro tema specifico. Le due proposizioni magisteriali nascono da questa visione etica della persona umana. Cominciamo dalla proposizione che giudica sempre illecita la FIVET anche nel caso semplice.

Coloro che contestano questo giudizio negativo dicono: il desiderio legittimo di un bene, la venuta all’esistenza di una nuova persona umana, spinge gli sposi a porre quelle azioni che precisamente possono far venire all’essere una nuova persona. È chiaro: l’atto normale è il rapporto sessuale coniugale. Tuttavia quando questo “per ragioni patologiche” non fosse in grado di procreare, ogni inconveniente, legato alla procedura tecnica è superato e dalla bontà del desiderio e dalla bontà inerente al concepimento di una nuova persona umana.

Ecco la risposta. La ragione che da’ origine alla procedura tecnica e la natura stessa della procedura introducono una nuova persona umana nell’essere, come un prodotto che immediatamente dopo la sua produzione sarà raccolto come persona nella comunità coniugale. Ma l’intrinseca dignità di ogni persona esige che nessuna persona, in nessun momento della sua esistenza, sia collocata in una condizione o status sub-personale, cioè di cosa. Quindi la FIVET è un atto intrinsecamente illecito.

La ragione che da’ origine alla richiesta di una FIVET è un tale desiderio del figlio che senza esso si pensa di non raggiungere la pienezza della propria auto-realizzazione. Il rapporto colla nuova persona umana viene istituito, fin dal suo sorgere, in una forma eticamente ambigua, quantomeno. Il figlio, cioè una persona umana, è visto come ciò di cui si ha bisogno: come ciò che serve ad essere se stessi, dando compimento al proprio desiderio. E questa è la prima regione per cui la persona è vista come un prodotto, offerto perché un desiderio sia soddisfatto.

La natura, poi, dell’attività che pone le condizioni per la venuta all’essere della nuova persona è tale che il figlio è il termine di un produzione: è qualcosa di fatto, non di generato. Il fatto che poi in seguito il figlio sia collocato entro una comunione coniugale ed amato come persona non elimina il fatto che sia stato introdotto nell’essere come una cosa.

 

 

N.d.c.: [A questo punto nel dattiloscritto mancano alcune pagine che, intuitivamente, avrebbero concluso l’esposizione della prospettiva magisteriale in ordine alla illiceità di contraccezione e fecondazione artificiale, FIVET in specie.
Sembra che le pagine mancanti concludessero il punto 2, 2. e sviluppassero il punto 2, 3. articolato in cinque considerazioni riassuntive. Il testo riprende con la parte finale della terza di queste.
La rilevanza di questa ultima parte è tale che vale anche da sola, come trattazione di un punto cruciale: il rifiuto della contraccezione e della FIVET nascono, nella riflessione magisteriale, dalla stessa radice etica].

 

2, 3. […].

Ora, delle due l’una. O questa preferibilità significa semplicemente un non attuare il valore A per attuare il valore B oppure significa la distruzione del valore A per poter attuare il valore B. Tralasciamo la prima ipotesi che non è la nostra, e consideriamo la seconda.

Se esistesse un modello relazionale secondo il quale, in ordine a X, posso distruggere il valore A per realizzare il valore B, esisterebbero situazioni nelle quali il bene (morale) viene compiuto facendo il male (morale), nelle quali diveniamo partecipi della santità di Dio facendo un atto che la contraddice, nelle quali ameremmo una persona odiandola. Il che è semplicemente assurdo. Il confronto fra i beni (morali) è impossibile. Pertanto le ragioni per compiere un atto contraccettivo non possono mai essere razionalmente preferite alle ragioni per preferire un futuro dal quale sia assente la nuova persona umana, semplicemente perché non possono essere oggetto di un confronto.

Quarto. A questa seconda ragione — l’impossibilità di un modello razionale di confronto — si può sfuggire solo mediante una duplice negazione: o la negazione che la fertilità inerente all’atto coniugale sia in sé e per sé un valore etico o la negazione che la venuta all’esistenza di una nuova persona umana sia in sé e per sé un bene. Ed è precisamente ciascuna di queste due negazioni che fa apparire l’assenza di quella visione etica della realtà di cui ho già parlato varie volte. Infatti la fertilità inerente all’atto coniugale (si noti bene: è di questa che parlo) — in quanto l’atto coniugale è un atto della persona in quanto la persona è un unità sostanziale — è una realtà personale e non qualcosa di estraneo alla persona di cui essa può fare uso.

Ogni nuova persona è un bene in sé e per sé e pertanto tale è — cioè un bene in sé e per sé — anche la sua venuta all’essere.

Quinto e ultimo. Non sono tuttavia da escludersi situazioni nelle quali da una parte esistono ragioni, fondate eticamente, per non procreare; ragioni cioè che non nascono dalla negazione del valore della venuta all’essere di una nuova persona. Dall’altra: nessuna ragione potrà mai esserci che giustifichi la contraccezione. In questa situazione, se gli sposi compiono un atto coniugale, agiscono contro la ragione. Non resta che una via, eticamente percorribile, quella di non compiere in queste situazioni l’atto coniugale.

 

2, 4. Vorrei ora mostrare come, quindi, le due proposizioni magisteriali nascono dalla stessa intuizione etica, escludendo ogni riduzione dell’etica alla tecnica e dell’agire al fare. Come nel caso della contraccezione, la venuta all’esistenza di una nuova persona umana è giudicata un male in ordine a un possibile futuro, così nel caso della FIVET la venuta all’esistenza di una nuova persona umana è giudicata un bene in ordine a soddisfare il desiderio di un futuro voluto. In ambedue i casi, né la nuova persona né la persona dei coniugi è voluta in se stessa e per se stessa.

Come nel caso della contraccezione, essendo la nuova persona considerata un male, qualora la tecnica contraccettiva non funzioni, i coniugi ricorrono spesso all’aborto: esistono studi che hanno mostrato questo. Così nel caso della FIVET, essendo la nuova persona prodotta, qualora la tecnica riproduttiva non funzioni il prodotto non bene riuscito viene gettato, normalmente. La storia della FIVET lo documenta ampiamente.

 

2, 5. Può darsi che qualcuno si meravigli del fatto che nel tentativo fatto di mostrare l’ultima verità delle due proposizioni magisteriali, non ho mai parlato della “connessione inscindibile tra il significato unitivo e il significato procreativo” dell’atto sessuale coniugale.

Infatti questa connessione non è, logicamente parlando, il fondamento di quelle due proposizioni, ma ne è piuttosto la sintesi conclusiva.

La visione etica della realtà scopre nella realtà, nell’universo dell’essere, un ente dotato di una bontà, di una preziosità così singolare da collocarlo, nei gradi onto-assiologici dell’essere creato, al supremo vertice. Questo ente è l’ente-persona. La percezione della “dignità” della persona porta all’affermazione e della illiceità della FIVET e della illiceità della contraccezione. Cioè porta all’affermazione che il processo procreativo, più esattamente l’atto che pone le condizioni del concepimento di una nuova persona umana, non deve essere un atto diverso dall’atto sessuale coniugale. E all’affermazione che l’atto sessuale coniugale, quando è fertile, non deve essere privato della (o separato dalla) sua capacità di porre le condizioni del concepimento di una nuova persona umana.

E dunque: la separazione della capacità procreativa dall’atto coniugale e la separazione dell’atto coniugale dalla capacità procreativa è sempre moralmente ingiusta, cioè: le due realtà sono moralmente inseparabili.

In breve: contraccezione e FIVET non sono in sé illecite perché fertilità e concepimento sono inseparabili, ma fertilità e concepimento sono inseparabili perché contraccezione e FIVET sono illecite.

 

3. Risposte alle obiezioni

 

Può essere che la tesi centrale della mia riflessione sia rigettata in blocco. Essa, infatti, dice (per richiamarla sinteticamente ancora una volta): la giustificazione etica della contraccezione e della FIVET è logicamente coerente solo con una visione non etica dell’essere e della persona, ma tecnica, in quanto questa — la visione tecnica — non vede nella fertilità e nel concepimento che meri dati di fatto, eventi biologici dai quali è assente, quando fossero in se stessi e per se stessi considerati, ogni preziosità di carattere propriamente etico.

E il rifiuto in blocco di questa tesi è precisamente motivata, da chi rifiuta, dalla “visione personalista”: è precisamente perché, dicono gli obiettori, noi partiamo da una visione personalista e non biologica della fertilità e del concepimento, che giungiamo a negare la intrinseca illiceità della contraccezione e della FIVET. La prima e necessaria constatazione che si impone in situazione come questa, è la seguente: l’etica (della fertilità e del concepimento) è caduta completamente nell’equivocità. Equivocità è infatti quella condizione del linguaggio umano nella quale alcuni termini hanno lo stesso suono, ma significano cose completamente diverse. Se l’appello alla visione personalistica conduce sia alla negazione sia alla affermazione dell’illiceità dello stesso atto, ciò significa che “visione personalista” connota due realtà completamente diverse. Stante il fatto — non discusso da nessuno — che la visione che si ha della persona è uno dei pilastri dell’etica, non c’è chi non veda che dobbiamo qui affrontare un problema centrale. Per dare ordine al mio approccio, procederò in due tempi. In uno primo momento cercherò di chiarire il concetto di persona che sta alla base della contestazione alle due proposizioni magisteriali; in un secondo momento cercherò di dimostrare la inconsistenza teoretica di questa visione.

 

3, 1. L’affermazione della liceità della contraccezione e della FIVET è sempre giustificata, alla fine, qualunque sia il modello argomentativo, in base al fatto che sia la fertilità sia il porre le condizioni di un concepimento sono realtà che, se considerate in se stesse e per se stesse appartengono all’universo delle “cose”e non dei valori etici. E, pertanto, ambedue possono entrare in un giudizio di bilanciamento-confronto dei beni ed essere non preferite a beni più importanti. Per brevità mi si consenta d’ora in poi di limitare la mia considerazione alla contraccezione. Il giudizio che nega alla fertilità inerente all’atto sessuale coniugale, la sua appartenenza all’universo dei valori etici, può essere coerentemente mantenuto solo sulla base di un presupposto antropologico. Il presupposto secondo il quale la persona, rigorosamente parlando, si riduce completamente al suo spirito.

A questo punto è assolutamente necessario vedere l’intima struttura di questa riduzione, altrimenti ancora una volta si cade in un grave equivoco. La visione della persona come spirito, infatti, appartiene a una più che stimabile tradizione filosofica non solo occidentale. E tutti conosciamo le incertezze di Agostino al riguardo e le forti opposizioni alla tesi tomista dell’anima forma sostanziale unica del corpo. Ma non è di questo che sto parlando. La riduzione della persona al suo spirito di cui sto parlando ha un’intima struttura teoretica completamente diversa da quella, poniamo, di tradizione agostiniana.

Essa ha il suo padre in Cartesio. Più precisamente nel punto di partenza di tutta la sua speculazione: l’affermazione secondo la quale “primum cognitum faciens omnia cognoscere” è il pensiero stesso. Come ha giustamente e profondamente notato Heidegger, in realtà non si tratta di un “punto di partenza” che consista in un atto di pensiero, ma in un atto di volontà. In questo modo sono già poste le basi dell’antropologia trascendentale moderna, introdotta massicciamente nella teologia cattolica da Karl Rahner. Lo spirito è spontaneità creativa, puramente e semplicemente, e il soggetto personale — che non può non essere che spirito — è legge a se stesso la sua verità è la coscienza che esso ha di se stesso: il suo essere è la coscienza.

Se questa è la definizione del soggetto personale-spirituale, è impossibile teoricamente che la materia entri nella costituzione di un soggetto personale, è impossibile rinvenire in un dato biologico una razionalità che esiga quel rispetto dovuto ai valori etici.

Infatti la materia non è — per definizione — libera spontaneità creativa, ma è ciò che frena la libera spontaneità creativa dello spirito; la materia, se considerata in sé e per sé, non possiede alcun ordine suo proprio, che riceve solo (e può ricevere solo) dallo spirito. Che ne è allora del corpo umano? Da una parte l’antropologia trascendentale non può pensare al corpo umano come elemento costitutivo della persona (e pertanto la fertilità non è in sé e per sé un valore morale, ma solo pre-morale), ma dall’altra, essendo lo spirito umano uno spirito incarnato, il corpo deve essere “integrato” alla libera spontaneità creativa dello spirito. Ma che cosa significa “integrato”? Ai dinamismi biologici deve essere imposta una “forma” razionale. Ma, ancora, in che cosa consiste questa “in-formazione razionale”? Nell’assumere il dato biologico dentro il progetto dello spirito, quel progetto che è l’atto specifico esclusivo e creativo dello spirito. Questa affermazione può anche esigere la distruzione del dato biologico (= contraccezione), né questa distruzione è eticamente ingiusta, in quarto ciò che decide della giustizia/ingiustizia di un atto, il cui oggetto o materia è un dato biologico è precisamente la sua sussunzione dentro al progetto dello spirito, cioè della persona.

L’affermazione di questa verità comporta — come pensò Sartre, per esempio — la negazione di ogni altra verità? Prima di rispondere leggo un breve passo di san Tommaso: “Res intellecta ad intellectum aliquem potest habere ordinem vel per se vel per accidens. Per se quidem habet ordinem ad intellectum a quo dependet secundum suum esse; per accidens autem ad intellectum a quo cognoscibilis est. Sicut si dicimus quod domus comparatur ad intellectum artificis per se, per accidens autem comparatur ad intellectum a quo non dependet… et inde est quod res artificiales dicuntur verae per ordinem ad intellectum nostrum”(I, q. 16, a. 1).

Nel suo fare l’uomo istituisce un rapporto di dipendenza nell’essere del prodotto da chi lo produce. È questo, allora, l’atto archetipo della libertà? L’averlo pensato costituisce, forse, la vera tragedia della modernità. L’atto libero “per eminentiam” è quello che decide della relazione della persona al suo fine ultimo, in quanto l’uomo liberamente decide quale sia il suo fine ultimo, ove porre il suo bene supremo e ultimo. Ma questo supremo esercizio della libertà è preceduto da un ordine onto-assiologico, nel quale la libertà può collocarsi o dal quale la libertà può uscire. In questo senso il momento più intensivo della libertà umana è il rapporto di essa colla legge morale: il suo rapportarsi cioè con l’infinita esigenza della santità di Dio che lo chiama a convertirsi. Come scrive Kierkegaard: “Volendo essere se stesso l’io si fonda, trasparente, nella potenza che l’ha posta”. Ma se si toglie questo rapporto, ponendo la soggettività trascendentale come fondamento ultimo del momento etico, la libertà non è esaltata, ma umiliata al di sotto della verità sua propria. Viene ridotta alla e chiusa nella prigione della “res artificiales” (direbbe san Tommaso) ove certamente ciò che è vero, è vero in ordine alla nostra intelligenza. Ma questo è pagato al più alto prezzo: di togliere alla libertà — di fatto, anche se non a parole — la sua più alta dignità, il “deliberare da seipso in ordine ad finem debitum” (san Tommaso). Questo ho inteso dire quando fin dall’inizio ho parlato della sostituzione della visione etica, da cui nascono le due proposizioni magisteriali, colla visione tecnica.

 

Conclusione

 

Nel primo libro di Samuele (cap. XVI) troviamo una pagina di singolare attualità. Quando Samuele si porta, per comando divino, nella casa di Jesse per trovarvi e ungere il re, vive un momento di sconcerto, poiché nessuno tra i figli era l’eletto. E il profeta sente la parola del Signore che dice: “… Io non guardo ciò che guarda l’uomo”.

Esistono due sguardi, due visioni: lo sguardo-visione dell’uomo e lo sguardo-visione di Dio. L’oggetto del primo non è l’oggetto del Secondo: “Io non guardo ciò che guarda l’uomo”. Questa separazione dello sguardo dell’uomo dallo sguardo di Dio, fa sì che l’uomo vedendo non veda; che l’uomo cada o nell’illusione, non vedendo ciò che è, o nell’allucinazione, vedendo ciò che non è.

L’uomo accede allo sguardo di Dio in primo luogo quando ha una visione etica della realtà: “lumen rationis naturalis quo discernimus quid sit bonum et malum… nihil aliud sit quam impressio divini luminis in nobis” (I-II, q. 91, a. 2). Allora egli è collocato nello splendore della luce divina, della gloria di Dio. Quando se ne allontana, cade nell’oscurità, anche se conosce tutti i segreti della fertilità e del concepimento dal punto di vista scientifico.

Perché questa caduta sia evitata il Redentore dell’uomo ha istituito il Magistero, perché all’occhio dell’uomo non sia tolta la possibilità della visione più bella e beatificante: la visione dell’infinito splendore della gloria di Dio, quale rifulge nel Figlio unigenito morto e risorto per salvare la dignità incomparabile di ogni persona umana.