S. Messa di esequie per Enzo Menetti e Teresa Minarini deceduti nello scoppio della palazzina di S. Benedetto del Querceto
Chiesa parrocchiale di Monterenzio, 30 dicembre 2006
1. "Venite a me, voi tutti che siete affaticati ed oppressi, ed io vi ristorerò". Col peso della nostra fatica e della nostra oppressione abbiamo ascoltato l’invito del Signore di venire a Lui per essere ristorati. Sollevati dal peso della nostra incapacità di trovare un senso a tragedie come queste.
Il Signore rivolge il suo invito in primo luogo a coloro che piangono e soffrono la morte dei loro cari. Ma lo stesso invito è rivolto anche a noi tutti: "venite a me, voi tutti che siete affaticati ed oppressi, ed io vi ristorerò".
Il fatto che abbiamo accolto l’invito del Signore, indica che abbiamo bisogno, un bisogno struggente, di incontrarci con qualcuno che sappia donarci vera consolazione.
Certamente abbiamo anche il diritto di sapere se l’evento tragico trova ragioni in precise responsabilità degli uomini. Ma altri sono i luoghi in cui si va a cercare risposta a questa legittima domanda; in cui si opera la rigorosa e doverosa verifica di queste eventuali responsabilità.
Siamo venuti in questo luogo a cercare risposta al bisogno di decifrare un mistero infinito che ci domina: quello della morte.
Tuttavia, il Signore ci avverte subito che queste cose sono nascoste ai sapienti ed agli intelligenti, e sono rivelate ai piccoli. L’uomo è ristorato dalla sua fatica e dalla sua oppressione non dai suoi ragionamenti, che mai come in queste situazioni si dimostrano vani, ma dal porsi semplicemente – come fanno i piccoli – nel calore di un rapporto con una Presenza su cui fondarci e a cui stringerci, quando catastrofi come queste si abbattono su di noi. Più che della chiarezza di una spiegazione razionale abbiamo bisogno del calore di un rapporto interpersonale. Solo questo calore ci dà l’intima sicurezza che possiamo vivere avendo la certezza che ci sono sempre buone ragioni per continuare a farlo.
Esiste una risposta a questo bisogno? Riascoltiamo la parola evangelica: "nessuno conosce il Figlio se non il Padre. E nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare". Il Cristo questa mattina ci ha invitati a Lui perché vuole rivelarci che il nome di Dio è il nome di Padre. È in questa rivelazione la risposta al bisogno che mai come in questi momenti sentiamo urgere nel cuore, che cioè il nostro dolore sia redimibile; che abbia un senso anche se da noi non percepibile. Cristo ci rivela, rivelandoci il Padre, che l’uomo non è stato gettato nella vita e nella morte da una fatalità senza nome. L’uomo, ogni uomo, esiste e muore amato da Dio che è Padre. Sono le parole dell’Apostolo appena ascoltate che ci aiutano in modo particolare.
2. "Io sono infatti persuaso che né morte né vita … né alcun altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, in Cristo Gesù".
Di fronte ad avvenimenti tragici come questo l’uomo prova il senso di essere come consegnato ad un destino indecifrabile. La paternità di Dio rivelataci da Cristo in questa liturgia ci assicura che niente e nessuno ci potrà distaccare dall’amore che Dio ha per noi; che niente e nessuno è più forte dell’amore che Dio ha per noi. Alla fine noi non siamo mai abbandonati, né in vita né in morte, perché niente e nessuno potrà mai separarci dall’amore che Dio ha per noi.
L’apostolo ci dice che questo amore ci è stato mostrato "in Cristo Gesù". Dio ha risposto alla domanda di senso che portiamo nel cuore in momenti come questi, non attraverso la spiegazione razionale ma attraverso la condivisione compassionevole. Cristo, Dio fattosi uomo, è morto per vincere la nostra morte: la sua condivisione alla nostra condizione è ciò che ci ristora definitivamente dalla nostra fatica di vivere e dalla oppressione della morte. Fatica ed oppressione che non solo non ci allontanano dal calore della sua Presenza, ma sono il motivo più forte per cui siamo invitati ad usufruirne.
Usciremo da questo luogo – se avremo accolto questo invito – non necessariamente con maggiore chiarezza, ma sicuramente con più profonda consolazione.
L’uomo resta capace di credere anche quando dice: "sono troppo infelice", perché – come Giobbe – egli sa che il suo Redentore è vivo, e che si ergerà a salvarlo dal nulla eterno: "buono e giusto è il Signore, il nostro Dio è misericordioso".
La fede in Cristo non estingue il pianto, ma impedisce il pianto disperato.
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