LA DIGNITÀ DEL MORIRE
Intervento al Seminario di studio
6 giugno 1998
Vi ringrazio profondamente dell’invito rivoltomi a partecipare
a questo Seminario di studio. Esso mi dà modo di riflettere su uno
dei “momenti”, su uno dei fatti nei quali si vede più chiaramente
in che misura ci siamo addossati la causa dell’uomo cioè l’affermazione
della sua dignità.
Due sono soprattutto “i momenti” in cui una cultura scopre se
stessa in ordine alla considerazione che ha della persona: il momento dell’origine
e il momento della fine della sua vita (terrena). Voi siete coinvolti nel
secondo.
Per brevità e chiarezza vorrei annunciare subito l’idea
di fondo della mia riflessione; se volete, la sua tesi centrale. E’ questa:
l’assistenza domiciliare oncologica si trova al punto in cui si scontrano
due forze spirituali, una cultura nella quale sono già state poste
tutte le premesse per eutanasia e un ethos medico che custodisce il valore
della vita come valore indisponibile per chiunque.
L’esposizione accurata di questa tesi esigerebbe tre momenti.
Dapprima mostrare e dimostrare che nella nostra cultura esistono già
tutte le premesse dell’eutanasia; in un secondo momento spiegare che cosa
significa custodire il valore della vita come valore indisponibile per
chiunque; in un terzo momento indicare concretamente come un medico, che
sta vivendo un’esperienza come la vostra, debba collocarsi dentro a questa
situazione. Il tempo che ho a disposizione mi costringe ad essere molto
schematico.
1. Quali sono le premesse che sono necessarie e sufficienti a giustificare
(si fa per dire) l’introduzione dell’eutanasia come scelta di civiltà?
Esse sono fondamentalmente due.
1,1. Già Platone qualificava il suicidio come un atto
di ingiustizia, in quanto l’uomo in esso afferma il possesso di una realtà
che non gli appartiene. La vita umana, caso unico nel mondo dei viventi,
appartiene esclusivamente alla divinità. Come sempre, Platone aveva
guardato profondamente dentro alla sostanza del problema. La domanda di
fondo è già posta: a chi appartiene la vita umana? di chi
è proprietà la persona umana? La risposta a questa domanda
dipende alla fina completamente dalla risposta alla domanda: donde ha origine
la persona umana? Se è il caso che ne spiega l’origine, se è
solo per caso che ciascuno di noi esiste, non si vede perché non
debba essere la mia libertà a decidere di me stesso in modo assoluto.
Anzi è precisamente l’esercizio della mia libertà ad inscrivere
un significato dentro alla pura causalità del vivere. E quindi,
come sono io che decido come devo vivere, senza riferimenti ad istanze
che mi trascendano, così sono io che devo decidere quando morire.
In sintesi, la prima premessa è la seguente: sradicata la persona
da ogni appartenenza che la sostenga nell’essere, tutto deve essere lasciato
esclusivamente alla sua libera decisione.
1,2. Ma questo non basterebbe. L’introduzione dell’eutanasia trova
la seconda fondamentale premessa nell’assunto che è possibile un’esistenza
umana priva completamente di senso, una vita – come comunemente di dice
– priva di qualità. E’ un punto centrale: che cosa qualifica positivamente/
negativamente una vita umana? Si è andata introducendo la convinzione
che la vita possa essere qualificata interamente da ciò che non
dipende dalla tua scelta libera, ma dalla “fortuna” o dal “destino”. Certo:
esistono tante pene e miserie umane. Molti di noi ne hanno conosciute tante,
anche in proprio, o da vicino. Si parla spesso perfino di vite sprecate.
Ma in realtà quale è la vera “qualità” della vita
umana? che cosa significa un’esistenza umana in quanto umana? E’ la capacità
dell’uomo di diventare, con una decisione eterna, consapevole di
se stesso come spirito, come “io”, come uno che sta davanti a Dio. E questa
decisione non dipende da altro che dall’io stesso. Quando si perde questa
consapevolezza, la consapevolezza di se stessi posti dalle proprie elezioni
davanti a Dio, l’uomo si perde nel fluire del tempo ed il criterio di valorazione
di se stesso muta completamente: che utilità ha il mio rimanere
in vita? Quale felicità posso ancora prevedere? O posso solo prevedere
sofferenza? In un parola: la vita non vale davanti a Dio, ma in se stessa.
Il che equivale a dire: il suo valore è un valore che può
cessare, non eterno.
E siamo giunti allo stesso risultato: una vita sradicata da un’appartenenza
che la sostenga nell’essere, che le doni un valore indistruttibile, può
essere priva di ogni significato.
Come nelle reazioni chimiche, i catalizzatori facilitano la reazione
stessa, così ci sono stati dei catalizzatori che hanno reso particolarmente
efficaci quelle due premesse. Divenendo la salute anche un problema politico,
esso non poteva non essere pensato secondo categorie utilitaristiche. La
domande del singolo: la mia vita vale ancora la pena di essere vissuta?
si coniuga sempre più con la domanda del politico: quanto costa
mantenere in vita questa persona?
Il secondo catalizzatore è costituito dalla convinzione
che la legge civile deve essere sempre più mera trascrizione di
costumi sociali.
2. Custodire il valore della vita come valore indisponibile per chiunque
significa due negazione e un’affermazione.
Negativamente significa l’esclusione sempre, in ogni caso
dell’eutanasia. “Per eutanasia in senso vero e proprio si deve intendere
un’azione o un’emissione che di natura sua e nelle intenzioni procurala
morte, allo scopo di evitare ogni dolore “ (Evangelium Vitae 65,1).
Negativamente significa l’esclusione del c.d. accanimento terapeutico.
Per accanimento terapeutico si intende il ricorso ad interventi medici
non più adeguati alla reale situazione del malato, perché
ormai sproporzionati ai risultati che si potrebbero sperare, o perché
troppo gravosi per lui o la famiglia (cfr. ibid.).
Positivamente significa assicurare le cure normali ed anche le
«cure palliative» destinate a rendere più sopportabile
la sofferenza nella fase finale della malattia, anche se l’uso di analgesici
o sedativi avesse l’effetto collaterale di abbreviare la vita. Tuttavia
non si deve privare il malato della coscienza di sé senza grave
motivo.
3. Come allora il medico che vive l’esperienza delle cure palliative
ai neoplastici terminali in assistenza domiciliare, deve porsi in questa
situazione?
Egli deve essere profondamente consapevole della dignità
della sua professione: la certezza di essere difensore della vita.
Più precisamente. Ho mostrato nel primo punto della mia
riflessione che l’eutanasia è giustificata in un contesto culturale
in cui la persona è sradicata da ogni esperienza di appartenenza
vera. “La domanda che sgorga dal cuore dell’uomo nel confronto supremo
con la sofferenza e la morte, specialmente quando è tentato di ripiegarsi
nella disperazione e quasi di annientarsi in essa, è soprattutto
domanda di compagnia, di solidarietà e di sostegno nella prova.
E’ richiesta di aiuto per continuare a sperare, quando tutte le speranze
umane vengono meno.” (Evangelium Vitae 67). E’ questo profondo rapporto
di compagnia, di solidarietà e di sostegno nella prova che il malato
terminale necessita.
Essa è il concreto modo in cui esperimenta un’appartenenza
più profonda: quella ad un Mistero di Amore che è la spiegazione
ultima di tutto ciò che accade, anche della morte.
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