INCONTRO
CON I GENITORI DELLA PARROCCHIA DI S. BARTOLOMEO IN BOSCO
La missione educativa della famiglia
20 gennaio 1999
1. Esistono oggi condizioni obiettivamente più difficili per
lo svolgimento della missione educativa propria della famiglia. Accenno
solamente alle principali.
La prima è costituita dalla mancanza di unità fra
le varie proposte educative. La persona del bambino, del ragazzo e del
giovane è divenuto come una sorta di “super-market” nel quale gli
vengono offerte tante interpretazioni della vita, spesso fra loro contrarie;
un crocevia attraverso il quale transitano opposte visioni dell’esistenza.
Quella fatta in famiglia è diventata una delle tante, spesso per
altro sprovvista di quella «potenza» di cui sono in possesso
altre: si pensi, per fare solo un esempio, al mezzo televisivo.
La seconda, ben più importante, è costituita dalla
frequente mancanza di quelle certezze, di quelle sicurezze di cui un genitore,
ogni educatore ha bisogno per poter educare. L’educazione cioè esige
che l’educatore possegga delle certezze fondamentali riguardanti la vita,
il suo significato, l’agire umano e la libertà della persona. Vivendo
anche l’adulto, l’educatore, in una cultura fortemente relativista, dominata
da un profondo scetticismo, egli è esposto al «contagio scettico»:
esso rende assai difficoltoso il lavoro educativo.
La terza condizione, che è parzialmente all’origine della
seconda, è il venire meno, almeno in parte, della funzione di «sostegno»
svolta sempre dai due punti fondamentali di riferimento, lo Stato e la
Chiesa. La funzione dello Stato attraverso le sue leggi in primo luogo
e, secondariamente, attraverso i suoi organi di controllo, è fondamentale
come «sussidio» (non come «sostituto») al lavoro
educativo. Voglio fare solo un esempio, il più semplice che si possa
immaginare: il non volere mettere limiti precisi di orario ai luoghi di
divertimento del sabato notte crea problemi assai gravi all’interno di
molte famiglie. Ma non meno importate appare, anche nel contesto di cui
stiamo parlando, la funzione della Chiesa. Essa ha costituito per secoli
uno dei luoghi fondamentali in cui la persona umana era educata alla vita:
pensiamo all’esperienza degli oratori parrocchiali, all’associazionismo
cattolico.
La quarta sorgente di difficoltà è la condizione
in cui versa la scuola oggi. Non c’è bisogno di dimostrare l’importanza
che ha la scuola: è difficile esagerarla. Ora che la scuola stia
attraversando un momento di grave difficoltà è ormai un’ovvietà.
Una sperimentazione incerta e pasticciona, il dubbio radicale se si debba
attribuire alla scuola ancora un ruolo educativo in senso forte, un’incapacità
obiettiva di guidare il ragazzo ad un uso della sua ragione che lo renda
critico verso un potere sempre più invadente, hanno ormai reso la
scuola un luogo dove il meglio che ci si possa attendere è che ti
prepari al lavoro futuro. Nulla di più; spesso molto di meno.
La combinazione di questi quattro fattori ha creato una situazione
abbastanza inedita nella storia del nostro popolo.
Da una parte, nei ragazzi e giovani si fa strada in misura sempre più
consistente la consapevolezza di non «essere più generati»
degli adulti, dai genitori (cfr. le ricerche di P. Donati); dall’altra
parte, negli educatori ed in primo luogo nei genitori si fa strada la consapevolezza
di non essere più capaci di generare (donde il rifiuto di farlo
anche biologicamente). In una parola: è quest’esperienza del «generare»
che sembra essere entrata in crisi. Vorrei fermarmi più lungamente
su questo punto.
2. Partiamo da una constatazione che è al limite del banale.
A diversità di ogni altro animale che solitamente nel giro di poco
tempo (a volte perfino qualche giorno) impara ad essere e vivere autonomamente,
l’uomo ha bisogno di una “cura” molto prolungata. Se non diamo al termine
«generazione» un significato non solo biologico, ma anche spirituale,
dobbiamo dire: la generazione umana intesa come «trasmissione della
umanità» è un processo assai lungo. Vorrei che faceste
assai attenzione a questa idea di «trasmissione dell’umanità»
con cui ho definito la generazione umana.
L’umanità della persona, quell’umanità che è
di ciascuno di noi, è come un patrimonio che comprende molti beni.
La nostra umanità è il nostro corpo; la nostra umanità
è il nostro “cuore”, cioè la nostra capacità di appassionarci,
di affezionarci alle cose e alle persone; la nostra umanità è
il nostro spirito capace di pensare e ragionare, di decidere liberamente
e di amare; la nostra umanità è la nostra comune-umanità
(= com-unità), cioè il nostro vivere associato. Ebbene …
nessuno dà a se stesso la propria umanità, poiché
nessuno viene al mondo … da se stesso. Ognuno di noi è stato generato:
non tutti sono fratelli/sorelle; non tutti sono padre/madre. Ciascuno però
è figlio: ha ricevuto quell’umanità che costituisce la sua
ricchezza primordiale, il suo patrimonio più prezioso. E quali siano
i beni che costituiscono questo patrimonio, l’ho già detto.
A questo punto è necessario che richiami una fondamentale
verità, già accennata: la persona umana giunge alla pienezza
della sua umanità non da sola ma attraverso chi quella pienezza
già possiede. In questo senso profondo dicevo che ogni uomo è
generato: come tale, come uomo. Che cosa significa «attraverso chi
possiede già la pienezza di umanità»? Rispondendo a
questa domanda noi comprenderemo che cosa significa «educare»,
dal momento che «educare» equivale a «trasmettere l’umanità».
Ho riletto in questi giorni un’opera assai suggestiva di un grande
storico, l’opera di A.G. Hamman, La vita quotidiana dei primi cristiani
(BUR, Milano 1998). Ciò che mi colpisce di più ogni volta
che penso alla Chiesa dei primi decenni, è la modalità con
cui si è costituita: oggi diremmo il suo metodo di evangelizzazione.
“Nessuna parola è più esatta di quella usata da Tacito e
Plinio - «contagio» - per caratterizzare la nuova religione
e la sua propaganda che si svolge sussurrata dalla sposa al consorte, dallo
schiavo al padrone e da questo allo schiavo, dal cliente al calzolaio nel
segreto della bottega, come è provato dalle testimonianze che ci
sono pervenute” (pag. 10).
Abbiamo qui la definizione più suggestiva e più precisa
di ciò che significa «educare»: è un contagio.
Che cosa significa?
Una persona, che per comodità chiameremo Andrea, incontra
un’altra persona che chiameremo Simone. Andrea vive in un modo tale la
sua vita umana, quella intendo dire di ogni giorno, che Simone sente anche
lui il desiderio di viverla nello stesso modo: non nel senso materiale,
nel senso di fare esattamente le stesse cose. Ma nel senso profondo di
trovare lo stesso gusto, gioia, passione per la vita di ogni giorno. Donde
la domanda: «ma tu, come fai a vivere così, ad essere sempre
così?». Ed Andrea spiega, propone. Alla fine i casi sono due.
O Simone dice «ci provo anch’io!» o Simone dice: «come
sarebbe bello, ma io non ce la faccio!».
Ecco il «contagio educativo» di cui parla anche lo
Hamman. Ripensiamo bene all’episodio appena narrato. C’è una persona,
Andrea, che vive la sua esperienza umana in modo tale da suscitare in un’altra
persona, Simone, un desidero: quello di vivere nel modo nuovo. Questo desiderio
non è prodotto, è solo suscitato, acceso con più forza:
il desiderio di vivere bene. Di essere nella beatitudine. Da questo desiderio
nasce la domanda: «come posso anch’io…?». Dalla risposta alla
domanda nasce la scelta libera. Si ha un incrociarsi stupendo di attesa-scoperta,
di domanda-risposta, di desiderio-compimento.
Ora possiamo capire che cosa significa «educazione»
come «trasmissione di umanità». Essa è un incontro
fra due persone, nel quale ciascuna è profondamente coinvolta. Non
dimentichiamola mai: l’educazione è un avvenimento, un fatto che
accade con una novità sempre sorprendente. Non è mai l’applicazione
di regole prefabbricate. E’ un avvenimento nel quale ogni persona è
profondamente coinvolta. Pensare che sia possibile educare senza lasciarsi
coinvolgere pienamente nel rapporto educativo, è semplicemente assurdo.
Questo coinvolgimento consiste nel fatto che l’educatore propone, esibisce
una pienezza di umanità, la sua, come vera e quindi desiderabile.
Consiste nel fatto che chi è educato, pone la domanda ultima: «quale
è la vita vera?», non come domanda astratta, ma come domanda
che chiede all’educatore di dire le ragioni della sua esistenza. Insomma:
si istituisce una convivenza nel senso più intenso del termine,
un «contesto vitale».
Il nome delle due persone non era poi così immaginario.
E’ una straordinaria pagina del Vangelo che narra precisamente il primo
«contagio educativo-cristiano»: Gv 1,35-42.
3. Da ciò che ho detto finora, e sono arrivato all’ultimo punto
della mia riflessione, deriva una conseguenza di straordinaria, decisiva
importanza nella vita di un popolo: il luogo originario dell’educazione
della persona umana è la famiglia. Originario significa positivamente
che in nessun altro luogo è così naturale e così facile
educare una persona; significa negativamente che nessun altro luogo può
sostituirsi alla famiglia e che il fallimento dell’educazione in famiglia
è gravido di conseguenze normalmente inguaribili.
Perché è luogo originario? Perché
nella famiglia accade come spontaneamente, naturalmente quell’incontro,
quel reciproco coinvolgimento, quel «contagio» di cui ho parlato
sopra. Quando allora nella famiglia non si educa? Quando cessa quella convivenza
profonda, totale che fa accadere l’atto educativo.
E siamo così arrivati al «nodo» delle
difficoltà, della questione educativa in famiglia. La difficoltà,
in sostanza è una sola: la difficoltà di essere una vera
comunità di persone. Spesso, “il benessere economico non sembra
né coincidere né correlarsi positivamente non un benessere
di tipo relazionale” (P.P. Donati). Una vera comunità di persone
si costruisce nel passare del tempo assieme; nel passare del tempo assieme
non in un qualunque modo, ma nel dialogo profondo su «ciò
che conta nella vita» [dal tempo quantitativo al tempo qualitativo];
dialogo su ciò che conta, nel quale c’è un confronto su temi
che implicano delle scelte di fondo, ultime, fondamentali nella vita.
Le vere insidie quindi all’educazione in famiglia sono quelle
che insidiano la verità della comunione inter-personale: il poco
tempo passato assieme; un dialogo che si ferma alla superficie della vita;
l’impossibilità-incapacità di offrire risposte forti alle
domande dei figli.
Alla fine, se mi chiedeste: fare il «mestiere di genitori»
è difficile o facile? Vi risponderei: è il mestiere più
difficile di tutti perché è il più facile di tutti.
E’ come il «mestiere di vivere». E’ il più difficile,
poiché si tratta di generare una persona umana e nulla è
più grande di una persona umana; è il più facile,
poiché si educa semplicemente convivendo.
Termino con un esempio. Immaginiamo che nella stanza in cui ci
troviamo di notte, venga a mancare all’improvviso la luce. Proviamo ad
immaginare che nonostante il nostro procedere, non sentiamo mai nessuna
parete e quindi non troviamo mai nessun interruttore: sarebbe insopportabile.
Ho semplicemente descritto la condizione del bambino, del ragazzo,
del giovane non educato o meglio privo di educatori: una condizione nella
quale si può muovere ovunque, ma senza avere nessun punto fermo.
E’ la disperata noia di una libertà insensata.
La luce si accende quando Simone incontra Andrea: quando accade
il fatto educativo. E’ l’esperienza mirabile della generazione di una persona:
è la missione dei genitori.
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