Testimonianza al Master Fininvest
«Etica della comunicazione»
Milano, 3 luglio 1989
La mia presenza nel vostro curriculum di studio appartiene al genere delle “testimonianze”. E la testimonianza verte sempre su un fatto, resa davanti a un giudice, perché questi possa giudicare secondo la legge, perché sia resa giustizia ad un imputato.
Questa semplice descrizione di una esperienza — quella del testimone appunto — ben nota a ogni cultura umana indica già i momenti fondamentali della mia riflessione: il fatto di cui intendo rendere testimonianza; il giudice davanti al quale intendo rendere testimonianza; la legge secondo cui il giudice giudicherà; la persona a cui rendere giustizia.
1. Il fatto da testimoniare
Esso è così semplice, cosi scontato, così (presumibilmente) noto che sembra inutile voler rendere testimonianza a esso. È il fatto della comunicazione inter-umana: le persone umane inter-comunicano. Ma come spesso accade nei fatti umani, i fatti più semplici nascondono i più profondi misteri e solo lo spirito che ha perduto la più grande capacità spirituale, quella di meravigliarsi, passa accanto a questi fatti senza neppure un minimo sospetto del mistero dell’evento accaduto.
Che cosa c’è, dunque, di così mirabile e misterioso nel fatto del comunicare umano? La domanda era già stata posta, colla forza della semplice e pura testimonianza, all’inizio della nostra civiltà occidentale, da Socrate nel contesto della sua implacabile contestazione contro i “conservatori” del suo tempo, le autorità ateniesi, e contro i “progressisti” del suo tempo, i Sofisti. Secondo i primi, la comunicazione umana era la base che assicurava il permanere della società nei suoi tessuti connettivi: la religione tradizionale, le leggi e consuetudini. La comunicazione umana era il nesso che permetteva il passaggio da una generazione all’altra dell’identità costitutiva di un popolo. Secondo i Sofisti, la comunicazione umana era lo strumento attraverso cui ottenere il consenso della persona con cui si comunicava, a una decisione già presa da chi iniziava la comunicazione. E, pertanto, per il Sofista la comunicazione era semplicemente l’arte di convincere l’altro, nel senso di accettare una proposta-decisione già presa.
Le due descrizioni della comunicazione umana partivano da alcuni presupposti comuni sia al “conservatore” sia al “progressista”. Il primo e più importante era che nella comunicazione ciò che è più importante non è ciò che si comunica, ma il modo con cui si comunica ciò che si comunica: Platone annota che i Sofisti sapevano rendere forti anche i discorsi più deboli. Il secondo presupposto era che la verità/falsità di ciò che si comunicava non era decisamente importante: vera o falsa la religione tradizionale essa doveva continuarsi a comunicare; vero o falso ciò che si diceva, il consenso dell’altro non ne era condizionato, ma l’importante era conoscere bene l’arte di comunicarlo. Il terzo e ultimo presupposto era che la comunicazione non si rivolgeva all’uomo come uomo, ma all’uomo come cittadino chiamato a vivere in una società o all’uomo come acquirente di proposte di ogni genere.
Socrate testimonia il fatto della comunicazione inter-umana in un contesto altamente drammatico, contestando uno a uno tutti e tre questi presupposti e ponendo il fatto della comunicazione dentro all’uomo come uomo: e la sua testimonianza si è definitivamente impiantata dentro alla nostra coscienza occidentale.
Ritorniamo, dunque, al fatto della comunicazione con una coscienza ora più avvertita e un’attenzione più vigilante. Come esso accade?
La prima constatazione e che esso può accadere a diversi gradi di profondità, a secondo del grado di coinvolgimento delle persone che comunicano. Forse semplificando un poco, mi sembra di poter individuare tre gradi di comunicazione, fondamentalmente.
Il primo è rappresentato dalla comunicazione quale accade nella comunità scientifica: essa è caratterizzata dalla completa espulsione della soggettività personale dalla comunicazione. Essa è la comunicazione della verificabilità pura. Mi spiego. Nessuno ha bisogno di conoscere la vita di Einstein per capire la teoria della relatività o, ancor meno, di aver parlato con lui. Il criterio infatti per qualificare come “scientifica” un’affermazione e che essa possa essere sottoposta a verifiche sperimentali in qualunque momento e in qualunque luogo, prescindendo completamente dalla persona dello sperimentatore.
Il secondo è rappresentato dalla comunicazione quale accade nelle comunità umane che non hanno in se stesse e per se stesse la loro ragione d’essere. Devo a questo punto, prima di procedere, fare una distinzione importante. Esistono comunità umane la cui ragione d’essere è semplicemente quella di essere. Sono comunità che si propongono null’altro che se stesse. Il caso tipico è quello dell’amicizia: la comunione interpersonale istituita dall’amicizia non si propone qualcosa di diverso che l’amicizia stessa. Essa vale in se stessa e per stessa, non in quanto mediante essa mi propongo qualcosa d’altro che non sia l’essere amici. Ma esistono comunità umane che non hanno in se stesse e per se stesse la loro ragione d’essere. Gli uomini che lavorano in un’impresa non si ritrovano oggi giorno perché sono amici o come si ritrovano gli amici. Essi si propongono uno scopo, in vista del quale e per raggiungere il quale stanno assieme. Esiste certo una comunicazione inter-umana fra questi uomini: una comunicazione, certo, che non prescinde dalle qualità delle persone comunicanti, come accade nella comunità scientifica. Tuttavia, il rapporto-comunicazione è sempre “in funzione di…”: è un rapporto col capo-ufficio; è un rapporto con il possibile fruitore-consumatore di servizi-beni offerti.
Ma esiste anche un terzo livello di comunicazione. Vorrei descriverlo, partendo da una quotidiana, mirabile esperienza umana, l’esperienza dell’amore umano. È una comunicazione in cui l’altro è “sentito” come assolutamente insostituibile: nessuno può prendere il suo posto, né ora né mai. Questo senso di insostuibilità è generato dalla percezione della singolare, unica preziosità della persona dell’altro, semplicemente nel suo puro esserci. L’impresa produttiva di latte artificiale per neonati pensa: come è utile (per noi) che nascano i bambini! La donna che ha generato nell’amore la sua creatura, pensa: come è bello che tu ci sia!
Si ha in questo terzo livello una comunicazione inter-umana nella quale le persone che comunicano sono coinvolte radicalmente. Radicalmente, perché questa comunicazione esige un atto di libertà compiuto col massimo di intensità, dal momento che essa (comunicazione) comporta il rischio della suprema gratuità del dono di sé all’altro.
La mia testimonianza è così ricondotta alla sua semplice sostanza: questo evento, l’evento di una comunicazione di terzo livello, può realmente accadere nell’esistenza di ogni uomo; ogni uomo può realmente consentire ad essere coinvolto dentro questa esperienza.
2. Davanti a quale giudice?
Ogni testimonianza è resa davanti a un tribunale, a un giudice. La testimonianza del fatto appena raccontato può essere resa solo davanti a un tribunale: il tribunale della vostra coscienza morale. Solo questo giudice è degno di ricevere questa testimonianza, perché solo esso la può ascoltare e capire.
Che cosa è la coscienza morale? Perché solo essa può ascoltare e capire questa testimonianza?
A. La coscienza morale è qualcosa di ben diverso che il complesso delle nostre opinioni quotidiane, dei nostri desideri. Per cogliere la preziosità di questa realtà, la più grande ricchezza dell’uomo, possiamo partire da alcune semplici esperienze della nostra vita quotidiana.
Perché noi non proviamo lo stesso sentimento posti davanti alla Pietà di Michelangelo e davanti ad un qualsiasi blocco di marmo? Perché nel primo caso siamo di fronte alla “bellezza” e ogni uomo ha in sé un “senso estetico” che gli consente di discernere il bello dal brutto. Immaginiamo un uomo carente completamente di questo senso: a costui sarebbe precluso tutto un intero universo, l’universo della bellezza. La sua esistenza sarebbe infinitamente più povera.
Perché quando ci viene chiesto di risolvere un difficile problema, nel momento in cui troviamo la soluzione sentiamo in noi un sentimento di gioia, che non proviamo quando... mangiamo un cibo che ci piace? Perché nell’uomo c’è un profondo desiderio di verità, di capire la realtà, un desiderio per cui giudica istintivamente che è bene essere intelligenti ed è un male essere stupidi.
Perché quando vediamo che un uomo, approfittando della fiducia accordatagli da un amico, lo tradisce, proviamo un senso di disgusto nei confronti di questo comportamento? Perché nell’uomo c’è un “senso” di ciò che è giusto e di ciò che è ingiusto: un senso che gli fa discernere il giusto dall’ingiusto. Chiamiamolo “senso morale”. Riflettiamo brevemente sopra di esso, per precisare meglio questa misteriosa e mirabile esperienza.
Come potete subito constatare, si tratta di un rapporto e di una relazione che viene istintivamente istituita fra quel comportamento (tradire un amico...) e un valore, quello della fedeltà: un ordine di giustizia offuscato, deturpato da quel comportamento.
Questo ordine di giustizia non è una creazione dell’uomo: siccome abbiamo deciso che non si deve tradire chi ti dà fiducia, allora... Non è questa l’esperienza che viviamo. L’ordine della giustizia si impone a noi con una tale forza che quando lo vediamo presente nel nostro agire, istintivamente approviamo, quando lo vediamo tradito, istintivamente disapproviamo. La forza di questo ordine è talmente potente che, anche quando la nostra libertà lo rifiuta, non per questo esso cessa di rimproverare.
Ecco, abbiamo descritto sommariamente la coscienza morale. In sintesi: essa è un atto spirituale mediante il quale, la persona umana discerne il giusto dall’ingiusto, nella luce di un ordine 0 di una legge di giustizia che illuminando il comportamento umano, consente alla persona di discernere.
B. Perché la testimonianza di quel fatto può essere resa solo davanti al tribunale della vostra coscienza morale? Riprendiamo in esame i tre possibili livelli della comunicazione umana.
È chiaro che la comunicazione, quale avviene nella comunità scientifica, non ha bisogno di presentarsi al tribunale della coscienza morale. Essa avviene e si appella esclusivamente al tribunale della ragione che verifica la proposizione scientifica.
È chiaro altresì che la comunicazione di secondo livello non ha bisogno di presentarsi al tribunale della coscienza morale. Essa avviene e si appella esclusivamente al tribunale della ragione tecnica. La comunicazione che si istituisce fra la ditta che produce latte artificiale per neonati e i neonati stessi riesce o fallisce in base a fattori tecnicamente atti o inadatti a raggiungere lo scopo per cui quella comunicazione è cercata: vendere il proprio latte artificiale.
Per verificare il primo tipo di comunicazione, basterà rifare le esperienze a cui lo scienziato-scopritore si appella per affermare ciò che afferma; per verificare il secondo tipo di comunicazione, alla fine di ogni anno finanziario, la ditta tira le somme.
Ma è altresì chiaro che il terzo tipo di comunicazione può solo presentarsi al tribunale della coscienza morale: può appellarsi solo a questo tribunale.
Per poter discernere fra mille blocchi di marmo una scultura di Michelangelo, non devo ricorrere all’analisi chimica: nei due casi si ha lo stesso risultato. Solo il “senso estetico” può operare questo discernimento. Per farvi accettare la verità del fatto cui ho reso testimonianza non posso dirvi: “fai il seguente test di laboratorio” oppure “controlla la proposizione fra costi e guadagni”. Posso solo dirvi: metti in atto la tua coscienza morale e vedrai che esistono comunicazioni davanti alle quali puoi solo dire: “come è giusto, come è bello comunicare in questo modo!”. E il segno di questa scoperta è che verso questa comunicazione l’uomo si sente profondamente attratto: non può non essere liberamente e fortemente attratto.
3. Quale è la legge di questo giudice?
L’occhio per vedere ha bisogno della luce: è la luce che rende visibili gli oggetti. L’atto del vedere è compiuto dall’occhio, ma non è l’occhio che accende la luce; esso ne è solo illuminato.
La comunicazione che accade nella comunità scientifica, avviene secondo le leggi proprie della conoscenza scientifica.
Quale è la luce che illumina l’occhio della propria coscienza, consentendogli di vedere quel fatto testimoniato?
Poc’anzi, descrivendo una particolare esperienza umana, abbiamo detto una cosa molto importante. Che cosa è che ci fa discernere una statua di Michelangelo da qualsiasi pezzo di marmo? Il fatto che in questo pezzo si trova impressa-espressa la bellezza e il senso estetico entra in funzione per questa presenza. Che cosa è che ci fa provare quel senso di particolare disgusto di fronte al comportamento dell’amico che tradisce la fiducia? Il fatto che in questo comportamento si trova impressa-espressa una deturpazione dell’ordine della giustizia e il nostro senso morale entra in azione, nella luce di questo ordine.
Dobbiamo riflettere brevemente su questo ordine alla luce del quale il tribunale della coscienza giudica.
Notiamo subito che si tratta di un ordine, di una legge ben diversa da quelle umane. Queste sono scritte nei codici, quella è scritta nel cuore della persona. L’ordine della giustizia, alla luce del quale la coscienza giudica, è costituito da inclinazioni della persona, che strutturano i movimenti del suo spirito.
«Io non credevo, poi, che i tuoi divieti fossero tanto forti da permettere a un mortale di sovvertire le leggi non scritte, inalterabili, fisse degli dei; quelle che non da oggi, non da ieri vivono, ma eterne; quelle che nessuno sa quando comparvero. Potevo io, per paura di un uomo, dell’arroganza di un uomo, venir meno a queste leggi davanti agli dei? Ben sapevo di essere mortale... Morire adesso, prima del tempo, è un guadagno per me» (Sofocle, Antigone, 2° Episodio)
4. Quale è l’imputato che deve essere difeso?
In tutta questa vicenda c’è qualcuno che rischia di essere condannato? Sì, è l’uomo, l’uomo che è ciascuno di noi. Egli infatti è oggi messo sotto accusa. Di che cosa lo si accusa?
Come voi sapete, tre “maestri” del pensiero si sono particolarmente meritati il titolo di pubblico ministero in questo drammatico processo che stiamo vivendo in questi giorni: Marx, Freud e Nietzsche. E la loro, più che un’accusa, è stato il tentativo di ingenerare nel nostro spirito il sospetto, il peggiore dei sospetti: il sospetto che essere qualcuno non è essenzialmente diverso che essere qualcosa.
Mi spiego. Che l’uomo abbia molto in comune coll’universo non umano è una constatazione che ci viene imposta quotidianamente dalla nostra esperienza: come gli animali, l’uomo ha dei bisogni per il cui soddisfacimento ha creato un complesso sistema economico; egli si accoppia perché la specie umana possa perpetuarsi e così via. Ma la nostra esperienza ci attesta che anche e proprio dentro a ciò che abbiamo in comune con ciò che non è umano, abita “qualcosa” di propriamente e specificatamente umano. Oppure, l’uomo deve essere ricondotto esaustivamente al non-umano, per cui le espressioni che da sempre l’umanità ha interpretato come rivelazione del fatto che essere qualcuno è più che essere qualcosa, sono invece maschere che devono essere strappate, per potere finalmente vedere il vero volto dell’uomo?
Se è dato all’uomo di vivere quel fatto della comunicazione, a cui ho voluto rendere testimonianza, questo sospetto è assolutamente infondato: l’uomo è, può decidere di essere, deve essere qualcuno, non qualcosa.
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