La responsabilità degli educatori oggi
Contributo all’opuscolo «L’educazione è cosa di cuore». La responsabilità degli educatori oggi, con Presentazione del card. Agostino Vallini, Lateran University Press, Città del Vaticano, gennaio 2012
Il tema che cercherò non dico di trattare ma semplicemente di abbozzare, è nella più ampia problematica della questione educativa uno dei temi più drammaticamente urgenti ed essenziali: la «Responsabilità degli educatori, oggi».
Vorrei iniziare da una constatazione elementare. L’agire educativo pone l’educatore in rapporto con un’altra persona umana: la persona che chiede di essere educata. Dunque, l’educatore è responsabile, nel modo che vedremo, di una persona umana.
La responsabilità che l’educatore ha di una persona esige che egli si ponga in modo giusto nei suoi confronti; in modo giusto, cioè adeguato alla sua natura di persona umana, commisurato alla sua dignità e valore.
Abbiamo così già individuato un significato non secondario della responsabilità dell’educatore. Egli è collocato dalla sua azione in relazione con una persona umana, e quindi ne è responsabile.
Arrivati a questo punto della nostra riflessione la domanda che sorge in noi è la seguente: in che modo, cioè con quale azione egli deve porsi in relazione con la persona da educare, perché possa dire di farlo nel modo adeguato alla natura della persona medesima?
La risposta a questa domanda esige da noi che descriviamo l’azione educativa come tale.
So bene che entro in un campo in cui esistono tante dottrine, anche fra loro contrarie. Ma non voglio addentrarmi in discussioni dottrinarie. Non è nemmeno la mia competenza. Procederò in maniera molto più semplice, cercando di essere il più aderente possibile all’esperienza.
E partiamo da una domanda: di che cosa ha bisogno l’uomo per crescere nella sua umanità?
Il bisogno dell’uomo ha un contenuto molto vasto e variegato, conformemente alla multidimensionalità della persona umana.
Ha bisogno in primo luogo che le venga insegnato a custodire, difendere, nutrire la sua vita biologica: esiste un ambito di bisogni che sono dell’uomo in quanto essere vivente.
Ha bisogno in secondo luogo che le venga insegnato non solo a vivere, ma a con-vivere poiché la persona umana è costituzionalmente sociale. Nell’ambito di questo bisogno, entriamo più esplicitamente in un modo di essere che rivela l’originalità della persona: il concetto e l’esperienza di regola; il rapporto con l’altro [estraneo? nemico? prossimo?]. La società umana infatti è essenzialmente diversa dal branco degli animali, poiché è formata da due grandi categorie spirituali [ignote agli animali]: la giustizia e la carità.
Ha bisogno in terzo luogo che le venga dato risposta al suo bisogno di conoscere la realtà, al suo bisogno di felicità.
In sintesi: la persona umana ha bisogno: a) di vivere: b) di convivere; c) di godere della verità conosciuta.
L’educazione è la guida della persona; è l’aiuto dato alla persona perché cresca al punto da essere essa stessa capace di vivere, di convivere, di conoscere e godere della verità conosciuta. Volendo dire la stessa cosa in termini quasi banali: educare significa equipaggiare la persona di tutto ciò che è necessario per vivere; per convivere; per conoscere e godere della verità conosciuta. Questa è la responsabilità dell’educatore nei confronti della persona che ha da essere educata.
Con ciò è detto tutto sulla responsabilità dell’educatore? Oppure se si ponesse termine ora al nostro discorso, non si tralascerebbe forse di parlare della vera, della più grande responsabilità dell’educatore? La cultura in cui viviamo — dirò dopo il perché — rende estremamente difficile la risposta.
Faccio una constatazione storica e un’esemplificazione... grammaticale. La constatazione storica. È esistito l’uomo greco e di conseguenza una paideia greca; è esistito l’uomo romano e di conseguenza la institutio latina; è esistito l’uomo rinascimentale e di conseguenza una coerente educazione. E così via. Esiste poi un paradigma dei verbi in base al quale viene coniugato qualsiasi verbo.
L’uomo greco, l’uomo romano, l’uomo rinascimentale avevano gli stessi bisogni di cui ho parlato prima — di vivere, di con-vivere, di conoscere la verità e goderne — e da questo punto di vista non erano fra loro diversi. Tuttavia questi stessi bisogni erano coniugati, cioè pensati e vissuti secondo un «paradigma antropologico» ben diverso in ciascuna delle tre esemplificazioni suddette. Se cambia il «paradigma antropologico», cambia il modo di pensare e vivere i fondamentali bisogni umani.
Per «paradigma antropologico» intendo un’immagine dell’uomo, una «forma viva» [R. Guardini] di uomo ritenuto il vero uomo. Non è semplicemente una dottrina sull’uomo: questa viene di conseguenza, dopo. La dottrina infatti è sempre astratta e non tocca il cuore.
Sono così finalmente arrivato al cuore della responsabilità dell’educatore. Egli è responsabile di fronte alla persona da educare, di condurla alla realizzazione di sé secondo la [forma viva della] vera umanità. Detto in altri termini: o l’educatore plasma chi gli è affidato secondo quella forma viva di uomo che ritiene vera o non è un educatore responsabile. Egli non risponderebbe al bisogno più profondo di chi gli è affidato: il bisogno di essere vero uomo; il bisogno di vivere una vita buona; il bisogno di vivere felicemente.
Il dramma attuale dell’educazione — lo chiamiamo «emergenza educativa» — è che non si ammette che esista una tale immagine dell’uomo: l’educatore può trovarsi in un deserto antropologico, e quindi accontentarsi di rimanere dentro ai bisogni. O come si dice oggi: l’educazione è finalizzata semplicemente al know-how; ad equipaggiare l’uomo degli strumenti per vivere. L’educazione non deve preoccuparsi di trasmettere un progetto di vita, ritenuto vero e buono.
Anzi, durante questi ultimi decenni è stata delegittimata la concezione della responsabilità dell’educatore di mostrare la «forma viva» della vera umanità. La delegittimazione viene esibita come più adeguata e al sistema democratico, alla condizione di multiculturalismo in cui viviamo, e al dato di fatto che ci troviamo dentro un conflitto di antropologie.
Non posso a questo punto non citare una pericope dell’Alcibiade Maggiore di Platone, dove il tema è già chiaramente enunciato.
Socrate. Ebbene, potremmo mai sapere quale arte renda migliore se stessi, mentre ignoriamo chi siamo noi stessi? Alcibiade. È impossibile. Socrate. Ma è forse facile conoscere se stessi ed era un buono a nulla colui che ha posto quell’iscrizione sul tempio di Delfi, oppure si tratta di una cosa difficile e non alla portata di tutti? Alcibiade. Molte volte, Socrate, mi è sembrata una cosa alla portata di tutti, molte volte, invece, assai difficile. Socrate. Tuttavia, Alcibiade, che sia facile oppure no, per noi la questione si pone così: conoscendo noi stessi potremo sapere come dobbiamo prenderci cura di noi, mentre se lo ignoriamo, non lo potremo proprio sapere [129 A].
Prima di procedere oltre, vorrei riflettere sul costo che ha una riduzione della responsabilità dell’educatore al semplice know-how; quale prezzo ha esigito e sta esigendo. Lo dico servendomi di una espressione di R. Bodei: il prezzo pagato è la «rottamazione dell’io». Quando dico «io» intendo il nucleo sostanziale spirituale che costituisce il proprium dell’essere personale, la vera scriminante fra l’humanum e il non humanum.
L’io si costituisce nel momento in cui agisce liberamente. In un certo senso, l’io nasce esistenzialmente nella scelta libera; è la scelta libera il suo grembo.
Ma l’esercizio della libertà umana intesa come libertà di scelta — ce ne accorgiamo subito se facciamo un po’ di attenzione a noi stessi — presuppone sempre un giudizio circa la bontà di ciò che sto scegliendo. La libertà implica sempre un riferimento alla verità.
Ma c’è qualcosa di più profondo. Ogni scelta in fondo è radicata in un desiderio naturale, che precede cioè ogni scelta perché ne è la condizione di possibilità: il desiderio di beatitudine, di una pienezza di essere nella quale la «ferita del cuore» è definitivamente sanata. Ultimamente, ogni scelta è fatta o non fatta a seconda che si ritenga essere o non essere risposta a quel desiderio. Di ciò siamo particolarmente consapevoli quando si tratta di fare la scelta del proprio stato di vita, per esempio.
Se è però vero che siamo come fili d’erba assetati di felicità; se è vero che ciò a cui tende la nostra volontà come al suo fine ultimo è la felicità, la determinazione del bene il cui possesso si ritiene essere in grado di spegnere la nostra sete, dipende dalla decisione di ciascuno, di ogni singolo. Ed è in questo che l’uomo diventa artefice del suo destino, diventa in senso totale un io. La libertà, nel senso più profondo, è la capacità che ha l’io di disporre di se stesso in ordine a quel bene o valore che ritiene essere il più importante. Ed è nell’esercizio di questa libertà, che la persona umana ha bisogno dell’incontro con l’altro; cerca di essere illuminata, orientata.
La vita si decide nella risposta che la libertà decide di dare alla verità ultima circa se stesso, circa la realtà nella sua interezza.
«Questo riferimento [= il riferimento della decisione libera alla verità] appartiene all’essenza del decidere, e in particolare si manifesta nella scelta. La ragione essenziale della scelta e della capacità di scegliere non può essere altro che lo specifico riferimento alla verità» (K. Wojtyla, Persona e atto, Rusconi, Milano 1999, p. 333).
Il rifiuto da parte dell’educatore nel proporre una visione, una immagine viva dell’uomo nella sua integralità, impedisce alla persona di attingere alla vera ricchezza della sua umanità: il suo io. Se limito la proposta educativa ad un know-how, ad un «equipaggiamento tecnico», lasciando fuori la ragione e lo scopo per cui ho da mettere in atto la capacità acquisita, escludo dal rapporto educativo la persona in ciò che ha di più profondo. E, di conseguenza, nel momento in cui — al termine del rapporto educativo — lascio la persona che mi era stata affidata, l’abbandono in una sorte di «terra di nessuno [le leggi bronzee dell’economia, la volontà di potenza, il regno dell’Es e della libido] in cui l’io appare come fantasma dominato da forze primordiali». (M. Borghesi, Il soggetto assente. Educazione e scuola tra memoria e nichilismo, Itaca ed., Castel Bolognese 2006, p. 38).
Ho spiegato, spero, in che senso parlo di «rottamazione dell’io», come prezzo da pagare a chi sostiene e pratica un’azione educativa che nega la responsabilità dell’educatore a trasmettere una immagine, una forma viva di uomo vero.
Siamo così giunti all’affermazione più grande circa la responsabilità dell’educatore: l’educatore è responsabile della nascita di un io, di una persona. Cioè di quanto esiste di più grande nell’universo creato. Del resto, da secoli la tradizione cristiana definisce l’educazione come una continuata generazione, a iniziare da S. Paolo (cfr. 1 Tess 2, 7).
Quanto detto però sembra contraddittorio: come si genera un io nella libertà proponendogli una visione della realtà anzi una visione di se stesso che è propria di chi lo educa? Non è meglio che la responsabilità dell’educatore si limiti entro i confini della trasmissione del sapere; del sapere come vivere e come convivere? Concretamente: a trasmettere semplici regole di comportamento, regole quanto più formali, prive di contenuto.
Questa difficoltà oggi non infrequente, è una delle radici più importanti del malessere educativo che stiamo attraversando. Essa è una conseguenza di un grave errore antropologico: pensare che il rapporto fra libertà e appartenenza sia di proporzione inversa. Più libertà se minore è l’appartenenza, fino a pensare che la persona libera è la persona che non appartiene a nessuno.
Naturalmente non sono negati — e come potrebbero esserlo? — l’appartenenza familiare, nazionale, storica, culturale. Tuttavia sono considerati semplici passaggi psicologici ed emotivi verso la vera libertà intesa come pura auto-determinazione. Non posso ora fermarmi a riflettere lungamente su questa tematica, mi limito ad alcune osservazioni maggiormente attinenti al nostro tema.
La scelta della libertà non nasce dal niente: dal niente non nasce niente. Nasce dal confronto fra la proposta di vita (che si fonda su una visione del mondo e dell’uomo) fatta dall’educatore, e la soggettività della persona che si va sviluppando, che si ha da educare. L’atto educativo non fa nascere un io libero perché non propone nulla, ma perché propone in modo che chi riceve abbia un terreno su cui porsi ed un referente con cui confrontarsi, un’ipotesi interpretativa della realtà da verificare. E qui abbiamo scoperto la radice ultima della questione: la fiducia nella ragione.
Se partiamo dal presupposto che non esista una verità circa il bene della persona; che non esiste nell’uomo un desiderio innato di «sapere come stanno le cose», ma solo di cercare il proprio bene privato e individuale, essendo di conseguenza ogni proposta di vita un’opinione non razionalmente condivisibile, che diritto ha l’educatore di proporre all’educando la propria visione del mondo e dell’uomo?
Lasciamo per un momento l’ambito della riflessione educativa per una considerazione più generale.
Se partiamo dalla certezza che esiste una verità circa il bene della persona; che esiste di conseguenza un bene comune fra le persone, l’eventuale controversia sulle ragioni di convinzioni anche opposte, non diventa mai una controversia fra rivali. Diviene un incontro fra alleati nella ricerca comune della verità.
Se, al contrario, sono convinto che abbia ragione D. Hume quando scrive che non siamo capaci di fare un passo oltre noi stessi (Cfr. Opere filosofiche I, Trattato della natura umana, Laterza, Roma-Bari 2002, p. 80), delle due l’una. O si impone colla forza il proprio punto di vista (non necessariamente la forza fisica); o ciascuno vive in un’insuperabile estraneità all’altro.
Il relativismo è l’ospite più inquietante e ingombrante nella dimora dell’educatore, perché lo conduce a generare degli a-polidi non solo e non principalmente in senso politico.
E allora? C’è un fatto originario che contesta alla radice la possibile deriva relativista dell’educazione? Esiste ed è narrato in un verso virgiliano stupendo.
Rivolgendosi ad un neonato, il poeta gli dice: «incipe, parve puer, risu cognoscere matrem» (Virgilio, Egloga IV, 60). Il bambino entra in un territorio che non conosce, nell’universo dell’essere che ignora. Le domande fondamentali che ha dentro sono due: «che cosa è ciò che è? » [domanda di verità]; «ciò che è, mi è ostile o benevolente?» [domanda di bene]. Egli ha la risposta nel modo con cui la madre gli sorride, cioè lo accoglie. L’essere, il mondo è disponibile ad accogliermi: la verità dell’essere è il bene. Benedetto XVI continua a ripeterlo: la realtà è abitata dal Logos; il Logos è Agape. Quando questo incontro originario con la realtà non accade, sappiamo bene quali conseguenze devastanti ha su tutta la vita della persona.
Un volto indifferente, il volto della sfinge non fa nascere un io libero: «... risu cognoscere matrem».
Siamo così giunti a scoprire una dimensione drammatica della responsabilità dell’educatore: l’educatore è responsabile, è custode della verità dell’essere e della verità circa il bene della persona. È responsabile della nascita di un io, non semplicemente libero, ma veramente libero perché liberamente vero.
Dobbiamo ora infine ma non dammeno chiederci quale è la modalità attraverso la quale l’educatore propone la sua visione del mondo, la sua proposta di vita.
Tutti, penso, siamo convinti che non si può ridurre l’educazione all’istruzione. All’educatore vero interessa soprattutto non che l’educando apprenda qualcosa, ma diventi qualcuno. In che modo?
Fondamentalmente che il «qualcuno» che gli è proposto di diventare, sia incarnato, e abbia preso corpo nell’educatore, e in modo affascinante. La modalità propria del rapporto educativo è la testimonianza dell’educatore.
La testimonianza non è mero insegnamento, il quale come tale si rivolge all’intelletto. La testimonianza tocca intimamente la persona: muove l’io verso la sorgente profonda da cui la testimonianza sgorga.
Benché non si riduca ad esso, la testimonianza implica l’esempio. Quando l’educatore contraddice con il suo comportamento ciò che propone, normalmente la sua proposta non ha alcuna forza. Agostino non ha imparato la lingua greca per le vergate che prese dal suo primo insegnante di quella materia.
Ciò non significa che all’educatore non sia permesso sbagliare: è inumano pretendere questo. Ma quando accade, il riconoscere lo sbaglio è profondamente educativo. Il riconoscimento testimonia nei fatti che la verità della proposta fatta è tale da esigere che si prenda posizione a suo favore, anche contro se stesso. Questo può causare un fascino assai profondo sull’educando.
Abbiamo così scoperto un’altra dimensione della responsabilità dell’educatore: è la responsabilità di testimoniare la verità circa il bene della persona. Socrate è stato il primo grande educatore in Occidente perché contro il potere ha testimoniato la verità circa il bene della persona, fino a subire la morte.
Conclusioni
Siamo andati scoprendo via via le varie dimensioni della responsabilità educativa, che mi sembrano principalmente tre. L’educatore ha la responsabilità della nascita di un io veramente libero e liberamente vero; ha la responsabilità della custodia della verità circa il bene della persona; ha la responsabilità della testimonianza alla verità circa il bene dell’uomo.
Mi chiedo, per concludere, c’è una sorgente nascosta da cui sgorga continuamente questa triplice responsabilità dell’educatore? In ultima analisi c’è un’esperienza interiore che custodirà sicuramente questa responsabilità contro ogni potere? Esso infatti tenta sempre comunque di privarne l’educatore. Esiste. La descrivo colle parole di Romano Guardini: «A dispetto di tutte le regole tratte dall’esperienza, e degli scopi e degli ordinamenti, egli deve — con il suo intimo atteggiamento — sempre di nuovo ritornare a quella consapevolezza che non si esprime con affermazioni come: “questo bambino qui, in mezzo ad altri cinquanta”, bensì dice: “tu, bambino; unico nel tuo essere — di fronte a me” chi non è capace di agire così, è un allevatore di individui utilizzabili dallo Stato; è un addestratore di abili forze economiche — ma non un vero educatore di uomini» (Etica, Morcelliana, Brescia 2001, p. 895).
Ed è solo l’amore che fa guardare l’altro come “unico nel suo essere”: «l’educazione è cosa di cuore...» [San Giovanni Bosco].
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